Eternamente Sanremo

Annalena Benini

E’ successo il terzo giorno, dal primo minuto, quando sono entrati sul palco e hanno cantato, per mano, “Vattene amore”, lui diligente e lei stonatissima. Fabio Fazio e Luciana Littizzetto hanno finalmente lasciato che il Festival di Sanremo li possedesse, diventasse anche per loro il “mio barbaro invasore”, qualcosa di meno e molto di più di “Che tempo che fa”. Cinque giorni di immersione e svenimento dentro un mondo di televoto e rime, commozione da divano, necessità di una predica gentile, ma anche e sempre voglia di un po’ di sangue spars.

    E’ successo il terzo giorno, dal primo minuto, quando sono entrati sul palco e hanno cantato, per mano, “Vattene amore”, lui diligente e lei stonatissima. Fabio Fazio e Luciana Littizzetto hanno finalmente lasciato che il Festival di Sanremo li possedesse, diventasse anche per loro il “mio barbaro invasore”, qualcosa di meno e molto di più di “Che tempo che fa”. Cinque giorni di immersione e svenimento dentro un mondo di televoto e rime, commozione da divano, necessità di una predica gentile, ma anche e sempre voglia di un po’ di sangue sparso (quest’anno è toccato a Maurizio Crozza, impreparato al palco di trottolino amoroso, l’anno scorso il gelo travolse Adriano Celentano, e ogni volta ci si incrudelisce con gioia su pettinature, braccia grosse e versi come “e se anche i baci si potessero mangiare ci sarebbe un po’ più amore e meno fame”). Non sarà mai il Festival dei buoni sentimenti e della virtù morale, anche se Fabio Fazio è il più bravo di tutti nel metterli insieme con grazia e fare scrivere a Roberto Baggio una lettera ai giovani in cui spiega che il successo sta anche nel fare il muratore, fare confessare al grande cantante Antony che da piccolo menava la sorella e adesso è pentito e invoca il matriarcato, fare raccontare con i cartelli a due uomini innamorati che dopo tutti questi anni hanno deciso di sposarsi (“Perché lo amo”, “Perché lo amo”). Non sarà mai il Festival dei Buoni perché è il Festival di Tutti, anche di quelli che non lo guardano e rivendicano quindi una cattiveria di genere, è anche il Festival di chi spera che Bianca Balti scivoli dalla scalinata, che Malika Ayane stoni (o che qualcuno le tagli le mani così smette di gesticolare mentre canta una bella canzone con un bel finale sanremese: “Tu restami un po’ addosso”), è il Festival anche di chi non avrà mai il coraggio di dire che avrebbe tanto voluto una valletta gnocca e muta da prendere in giro, e che si sente un po’ offeso da tutta questa brillantezza, ironia, da Luciana Littizzetto che taglia i peli di barba di Peppe Vessicchio (un monumento alla sanremità) e se li mette nel reggiseno, come quando si tornava da Berlino con pezzetti di muro, sollevati e allo stesso tempo estasiati da qualcosa che ha smesso di esistere ma di cui si conservano le prove.

