Che si fa con Monti
Il Pd, Bersani e le strategie post elettorali sul futuro del prof.
Tra i molti e suggestivi “non detti” di questa fase finale della campagna elettorale ce n’è uno in particolare che riguarda un tema che in caso di vittoria di Pier Luigi Bersani avrà una certa importanza, diciamo un minuto dopo la chiusura delle urne: insomma, che si fa con Mario Monti? Bersani, naturalmente, sa che Monti non è un politico come gli altri e sa che in caso di vittoria difficilmente potrà limitarsi a contare e non “a pesare” i voti che otterrà alle elezioni il prof. bocconiano (un po’ per la storia di Monti, un po’ per la sua rete di relazioni e un po’ per il suo prestigio internazionale).
Tra i molti e suggestivi “non detti” di questa fase finale della campagna elettorale ce n’è uno in particolare che riguarda un tema che in caso di vittoria di Pier Luigi Bersani avrà una certa importanza, diciamo un minuto dopo la chiusura delle urne: insomma, che si fa con Mario Monti? Bersani, naturalmente, sa che Monti non è un politico come gli altri e sa che in caso di vittoria difficilmente potrà limitarsi a contare e non “a pesare” i voti che otterrà alle elezioni il prof. bocconiano (un po’ per la storia di Monti, un po’ per la sua rete di relazioni e un po’ per il suo prestigio internazionale). Ma nonostante ciò, e nonostante la frase sibillina sussurrata in questi giorni da Massimo D’Alema ad alcuni suoi interlocutori (“Monti potrà ottenere al massimo quello che non candidandosi avrebbe ottenuto al minimo”), ci sono già alcuni paletti che sono stati fissati da diversi importanti esponenti del Pd. Seguendo questo tracciato è possibile intuire che cosa ha in serbo il centrosinistra per Monti per il dopo elezioni. Il primo paletto è quello fissato dal vicesegretario del Pd Enrico Letta (non esattamente un anti montiano), che in queste ore ha spiegato ai suoi collaboratori che comunque andranno le cose Monti ha “perso” quel profilo “istituzionale” che gli avrebbe garantito un accesso facilitato alla presidenza della Repubblica (“Luoghi come il Quirinale – è il pensiero di Letta – sono incompatibili per chi ha una leadership politica di parte”). Il secondo paletto è quello fissato da Stefano Fassina, che negli ultimi giorni ha ripetuto più volte che “il ministro dell’Economia dovrà essere politico, basta con i tecnici” e che in più occasioni ha spiegato perché Bersani non ha intenzione di farsi commissariare da nessuno la sua politica economica. “Nonostante la scelta di competere alle elezioni ne riduca notevolmente la sua forza specifica – spiega al Foglio Fassina – con Monti ci si rapporterà come un asset importante della nostra Repubblica per affrontare con forza le sfide dell’Europa. E nel futuro è ovvio che il professore dovrà avere una posizione importante e di rilievo istituzionale”. Già, ma in che senso?
La traduzione plastica dei ragionamenti di Letta e Fassina sono le due caselle che secondo molti bersaniani potrebbero essere messe a disposizione di Monti dopo le elezioni. La prima è quella degli Esteri, dove Monti dovrebbe riuscire però a vincere la concorrenza di un importante esponente del Pd (indizio: ha i baffi). La seconda è quella della presidenza del Senato, un incarico che Bersani ha intenzione di offrire a un esponente della lista di centro anche per non ripetere lo stesso errore commesso da Prodi nel 2006 quando dopo aver vinto le elezioni per una manciata di voti si rifiutò di allargare la maggioranza concedendo al Centro di Casini la guida di Palazzo Madama. A voler essere esatti la presidenza del Senato è anche l’obiettivo esplicito di Pier Ferdinando Casini e considerando che il leader dell’Udc è riuscito a posizionare in modo scrupoloso i suoi uomini nelle liste di Palazzo Madama (nelle regioni in cui Monti dovrebbe superare il quorum al Senato i candidati sicuri sono quasi tutti casiniani) chissà che non abbiano ragione i renziani quando dicono che “al Senato alla fine si tratterà più con Casini che con Monti”. Al centro del gustoso dibattito sul che farà Monti nel caso in cui dovesse vincere Bersani c’è però sempre il problema di scegliere come misurare il consenso di Monti. Monti difficilmente può essere inchiodato a un semplice numero elettorale; ma nonostante ciò nel centrosinistra sta prendendo sempre più consistenza l’idea di trattare i voti di Monti non pesandoli ma semplicemente contandoli. “La possibilità di un rapporto con i moderati – dice al Foglio Matteo Orfini – dipenderà dalla compatibilità programmatica. E naturalmente conteranno i voti. Conviene contarli e non pesarli anche a Monti. Il presidente del Consiglio doveva rivoluzionare il sistema politico, stravolgere i poli, partiva con una credibilità altissima e invece, probabilmente, arriverà quarto. Capirete anche voi che se inseriamo elementi di valutazione politica nella misurazione del risultato è innegabile che, secondo questi criteri, la sconfitta di Monti alle elezioni rischierebbe di pesare più del singolo risultato elettorale…”.
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