Programma di governo

Dal Fondo monetario s'ode una nuova melodia di politica economica

Stefano Cingolani

Il G20, Mario Draghi, il Fondo monetario internazionale. Si sta formando un coro di voci alla ricerca di una nuova melodia di politica economica. Il rigore ha fatto il suo tempo, anzi ha provocato più guasti del previsto per una serie di motivi la cui natura è stata esplorata al Fmi da Olivier Blanchard e dai suoi economisti. In soldoni, con la globalizzazione la reazione dell’economia alle politiche fiscali non è più quella di un tempo: le discese sono più rapide e le risalite più lente. Come correre ai ripari?

Leggi Fu Berlin-consensus di Antonio Pilati

    Il G20, Mario Draghi, il Fondo monetario internazionale. Si sta formando un coro di voci alla ricerca di una nuova melodia di politica economica. Il rigore ha fatto il suo tempo, anzi ha provocato più guasti del previsto per una serie di motivi la cui natura è stata esplorata al Fmi da Olivier Blanchard e dai suoi economisti. In soldoni, con la globalizzazione la reazione dell’economia alle politiche fiscali non è più quella di un tempo: le discese sono più rapide e le risalite più lente. Come correre ai ripari? Dal palazzone di Washington, arriva una serie di studi sulla stagnazione europea e, in particolare, italiana, vero caso di scuola. Pubblicati e letti alla vigilia delle elezioni, sembrano un’agenda per il prossimo governo. Il più recente risale a gennaio ed è un working paper preparato da due ricercatori, Lusine Lusinyan e Dirk Muir, del desk italiano; riflette le opinioni degli autori, ma è stato autorizzato da Kenneth Kang, il capo missione del Fmi, lo stesso che è venuto anche recentemente a fare le bucce e spulciare i conti. Kang da tempo insiste sulle riforme “mercatiste” come chiave affinché l’Italia recuperi il decennio perduto e riprenda il cammino della crescita. Lo studio contiene analisi e simulazioni estremamente ottimistiche. In sostanza, scrivono gli autori, “il tipo di riforme che sono state messe in atto potrebbero, potenzialmente, far crescere il pil del 5,75 per cento in cinque anni e di 10 punti e mezzo in un decennio”. A condizione, naturalmente, che vengano completate. E che a esse si accompagni un cambiamento della politica fiscale, “spostando la tassazione dalle imposte sul lavoro e sulle imprese verso le imposte indirette”. L’altro passaggio importante è qualificare la spesa, dando priorità non più ai trasferimenti generali, ma a ben precisi programmi infrastrutturali. Lo scorso anno una nota di discussione per i vertici del Fondo, intitolata “Fostering growth in Europe”, aveva già contribuito a fissare il nuovo paradigma: le riforme per aumentare il grado di concorrenza e di mercato (nell’industria e nei servizi, nel lavoro e nel capitale) sono la chiave che apre il forziere dello sviluppo in tutti i paesi anche se in modi e gradi diversi.

    Perché le riforme che aumentano il grado di concorrenza e di mercato diano risultati, però, occorrono da tre a cinque anni. Nel frattempo, bisogna aumentare la domanda interna dell’Europa: l’austerità recessiva rischia di vanificare gli effetti benefici della grande trasformazione. Ci vuole un sostegno alla congiuntura affinché le riforme strutturali abbiano efficacia e ottengano il necessario grado di consenso. I conti in ordine non sono l’alfa e l’omega della politica economica, ma un pre-requisito per usare il bilancio pubblico in funzione della crescita e ammortizzare l’impatto immediato delle liberalizzazioni e di un mercato del lavoro più flessibile, i pilastri sui quali poggia l’intera operazione.

    Le liberalizzazioni, secondo il Fmi, hanno un impatto positivo sulla crescita maggiore rispetto alle riforme del mercato del lavoro. “Più concorrenza nei settori commerciali e non, potrebbe far aumentare la produzione del quattro per cento in cinque anni e di ben 7,7 punti nel lungo termine” (dieci anni). Non solo. I benefici in termini di costi dei beni e dei servizi per i consumatori sono notevoli: i consumi crescerebbero del 9 per cento, gli investimenti del 6,5 e le esportazioni del 5,8 nel lungo periodo. Ciò avrebbe un effetto positivo sull’occupazione, ma anche sui salari i quali potrebbero salire del 7,3 per cento in termini reali. La competitività migliorerebbe: con una produttività del lavoro superiore di almeno otto punti, potrebbe scendere il costo del lavoro per unità di prodotto e il tasso di cambio effettivo si deprezzerebbe del 3,5 per cento. Un miracolo? No. Sciogliere i lacci e lacciuoli fa scattare la molla troppo a lungo compressa dell’economia italiana che, sottolinea lo studio, resta forte e solida nei suoi fondamentali.

    Un mercato del lavoro più flessibile aggiunge alla crescita mezzo punto nel primo anno (in linea con le liberalizzazioni), ma appena l’1,1 per cento nel quinquennio. Sono simulazioni in parte sorprendenti che fanno tirare un sospiro di sollievo alla Cgil e gettano nello sconforto la Fornero. La cautela dei ricercatori è dovuta soprattutto alle difficoltà di gestione che incontrano le riforme nel mercato del lavoro e l’impatto che può avere la protezione sociale sui conti pubblici. Tra i cambiamenti suggeriti, tra l’altro, c’è la realizzazione di un sistema di copertura per i periodi di disoccupazione che porti a superare la cassa integrazione. Ma qui l’incertezza sui costi e sui risultati resta alta, soprattutto se la riforma avviene in una fase di recessione o comunque di non crescita.

    L’esempio tedesco resta il punto di riferimento e mostra chiaramente che l’efficacia delle riforme è dovuta al fatto che sono state realizzate prima della grande crisi. Un altro working paper sul piano Hartz (dal nome del capo della Volkswagen incaricato da Gerhard Schröder di stilare le proposte) è stato appena pubblicato sempre dal Fmi (“Macroeconomic Evaluation of Labor Market Reform in Germany”). La disoccupazione, dopo essere salita a un picco dall’11 per cento nel 2005, è scesa al 7,5 per cento del 2008. Non sarebbe stato possibile con una Germania in recessione. Invece, i benefici della maggiore flessibilità e delle regole più rigide nella protezione sociale, si sono visti durante la crisi successiva. Ridotta la disoccupazione strutturale (di almeno un punto e mezzo nel lungo periodo), è diventato più facile anche gestire quella congiunturale.
    Un’altra condizione importante perché l’intera operazione abbia successo è che ci sia un certo coordinamento a livello europeo, essenziale nell’energia, un settore ormai strettamente integrato e nelle infrastrutture (treni e trasporti in genere). Ma un coordinamento occorre anche nella politica fiscale. E’ quel che chiede da tempo il G20. Nell’un caso e nell’altro, sono i tedeschi a fare orecchie da mercante.

    Leggi Fu Berlin-consensus di Antonio Pilati