Gelate al nord

Depressi in Lombardia e spaccati in Veneto, la caduta libera dei leghisti

Cristina Giudici

Lunedì, al grande abbraccio tra Silvio Berlusconi e Roberto Maroni, tra il pubblico della Fiera di Milano non c’era quasi un leghista. Nel Veneto improvvisamente fattosi traballante, per il centrodestra, i leghisti se le danno di santa ragione. A pochi giorni da un voto che per il segretario del movimento padano è “la madre di tutte le battaglie”, la Lega, crocefissa e poi risorta molte volte, ora rischia di dissolversi. Come la questione settentrionale, rimasta incagliata nelle acque basse del berlusconismo e che nessun sogno di “macroregione” può togliere dalle secche.

    Milano. Lunedì, al grande abbraccio tra Silvio Berlusconi e Roberto Maroni, tra il pubblico della Fiera di Milano non c’era quasi un leghista. Nel Veneto improvvisamente fattosi traballante, per il centrodestra, i leghisti se le danno di santa ragione. A pochi giorni da un voto che per il segretario del movimento padano è “la madre di tutte le battaglie”, la Lega, crocefissa e poi risorta molte volte, ora rischia di dissolversi. Come la questione settentrionale, rimasta incagliata nelle acque basse del berlusconismo e che nessun sogno di “macroregione” può togliere dalle secche. Gli analisti, al nord, sono confusi dalle contraddittorietà dei rilievi demoscopici (ufficialmente segreti), soprattutto per “l’onda anomala” dei grillini. Alcuni sondaggisti confessano al Foglio di sentirsi in balia di “un’improvvisa impotenza statistica provocata dalla presenza multipolare delle coalizioni in campo”. Ma anche per loro l’eventualità che la Lega possa subire una sconfitta, e soprattutto ripiegarsi su se stessa dopo, non è un’ipotesi improbabile. Analisti e sondaggisti a parte, lo sperano i detrattori del Carroccio, lo auspicano i pretoriani di Bossi che attendono di vendicarsi dei torti subiti dai maroniani, e lo constatano i cronisti politici, che leggono molta esitazione fra gli elettori leghisti. In terra lombarda, appaiono in preda all’apatia. I militanti della base non hanno metabolizzato l’alleanza elettorale “obbligata” con Berlusconi e non sembrano avere la consueta forza di proselitismo. Hanno ceduto la ribalta di piazza Duomo a Bersani e, ieri, a Grillo: che l’ha riempita, probabilmente, anche di molti ex elettori leghisti. La stessa attrazione fatale verso il M5s dell’ex comico pare stia avvenendo in Veneto, dove invece i leghisti sono divisi tra chi non ha digerito l’accordo con il Pdl e chi vorrebbe rompere con Maroni. Per capire a che punto sia la notte della Lega, bastava andare a vedere l’unico appuntamento elettorale del Cav. con il candidato governatore Maroni.

    Fra i cori da stadio dei berluscones astiosi e rissosi – la maggior parte giunta nella zona residenziale della vecchia Fiera di Milano trasportata dai pullman, truppe cammellate e foresti, più che milanesi di città – non si scorgevano, o quasi, militanti leghisti. Così, mentre in Via Bellerio aumentano i timori per il distacco, prima stimato in diversi punti di vantaggio e ora assai ridotto, sull’unico avversario che importi, il concorrente al Pirellone Umberto Ambrosoli il candidato della “Lombardia in testa”, ieri ha ruggito come un leone ferito per difendersi dagli attacchi politici e giudiziari. “Si tenta di condizionare il voto con falsità e insinuazioni su di me e sulla Lega. Questo non è giornalismo, è terrorismo”, ha scritto su Twitter per rispondere alle notizie sui suoi rapporti con l’ex ad di Finmeccanica, Giuseppe Orsi.
    La Lega sembra però essere diventata una mosca cieca, che si dimena dentro una bottiglia senza trovare una via d’uscita. In Piemonte, dove il partito governa una regione in preda al caos, ai debiti e agli avvisi di garanzia, ieri è stata presa di mira un’icona della nuova generazione del leghismo educato e perbene: l’assessore allo Sviluppo economico, Massimo Giordano. L’ex sindaco di Novara, molto apprezzato anche dagli avversari politici, si è dimesso dopo aver saputo dai giornali di essere indagato per corruzione e concussione dalla procura di Novara. Il “tempismo giudiziario” mette a segno un altro colpo, anche se, obiettivamente, non si capisce perché la giustizia a orologeria dovrebbe esplodere proprio in Piemonte, dove la Lega ha vinto le elezioni regionali nel 2010 per una manciata di voti e non è radicata in modo capillare. E’ però in Veneto che si trova il picco più alto del malessere leghista. E’ qui che si respira un’attesa trepidante per una resa dei conti che non potrà non arrivare, a urne chiuse.

    I nemici del sindaco di Verona Flavio Tosi, i pretoriani di Bossi esclusi dalle liste elettorali, scalpitano per presentargli il conto della prevedibile batosta elettorale (e nel frattempo fanno appelli per un voto disgiunto al Senato per il Pdl o persino per il Pd). Tosi, a sua volta, attende sulla riva del fiume il momento per  presentare il conto al segretario della Lega (lombarda), colpevole di aver stretto un’alleanza con Berlusconi che Tosi, e molti nel partito, non volevano e ha provocato gravi perdite nelle file leghiste. Così Tosi fa i suoi calcoli postelettorali, per decidere se davvero costruire una Liga veneta a sua immagine e somiglianza, che lo porti alla guida della regione nel 2015, oppure consolidare la sua rete di rapporti con diversi segmenti del mondo politico ed economico, compreso Corrado Passera, e intraprendere un nuovo percorso, “doroteo”, come lo definisce chi lo conosce bene. Tosi smentisce, ma i rapporti con Maroni paiono piuttosto raffreddati. Sebbene il leader del Carroccio continui ad annoverare il suo ex pupillo veneto fra i possibili successori alla guida della Lega. Per vedere la fine, bisogna prima misurare l’altezza dell’onda grillina, più forte in Veneto che in Lombardia. E vedere se la coalizione di centrosinistra saprà trarre vantaggio dalla debolezza del centrodestra veneto e ottenere il premio di maggioranza al Senato, un’eventualità preannunciata ieri dal segretario regionale del Pd, Rosanna Filippin. E così la madre di tutte le battaglie, ingaggiata per la Lombardia, potrebbe trasformarsi in una guerra interna finale, capace di tramortire i leghisti.