    Il Festival di Sanremo, invece, esiste e ci specchia, ogni inverno, anche se ci sono stati anni in cui sembrava morto, e editoriali in cui ci si augurava l’abbattimento di quel muro di zucchero filato. Ma ha sempre ripreso vita (quest’anno gli ascolti migliori dal Duemila), sia che lo si consideri un cugino scemo a cui dire: facce Tarzan, sia che ci si aspetti il messaggio, la scoperta o almeno l’assoluzione dalle nostre piccolezze. Se Luciana Littizzetto chiede a Felix Baumgartner, l’austriaco che si è lanciato da trentanovemila metri, se dall’alto cade più in fretta un uomo o una cacca di piccione, significa che anche noi possiamo ancora ridere alla parola cacca, se Littizzetto chiede a Carlo Cracco, tutto vestito da cerimoniale, cosa pensi dei bastoncini surgelati, lui non capisce nemmeno cosa siano e lei gli risponde che i bastoncini certe sere sono “cara grazia”, allora non dobbiamo sentirci in colpa di cenare a bastoncini e trovarli sempre buonissimi, anche se poco chic. E se Fabio Fazio fa carinamente la parte di quello che suda davanti a Bar Refaeli, lui che portò al Festival Renato Dulbecco, lui che è amico di David Grossman e riesce ad avere sul palco Caetano Veloso, allora si può continuare a riguardare su YouTube la scena dell’anno scorso, Belén Rodriguez che scende le scale con o senza mutande, il brivido che non è mai volato via. Fazio e Litti si sono autoparodiati, lui ha fatto il maschio italiano basico, che si estasia se Bar Refaeli riesce a dire “Almamegretta”, lei ha fatto la acida e gelosa che non sopporta Carla Bruni, critica le tette di Maria Nazionale (“sembrano due gatte grasse”) e si irrita per i tacchi altissimi di Laura Chiatti. E mentre una pioggia sconvolgente di meteoriti si frantumava sui monti Urali, dopo che un esperto ospite, Roberto Giacobbo, aveva rassicurato tutto il Festival che quando si parla molto di meteoriti i meteoriti non si frantumano, mezza Italia si sente rasserenata, in mezzo a tutto questo gigantesco e inarrestabile “todo cambia” dalla certezza che, qualunque cosa accada, dimissioni del Papa, dilemmi elettorali, drammi giudiziari e spaventi di ogni tipo, Sanremo è lì, traboccante di mazzi di fiori da quattro chili, al massimo un po’ meno lussuoso, e sa raccontarci tutto quello che ci consola. Che Giuseppe Verdi ci commuove ancora. Che se Al Bano fa un “do” sul palco dell’Ariston mette incinta una a Cuneo. Che le braccia dopo i quaranta ballano da sole anche se si è magre. Che “Ciao amore ciao” è una canzone magnifica, e ci vuole sempre una sera in cui cantare quelle vecchie per essere felici. Che gli uomini non avvitano i coperchi sui barattoli, ma li appoggiano soltanto, così poi noi li prendiamo e crolla tutto. Che gli uomini non dicono mai “ti amo” perché temono provochi impotenza e assuefazione, dice Littizzetto: non importa che sia un cliché piuttosto finto, un ripescaggio da uno dei suoi libri, perché a Sanremo non si chiede di cambiarci la vita o di rivelarcela, ma di confermarcela: siamo ancora qui, è questo il senso, in grado di rimpiangere Aleandro Baldi e Francesca Alotta che cantano “Non amarmi”, siamo arrivati qui e ci ricordiamo di quando Laura Pausini cominciò con “Marco se n’è andato e non ritorna più”, di quando Giorgia era vestita da dalmata, siamo qui e stiamo tranquilli perché c’è anche Pippo Baudo, un po’ invidioso, ma comunque tutto è perdonato, siamo qui fiduciosi che se Marco Mengoni al primo ascolto era il nulla e al secondo già viene da cantare con lui “io mi allontano dagli eccessi e dalle cattive abitudini e torno a te che sei per me l’essenziale”, allora Sanremo è di nuovo Sanremo, anche mentre tutto cambia. Anzi, viene quasi la tentazione di aggrapparcisi. Con i fischi per i risultati del televoto che hanno lo stesso valore politico e la stessa intensità dei fischi a Crozza: la voglia di fare un po’ di casino, rivendicare il potere assoluto di biglietto pagato e pomodoro tirato. Solo che Fazio e Littizzetto sono perfettamente in grado di cavarsela e