La crisi di coscienza della leadership islamista in Tunisia
Tunisi. E’ nell’anonimo parcheggio di un palazzone di periferia dalla facciata scrostata che si è accartocciata la transizione in Tunisia. Qui, con quattro colpi di pistola il 6 febbraio è stato freddato Chokri Belaïd, politico dell’opposizione laica e di sinistra, voce forte contro il partito islamista al governo. A ricordare il luogo esatto dell’esecuzione ci sono mazzi di fiori e candele, giovani infreddoliti in pellegrinaggio, la sigaretta in una mano e lo smartphone nell’altra. A due settimane dai funerali di massa trasformatisi in protesta contro l’esecutivo, la Tunisia culla della rivolta araba è bloccata nella più grande crisi politica dalla rivoluzione del 2011.
Tunisi. E’ nell’anonimo parcheggio di un palazzone di periferia dalla facciata scrostata che si è accartocciata la transizione in Tunisia. Qui, con quattro colpi di pistola il 6 febbraio è stato freddato Chokri Belaïd, politico dell’opposizione laica e di sinistra, voce forte contro il partito islamista al governo. A ricordare il luogo esatto dell’esecuzione ci sono mazzi di fiori e candele, giovani infreddoliti in pellegrinaggio, la sigaretta in una mano e lo smartphone nell’altra. A due settimane dai funerali di massa trasformatisi in protesta contro l’esecutivo, la Tunisia culla della rivolta araba è bloccata nella più grande crisi politica dalla rivoluzione del 2011. Dopo giorni di incertezza e le dimissioni martedì del premier Hamadi Jebali, ieri il presidente della Repubblica ha dato l’incarico al ministro dell’Interno, Ali Larayedh, di formare un nuovo esecutivo.
La leadership islamista resta però in un’impasse. Il primo esperimento di islam politico della regione si scontra con la quotidianità di governo in un paese in cui crescono il malcontento sociale, la violenza politica e di stampo religioso – con attacchi contro sedi di partito, politici e artisti – dove la scena politica è marcata da divisioni tra opposizione e maggioranza ma anche dalle liti in seno alla maggioranza. Il partito islamista Ennahda ha vinto la pluralità dei voti alle elezioni dell’ottobre 2011 e governa in coalizione con due gruppi laici.
La maggiore sfida per la leadership islamista sembra arrivare dal suo interno. Nelle confuse ore che hanno seguito l’assassinio di Belaïd, mentre il paese temeva il caos, il primo ministro uscente Jebali ha proposto la formazione di un esecutivo di tecnici. La sua mossa ha trovato il sostegno dell’opposizione, che accusa il governo di non aver saputo arginare le violenze. A rifiutare il piano del premier è stato invece il suo stesso partito. Per il movimento islamista, accettare un governo tecnico equivale ad ammettere un fallimento politico, ha spiegato al Foglio Zied Ladhari, deputato dell’Assemblea costituente per Ennahda. Il premier Jebali, ora tornato a essere semplice segretario generale del partito, non è riuscito a trovare il compromesso con i suoi. Ennahda ha scelto per la formazione di un governo di larghe intese una figura controversa che rischia di creare scontri invece che calmarli: l’opposizione accusa infatti proprio il ministero dell’Interno, di cui Larayedh era capo, di non aver saputo o voluto fermare le violenze.
Gli islamisti però non accettano rinunce. “Ennahda non lascerà mai il potere finché avrà legittimità dalle urne”, ha gridato davanti a migliaia di persone sabato scorso il leader del movimento, Rachid Ghannouchi, da un palco montato nel cuore della centrale Avenue Bourguiba a Tunisi, cuore della rivoluzione.
I movimenti islamisti sono per Costituzione una realtà in cui l’iniziativa personale raramente riesce a dribblare lo scrutinio di gruppo. Un’attenta conoscitrice della politica tunisina, Neziha Rjiba, dissidente laica dell’epoca dell’ex rais Zine el Abidine Ben Ali, è sorpresa dalla crepa emersa: “Un leader di Ennahda che si oppone a Ennahda? E’ così poco probabile, come è potuto succedere?”, si chiede.
La mossa dell’ex premier Jebali trascende la routine di una crisi di governo, i confini della Tunisia e mette allo scoperto diverse visioni della società e della politica interne ai movimenti islamisti. La realtà del governo sembra aver trasformato il politico da disciplinato membro di un politburo ideologizzato in un pragmatico uomo di stato in cerca di soluzioni per tutti. “L’obiettivo di Jebali è fare un buon lavoro da premier, portare Ennahda alla vittoria elettorale ma attraverso un modello Akp – il partito islamista turco al governo, (ndr) – i radicali nel movimento però non vogliono che questo accada, vogliono un vero stato islamico”, ha detto al Foglio Noomane Fehri, del partito laico al Jumhuri, prima delle dimissioni di Jebali.
Benché Ghannouchi abbia più volte negato divisioni interne al movimento, l’iniziativa di Jebali avrebbe rafforzato fratture già presenti nel partito. Pochi giorni fa, in un’intervista alla rivista francese Marianne, l’anziano ex leader Abdelfattah Mourou, tra le figure più liberali del gruppo, ha detto che Ghannouchi starebbe rovinando il movimento e che dovrebbe andarsene. Poche ore dopo, ha smentito quelle parole, ma il fianco era ormai scoperto.
L’ovvia divisione tra falchi e colombe, tra un’ala più moderata che tende a un islam politico in salsa turca e una più radicale, non basta a spiegare le dinamiche interne. Il conflitto – dice al Foglio Abdelwahab el Hani, fondatore del partito centrista al Majd – è tra la visione di Jebali, che vuole un vero partito politico, e gli altri membri “che preferiscono infiltrare lo stato con una mentalità da organizzazione segreta”.
