La “papolatria” contemporanea è arrivata al culmine con Wojtyla, ora prevale un senso di liberazione

Nicoletta Tiliacos

Otto Kallscheuer, cattolico renano, dopo essersi occupato a lungo di filosofia della politica si è concentrato, negli ultimi anni, sul tema dei conflitti tra religione e politica nelle società contemporanee. Delle dimissioni di Benedetto XVI dice che, “per quanto possiamo stupircene, non erano affatto impensabili, oltre a essere pienamente legittime. Ma è vero che quella decisione comporta una diversa identificazione del ruolo del Papa e del suo ufficio, soprattutto se lo paragoniamo al suo predecessore. Il Papa polacco era un attore e incarnatore del colmo della ‘papolatria’, come la chiamano i protestanti.

    Otto Kallscheuer, cattolico renano, dopo essersi occupato a lungo di filosofia della politica si è concentrato, negli ultimi anni, sul tema dei conflitti tra religione e politica nelle società contemporanee. Delle dimissioni di Benedetto XVI dice che, “per quanto possiamo stupircene, non erano affatto impensabili, oltre a essere pienamente legittime. Ma è vero che quella decisione comporta una diversa identificazione del ruolo del Papa e del suo ufficio, soprattutto se lo paragoniamo al suo predecessore. Il Papa polacco era un attore e incarnatore del colmo della ‘papolatria’, come la chiamano i protestanti. Io non do un valore negativo a questa definizione, che fa i conti con le ragioni storiche del cattolicesimo nella difesa del potere temporale – ragioni che gli italiani ben conoscono – il che ha implicato anche un ripiegarsi nella religiosità popolare. L’identificazione della chiesa col Papa ha subito, dopo il Concilio Vaticano I, una concentrazione, ancor più accentuata dalla società dei media, in forme mai prima registrate. Prima, semmai, il Papa era un monarca spirituale tra tanti altri, e neanche con un così grande potere sulla chiesa. La ‘papolatria’ è invece frutto della modernità ed è arrivata – virtuosamente, con la morte di Giovanni Paolo II – a un suo culmine non superabile. Dopo, nessun altro Papa sarebbe stato in grado di fare di più. In Ratzinger gioca anche la differenza di carattere: quello era un incarnatore nato, questo è un professore che può scrivere libri più o meno sensati, encicliche più o meno calzanti. La debolezza di Wojtyla era una debolezza trionfante. In Ratzinger c’è un’onestà tedesca, non trionfante”. Delle motivazioni con cui Benedetto XVI ha rinunciato al papato, Kallscheuer è colpito da quella che esplicitamente richiama “un senso di inadeguatezza spirituale: non solo per la malattia o la vecchiaia, ma anche – penso – per l’incapacità delle risorse culturali della tradizione della chiesa nell’affrontare il passo della modernità. Dalla questione antropologica a quella che affronta il problema della guerra e della pace e l’autorità mondiale nella politica, di cui il Papa ha parlato nella sua ultima enciclica”. La sua sarebbe allora un’ammissione di sconfitta? “La sua decisione si può anche caricare di questo significato. E’ la sconfitta di un capo spirituale e politico che è stato duramente messo in difficoltà nel suo proprio ufficio, in forme davvero impensabili. Nel suo discorso ‘pro eligendo’, otto anni fa, colui che era ancora il cardinale Ratzinger aveva parlato delle difficoltà spirituali del magistero di San Pietro. Allora era visto come colui che conosceva meglio il Vaticano, il tutore dell’ortodossia. E invece, proprio sotto il suo pontificato, sarebbero cominciate le guerre più ignobili.

    Per fare il Papa non basta essere un buon teologo, e in questi termini credo che il suo senso di debolezza, di inadeguatezza, sia reale. Ma a volte è meglio prendere una decisione, forse anche sbagliata, ma prenderla, pur di mettere fine a quelle che sono sembrate vere guerre interne alla chiesa”. Kallscheuer pensa che “Benedetto XVI non sia stato in grado di trovare un linguaggio teologico rispetto alle nuove domande sulla questione antropologica, sulla bioetica, se non nei termini della vecchia teologia (appello al diritto naturale, alla dignità dell’uomo). E’ stato un intelligentissimo professore che non è stato in grado di guidare la chiesa. Il suo è un grande – e non vile – rifiuto, ma è anche la presa d’atto di una crisi del ruolo del papato. Viene meno l’illusione – o la grazia eccezionale di Giovanni Paolo II – che si possa recuperare con il carisma personale la crisi di una funzione. Queste dimissioni ci dicono che l’azione della chiesa deve essere reinventata. E’ avvenuto ai tempi del Concilio Vaticano I, ai tempi di Ildebrando di Soana diventato Papa Gregorio VII. Il quale, contro il simonismo della sua epoca, ha predicato una chiesa militante e puritana. Benedetto XVI ha fatto bene a riconoscere la sconfitta, ad ammettere onestamente i propri limiti. Le sue dimissioni, per la chiesa, non sono affatto un disastro, e anzi prevale il segno liberatorio, anche se è ancora difficile vedere la direzione successiva. Forse quella di più policentrismo, di più pluralismo”.