Il trauma liberatorio di B-XVI declamato con i versi di T. S. Eliot

Alfonso Berardinelli

DIMISSIONI DIMISSIONI DIMISSIONI. Così T. S. Eliot concludeva una sua poesia del 1931-’32, “Difficoltà di un uomo di stato”. Poesia di quelle massimamente prosastiche, in apparenza senza stile, parodisticamente declamata e declamabile, i cui primi versi, se sono versi, suonano così: “Gridare cosa dovrei gridare? / La carne è erba: compresi / I Camerati dell’Ordine del Bagno, i Paladini dell’Impero Britannico, i Cavalieri, / Cavalieri! Della Legion d’Onore, / L’Ordine dell’Aquila Nera (prima e seconda classe), / E l’Ordine del Sol Levante. / Gridare gridare cosa dovrei gridare? / La prima cosa da fare è formare le commissioni: / I consigli di consulta, le commissioni permanenti, le commissioni d’inchiesta e le sottocommissioni. / Un segretario solo andrà bene per molte commissioni. / Cosa dovrei gridare?”.

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    DIMISSIONI DIMISSIONI DIMISSIONI. Così T. S. Eliot concludeva una sua poesia del 1931-’32, “Difficoltà di un uomo di stato”. Poesia di quelle massimamente prosastiche, in apparenza senza stile, parodisticamente declamata e declamabile, i cui primi versi, se sono versi, suonano così: “Gridare cosa dovrei gridare? / La carne è erba: compresi / I Camerati dell’Ordine del Bagno, i Paladini dell’Impero Britannico, i Cavalieri, / Cavalieri! Della Legion d’Onore, / L’Ordine dell’Aquila Nera (prima e seconda classe), / E l’Ordine del Sol Levante. / Gridare gridare cosa dovrei gridare? / La prima cosa da fare è formare le commissioni: / I consigli di consulta, le commissioni permanenti, le commissioni d’inchiesta e le sottocommissioni. / Un segretario solo andrà bene per molte commissioni. / Cosa dovrei gridare?”.
    In quale tempo, in quale luogo, in quale impero o stato siamo? Eliot spezza il tempo, ne fa tempi diversi, frantuma la storia e poi mescola i frammenti. Impero inglese, sì, ma anche Impero romano. La storia non procede, è un ordine o disordine simultaneo, un coro di voci eterogenee e dissonanti. Solennità e balbettio, oratoria e dolente monologo, frammenti lirici e chiacchiericcio.
    L’uomo di stato è in grandi difficoltà e così invoca: “Oh madre (non fra questi busti, con tutti i nomi esattamente incisi) / Io una testa stanca fra queste teste / Colli forti per sostenerle / Nasi forti per rompere il vento / Madre / Non possiamo qualche volta, almeno ora, essere insieme, / Se le stragi, le immolazioni, le oblazioni, le impetrazioni, / Sono osservate / Non possiamo essere / Oh nascosti / Nascosti nell’immobilità del meriggio, nella notte che gracida silente”.

    Le attuali dimissioni di Benedetto XVI, acclamate o disapprovate, lodate dagli spiriti evangelici e meditativi che credono in Gesù, deplorate dai credenti-politici che credono nella chiesa storica, sono le dimissioni di un uomo di stato che vuole essere in solitudine uomo di fede. Le dimissioni di un devoto intellettuale, maestro di ortodossia teologica, eppure dubbioso, Papa eppure individuo che pensa alla salvezza della sua anima, un delicato re Lear stanco di governare, di guidare gli altri, di esercitare autorità e potere, di incontrare la folla, di parlare alla folla. Il Papa come uomo di stato si è all’improvviso trasformato in uomo di fede stanco del mondo e dei poteri gerarchici che sono l’ossatura della chiesa. Ci ricorda così che dopotutto il cristianesimo è una religione, più che un’istituzione, un’esperienza del singolo, senza la quale la comunità è insensata, diventa una struttura protettiva, la corazza di un potere che lotta, si difende, prescrive, decide che cos’è la fede giusta e quella sbagliata.
    Il Papa che mette in dubbio il (proprio) papato e si dimette è un evento politicamente traumatico e moralmente (spiritualmente!) liberatorio. Benedetto XVI decide di non occuparsi delle conseguenze delle sue dimissioni. Decide di non gestirle né governarle. Lascia le conseguenze nelle mani degli altri. Il suo è stato un gesto laico: da qualunque carica elettiva ci si può o deve dimettere quando le condizioni di fatto impediscono di esercitarla efficacemente e secondo coscienza. Ma è anche un gesto puramente religioso che indica la fede in Dio come sola legittimazione della chiesa.

    Ha detto Papa Ratzinger: “Non strumentalizzare Dio per i propri fini, come il potere o il successo”. E poi: “Siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio?”. Qui anche Kierkegaard potrebbe applaudire. Sono affermazioni elementari, ma senza le quali la teologia diventa esercizio scolastico. Qualcuno poteva sottovalutare malignamente il ruolo di teologo ortodosso svolto da Ratzinger. Ora dovrà ricredersi. Questo Papa che ha il coraggio di dimettersi mostra di essere un vero e buon teologo cattolico che viene dalla Germania luterana, un paese in cui la mistica e la teologia sono diventate filosofia, hanno impregnato e perfino traviato la filosofia facendone una impropria teologia della storia (Hegel), della politica (Carl Schmitt), della rivoluzione (Ernst Bloch), dell’esistenza (Heidegger).
    Così Joseph Ratzinger, con il suo sguardo sensibile e il suo sorriso timido, si dimostra umile e coerente Papa esistenzialista. Individuo, non puro spirito pubblico. Non icona, ma anima incarnata. Perciò è lui a dire: dimissioni dimissioni dimissioni. Per vivere nascosto in un’epoca in cui nessuno si nasconde e nessuno si dimette.

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