fare battute (“allora facciamo così: noi diciamo numero cinque e voi dite: noooo, buuu, ancora prima del nome così vi sfogate”), invece Crozza, nonostante i sette autori, si è immolato al senso di Sanremo per la crudeltà, quell’istinto rissaiolo che nei teatri è stato quasi sconfitto dalla buona educazione e dal senso di una missione culturale da compiere (nessuno tira più gatti morti sul palco), ma che all’Ariston sopravvive insieme con la confusione, la gente che cammina fra le poltrone, le pelliccione di visone che nemmeno i visoni indossano più e tutte quelle buone cose di pessimo gusto come regalare un mazzo piombato di fiori a Carla Bruni proprio mentre sta cercando di tenere nell’altra mano la chitarra (dopo avere accompagnato Luciana Littizzetto nella presa in giro della se stessa super snob), e sbatterla fuori dal palco carica come un attrezzista in tuta da lavoro: ciao cara, torna pure a Parigi, e riposati che sembri un po’ invecchiata. Ma ogni cosa è illuminata anche a Sanremo e ogni vendetta è giusta se Carla Bruni, gentilissima e ghiacciata, non ci ha offerto uno straccio di abito da sera: mentre Ilaria D’Amico ha fatto esercizi di apnea per settimane per entrare in un bustino che la rendesse ancora più bella, le sorelle Parodi si sono divise con cupidigia le sette parole con cui proclamare la canzone vincente, e le grandissime sportive, magnifiche campionesse olimpioniche, si sono tutte mortificate in abiti da sorellastre di Cenerentola, mentre loro si impegnavano a celebrare il Festival, insomma, Carla Bruni ci ha manifestato tutta la sua superiorità e il suo sguardo esterno sul nostro piccolo mondo di paillette e lacca per capelli scendendo le scale come una regina, ma vestita da ufficio: giacca e pantaloni grigi, larghi, maglietta nera, scarpe con il tacco grosso, quelle del mercoledì mattina quando bisogna sbrigarsi a prendere la metropolitana. Non ci meritavamo, borghesi piccoli piccoli, le sue braccia nude o un accenno di caviglia, ma solo le perfette buone maniere e gli azzurrissimi occhi assassini, con la canzone della sua personale bohème che comunque non abbiamo gli strumenti per capire, “Chez Keith et Anita” (Keith Richards e Anita Pallerberg, cose troppo rock per noi che ci commuoviamo, con picco di share, quando Al Bano canta “Felicità”, anche se mancava Romina, anche se davvero todo cambia, persino a Sanremo).

    Todo cambia e allora, come nella perfettamente festivaliera e immobile canzone di Mengoni, ci si allontana dagli eccessi (vallettissime, stranierissime, tettissime, televenditissime) e si ritorna all’essenziale: un po’ di tirannia del bene, perché ne abbiamo sempre bisogno, e quindi il monologo di Luciana Littizzetto contro la violenza sulle donne va applaudito, e chiamare stronzo uno stronzo violento è una banalità conosciuta ma mai abbastanza applicata; e un po’ di mondo parallelo, salotto internettaro, la soddisfazione di stare su Twitter a controllare le foto che Fabio Fazio posta da dietro le quinte (annullando la necessità di cronisti a Sanremo), pensando che legga i nostri commenti e agisca di conseguenza. “E io l’avevo anche tuìttato”, ha detto entusiasta dal palco, riferendosi al taglio della barba di Vessicchio (“me la metto nelle tette, il massimo dell’erotismo”, gridava Luciana), e anche direttori di rete, registi, cantanti, partecipano allegri al gioco di società della vicinanza amorosa, il gattino annaffiato che miagolerà, e noi col naso in giù, sui telefoni, e in su, sulla televisione, poi di nuovo in giù a controllare se qualcuno rituìtta il commento definitivo sul velleitarismo di Simone Cristicchi, che è riuscito a infilare Charlie Chaplin, Pier Paolo Pasolini, Sandro Pertini e suo nonno partigiano in una sola canzonetta. Sanremo internettiano ci offre la democratica possibilità di sentirci tutti, più pubblicamente di prima, un po’ conduttori, un po’ cantautori, un po’ comici senza ansia da palcoscenico, un po’ autori e un po’ parrucchieri delle dive, un po’ comari in cerca di