Parolieri di ultima istanza
Al G20 della crescita fiacca le Banche centrali si riprendono il potere
Nel tentativo di placare le speculazioni sulla “guerra valutaria”, i ministri delle Finanze e i banchieri centrali, riunitisi ieri a Mosca per il vertice del G20, hanno minimizzato il fatto che alcuni paesi stiano operando svalutazioni competitive per sostenere le rispettive economie e penalizzare le altre. Secondo la bozza del comunicato finale del G20, l’obiettivo è scagionare il Giappone, precedentemente messo sotto accusa da un controverso comunicato del G7, il forum delle sette principali economie del mondo, pubblicato martedì.
Nel tentativo di placare le speculazioni sulla “guerra valutaria”, i ministri delle Finanze e i banchieri centrali, riunitisi ieri a Mosca per il vertice del G20, hanno minimizzato il fatto che alcuni paesi stiano operando svalutazioni competitive per sostenere le rispettive economie e penalizzare le altre. Secondo la bozza del comunicato finale del G20, l’obiettivo è scagionare il Giappone, precedentemente messo sotto accusa da un controverso comunicato del G7, il forum delle sette principali economie del mondo, pubblicato martedì. La Bank of Japan, in concerto con il governo, sta attuando una politica monetaria iperespansiva per risollevare l’economia depressa e preda della deflazione, spirale ribassista di prezzi e consumi. Impostazione voluta dal governo conservatore di Shinzo Abe, eletto a dicembre, e considerata il “casus belli” della cosiddetta “guerra valutaria”. Ieri, a difesa di Tokyo, si è espresso il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría: “Non c’è una guerra valutaria”, ha detto, “le politiche di Giappone e Stati Uniti non hanno altro scopo che sostenere la crescita”, visto che anche la Federal Reserve dal 2008 ha “stampato” oltre 2 mila miliardi di dollari per contrastare la disoccupazione. E’ la stessa linea del direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde. Il comunicato finale del G20 verrà pubblicato oggi ma, secondo indiscrezioni, ricalcherà quello del novembre scorso in cui si chiedeva di lasciare decidere al mercato il tasso dei cambi valutari. Non tutti, però, sono d’accordo.
Per il governo tedesco il rischio di una guerra valutaria rimane. Ma questa è una battaglia che si sta combattendo soprattutto con le parole. “Discorsi” sulla guerra valutaria sono “inopportuni e inutili, in ogni caso controproducenti”, ha detto ieri da Mosca il presidente della Bce, Mario Draghi, designato “portavoce” del G20. Draghi sa quel che dice: la settimana scorsa è stato sufficiente un suo intervento verbale da Francoforte per frenare l’apprezzamento dell’euro sul dollaro che allarma in particolare il governo francese. La voce di un banchiere, infatti, è molto efficace nel baccano generale.
Le parole di Mario Draghi sovrastano il rumore di fondo prodotto dal dibattito internazionale sui cambi, tema caldo per governi e investitori. Anche un rapporto della Bce di un anno fa sosteneva che i comunicati e le dichiarazioni ufficiali dei banchieri centrali riducono l’incertezza. “La parola è uno strumento di politica monetaria usato spesso, ma è più ‘visibile’ quando la volatilità domina i mercati finanziari – dice al Foglio Nicolas Véron, senior fellow del think tank brussellese Bruegel – Viene utilizzata anche in condizioni normali dai banchieri centrali. Può impressionare che muovano i cambi solo parlando, ma è uno strumento che non è stato prodotto dalla crisi, piuttosto viene esaltato da essa”. Lo si era capito quando, nel 2011, Ben Bernanke ruppe il tabù di una Federal Reserve che non si sottoponeva al rito della conferenza stampa (la Bce lo fa da tempo). Da allora, analisti e reporter hanno imparato a leggere le labbra del banchiere più influente del mondo. E a ogni indizio su una politica monetaria più o meno espansiva, il dollaro reagiva di conseguenza. A fare scuola è però, ancora una volta, Draghi. “Faremo di tutto per salvare l’euro”, sono le sette parole che a luglio hanno salvato l’Eurozona per davvero, seguite dall’annuncio del piano d’acquisto di bond europei da parte della Bce (Outright Monetary Transaction). “Credetemi, sarà sufficiente”, disse Draghi a settembre. “E’ chiaro, Bernanke e Draghi sono tra i più abili nel lanciare messaggi ai mercati nella prospettiva di intervenire concretamente”, dice Véron ricordando che Draghi aveva già dimostrato le sue capacità alla guida della Banca d’Italia.
E’ come la “politica del bastone” che il presidente repubblicano, Theodore Roosevelt, adottava nei confronti dei paesi sotto l’influenza americana (“Parla a bassa voce e porta con te un grosso bastone, andrai lontano”): “E’ per questo che le persone ascoltano i banchieri centrali e non altri”, nota Véron. Eppure la favella e lo charme non sempre bastano. Il nuovo governatore della Bank of England, Mark Carney, è stato criticato dall’International Herald Tribune a inizio febbraio per non avere accennato ai fatti che potranno scaturire dalle sue promettenti parole, mentre l’Inghilterra rischia di tornare in recessione per la terza volta nonostante i continui stimoli monetari. “I mercati sono sensibili alle aspettative ed è per questo che comunicare è sempre più importante”, dice al Foglio James Nixon, capo economista di Société Générale. E’ dunque una capacità che dovranno affinare anche i futuri banchieri centrali visti i cambi al vertice della Bank of Japan, il mese prossimo, e della Fed, nel 2014.
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