Fino alla rivoluzione, Ennahda era un movimento che agiva sotto la superficie. Era bandito, fuorilegge, molti suoi leader erano in carcere o in esilio, i suoi incontri avvenivano nel terrore e nella segretezza. Secondo el Hani, che ha conosciuto i leader islamisti durante il suo attivismo all’Università di Tunisi negli anni 80, Ennahda avrebbe nominato come ministri figure dell’ala più moderata, facce più spendibili davanti all’opposizione laica e all’occidente, ma all’interno dei gabinetti avrebbe posizionato consiglieri in arrivo dal cuore duro dell’organizzazione segreta. “Ogni ministro ha la sua guardia”, dice sorridendo Neziha Rjiba.
Il nuovo pragmatismo dell’ala Jebali, quello che per alcuni potrebbe guidare l’esperimento islamista tunisino verso una via turca, ha anche un’origine geografica. Hamadi Jebali, 64 anni, è della regione del Sahel tunisino, sulla costa settentrionale, dove si trovano i centri di Sousse, in cui è nato, e Monastir, città natale del padre dell’indipendenza Habib Bourguiba. E’ da qui che arriva da decenni l’élite politica tunisina. Nei “lycées” di Sousse e Monastir, più aperti a influenze europee e francesi, si è formata una classe politica laica e occidentalizzata rispetto alle genti del sud.
La scelta dell’ex premier sarebbe maturata attraverso drammatiche tappe, dicono fonti interne al partito: l’attacco del 14 settembre all’ambasciata americana da parte di gruppi salafiti; l’assassinio di Belaïd. “Jebali dopo aver proposto un governo di tecnocrati non è più lo stesso uomo”, ha detto Samir Dilou, membro di Ennahda e ministro per i Diritti umani. Non sarebbe il solo a essere diventato più pragmatico: diversi ministri hanno agito contro la volontà del partito – ricorda – quando per esempio il Maglis al Shura di Ennahda, il più alto organo consultivo interno, ha votato per la liberazione dei sospetti arrestati per l’assassinio ad agosto a Tataouine, nel sud, di un responsabile di Nidaa Tounes – partito accusato dagli islamisti di avere legami con l’ex regime. Il governo ha rifiutato.
Abou Yaareb al Marzouki è un consigliere dell’ex premier, un filosofo, politico indipendente. Pochi giorni prima delle dimissioni di Jebali, sedeva alla casbah, nel palazzo che ospita gli uffici del primo ministro, a pochi metri dal dedalo di stradine e mercati dell’antica medina. Per lui, il movimento è spaccato tra chi cerca la via turca – un 25-30 per cento del partito, dicono diversi osservatori – e chi è più vicino ai movimenti salafiti, corrente ultra conservatrice dell’islam. Ghannouchi starebbe tentando di tenere assieme i pezzi. Ci sono esempi concreti di questa polarizzazione: la corrente “turca” era propensa fin dall’inizio delle violenze a reprimere i gruppi salafiti con i mezzi a disposizione dello stato; i più radicali non volevano. E infatti, i primi arresti di salafiti sono arrivati soltanto dopo l’assalto all’ambasciata, quando era ormai impossibile non agire. Altrove, spiega il consigliere, sarebbe in corso una lotta interna al ministero per gli Affari religiosi per il controllo delle moschee: l’ala “moderata” vorrebbe che lo stato allontanasse i salafiti dai luoghi di culto e soprattutto dai banchi della storica Università Zitouna, punto focale dell’islam tunisino, antica istituzione nel cuore della città vecchia, che sotto le sue antiche volte ha ospitato studenti eccezionali come – nel XIV sec. – lo storico Ibn Khaldun.
Quando si parla di Ennahda “occorre fare la differenza tra il partito e il movimento, sorto da un’ideologia religiosa – spiega al giornale tunisino La Presse Alaya Allani, esperto di movimenti islamisti – Il leader Ghannouchi ha voluto tenere assieme le due dimensioni: il movimento rifiuta di separare la missione di predicazione da quella politica”. L’opposizione denuncia Ennahda d’essere dietro alle Leghe per la Protezione della rivoluzione, accusate a loro volta di essere all’origine delle violenze politiche. Sono nate il giorno dopo le sommosse del 2011 come spontanei gruppi di difesa dei quartieri abbandonati dalla polizia. Se i gruppi rivoluzionari e di sinistra hanno progressivamente abbandonato l’organizzazione – legalmente registrata presso il ministero dell’Interno – lo stesso non sarebbe successo ancora per i membri di Ennahda, racconta la maggior parte dei politici dell’opposizione intervistati dal Foglio. Nessun membro di Ennahda invece ammette il collegamento. Accuse di violenza a parte, le Leghe, i cui quartier generali nei rioni delle città tunisine assomigliano alle sedi delle nostre Pro Loco, stanno progressivamente prendendo i contorni delle reti sociali parastatali proprie di più strutturati gruppi islamisti come Fratelli musulmani in Egitto e Hezbollah in Libano, dove è spesso il movimento che provvede – sfruttando uno stato debole – a sicurezza e welfare locali.
Il premier Jebali ha tentato nelle scorse settimane di percorrere una strada diversa, dice Lazhar Akremi, del partito Nidaa Tounes: “Quello che Recep Tayyip Erdogan e Abdullah Gül hanno fatto quando hanno detto addio al loro mentore, l’ex premier turco Necmettin Erbakan”, dando vita a un partito politico pragmatico, più a suo agio in un paese con un bagaglio laico non trascurabile.
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