cellulite. Con la certezza che la nostra è una genialità di tipo moderno, che verrà riconosciuta, aggiunta ai preferiti e rituìttata solo dai geni come noi, come scrisse Truman Capote di Diana Vreeland (“Bisogna essere dei geni per capire che lei è un genio”). Todo cambia e allora anche la faccia di Toto Cutugno non è più la stessa, ha assunto come un aspetto smaltato, o di parquet appena lucidato, mentre esprime tutta la sua nostalgia per la ex Unione sovietica e ospita a sue spese il coro dell’Armata rossa che canta con lui “Un italiano vero”, grandi pacche sulle spalle dopo tutte quelle volte al Cremlino. E’ un Festival di qualità, dicono tutti, anche mentre Cutugno canta in russo e Al Bano fa le flessioni per dimostrare la sua intatta vitalità di maschio del sud, anche mentre Maria Nazionale urla “E mo nun me fa cchiù stu terzo grado”, ma è soprattutto un Festival che non ci affatica, che ci alleggerisce. L’anno scorso Emma Marrone vinse cantando con le lacrime agli occhi di un paese che “no, non è l’inferno”, ma insomma quasi, adesso Daniele Silvestri piace moltissimo a tutti (no, non solo alle donne) cantando della libertà che è resistenza “e ho solo questa lingua in bocca e forse un mezzo sogno in tasca”, ma non c’è cupezza, o afflizione, è come se davvero ci stesse iniziando una musichetta dentro, perché todo cambia, e mentre fuori è un disastro, dentro al Festival si può fare arrivare Luciana Littizzetto nella carrozza di Cenerentola con le calze da centomila denari (significa molto coprenti) e lasciarle maltrattare tutte le bellone che, per il terrore di sembrare sceme, la osannano, l’abbracciano, chiedono altre frustate, e anche Fabio Fazio, che le ha dato un bacio di San Valentino (“Ma che schifo! Mi hai slogato la mascella”) si è lasciato andare alla leggerezza che aveva perduto: ha imitato Bruno Vespa, ha imitato Al Bano, ha ballato “Felicità”, proprio ballato muovendo le anche, ha imitato Piero Angela, ha ricantato trottolino amoroso dudù dadadà, anche intonato, sempre impeccabile e solo con lieve finto imbarazzo (“ma mi riprenderanno a Rai Tre dopo tutto questo?”), ma con un’aria nuova, come nella canzone di Battisti (“che sensazione di leggera follia sta colorando l’anima mia, immaginando preparo il cuscino, qualcuno è già nell’aria qualcuno, sorriso ingenuo e profumo”), come in un’innocente evasione.

    Se ci sono Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, gli invincibili, anche Rocco Siffredi può partecipare alla “Sanremo Story” e cantare con Elio e le Storie Tese (“La canzone mononota” è ritenuta una delle prove dell’esistenza degli Dèi e della modernità di questo Festival) senza che ci sia alcuna profanazione di tinelli. E potrebbe arrivare un meteorite dalle nostre parti, ed esplodere nell’atmosfera seminando frammenti nelle case, il Papa potrebbe ripensarci e ritirare le dimissioni, Silvio Berlusconi potrebbe ripensarci e ridare le dimissioni, Crozza potrebbe ripensarci e chiedere la rivincita, ma niente interromperà Sanremo e la lotta fra il televoto e la giuria di qualità. Se, come canta Silvestri, libertà è partecipazione sì, ma pure resistenza, il Festival di Sanremo è tornato a essere resistenza al mondo fuori, per i pochi giorni in cui Chiara Galiazzo e la sua testardaggine nello scegliere vestiti che non le donano e l’interrogativo su quando gli Elii si toglieranno le fronti finte diventano tutto quello che ci serve sapere, quello che ci basta per prendere un po’ di respiro, prima di rituffarci. Scrivo senza sapere chi ha vinto (mi piacciono Annalisa, Silvestri, Elio, Mengoni, ma l’anno scorso è stato molto di più il Festival delle ragazze e le canzoni di Noemi e Arisa restano fra le più belle di tutti i Sanremi), ma pronta ad accettare anche i Modà, anche Simona Molinari e Peter Cincotti (Cristicchi no, dài), se servirà a mantenere questa leggera euforia sanremese e questo trottolino amoroso un po’ più a lungo, anche fuori da lì, da domani.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.