Chi ha paura di mister G.
Così, ormai, arrendersi bisogna. Con le mani alzate bene in vista, bisogna consegnarsi. “Come vecchi gerarchi fascisti, come attori con i teatri vuoti”. Senza applausi, sberleffi se andrà bene, sennò qualche sputo – perché ci sono sempre sputi nell’aria, dentro l’aria guasta d’Italia – magari spintoni. Affrettarsi finché si può, finché la via di scampo è tenuta benignamente aperta. Di corsa, in mutande, a mani vuote – come quelli che salivano sull’ultimo elicottero americano a Saigon, mentre i vietcong entravano in città, un salire affannato, un prendersi a reciproche pedate, un bestemmiare e un ammucchiarsi: e i sacrificati finali laggiù, abbandonati alla sorte e alle vendette sul tetto dell’ambasciata ormai indifendibile.
Così, ormai, arrendersi bisogna. Con le mani alzate bene in vista, bisogna consegnarsi. “Come vecchi gerarchi fascisti, come attori con i teatri vuoti”. Senza applausi, sberleffi se andrà bene, sennò qualche sputo – perché ci sono sempre sputi nell’aria, dentro l’aria guasta d’Italia – magari spintoni. Affrettarsi finché si può, finché la via di scampo è tenuta benignamente aperta. Di corsa, in mutande, a mani vuote – come quelli che salivano sull’ultimo elicottero americano a Saigon, mentre i vietcong entravano in città, un salire affannato, un prendersi a reciproche pedate, un bestemmiare e un ammucchiarsi: e i sacrificati finali laggiù, abbandonati alla sorte e alle vendette sul tetto dell’ambasciata ormai indifendibile. E c’è questa foto – questa precisa foto: in bianco e nero – sul sito di Mister G., sotto l’ultimatum: “Arrendetevi!”. Non diverte questo giochino evocativo, piuttosto spaventa. A me “Arrendetevi!” fa venire in mente “Achtung!”: l’urlo, l’ordine, l’intimazione – e non è la stessa cosa, e certo non sono le stesse intenzioni, ma lo stesso qualcosa corre sotto la pelle, e quando Mister G. dice che “è un’epidemia, devono arrendersi, uscire dal Parlamento con le mani in alto”, a me torna in mente che i giovani fascisti missini – a riconsacrazione liberal-democratica ancora non avvenuta, le finiane acque di Fiuggi ancora da passare – allo scoppio di Tangentopoli circondarono un giorno il Palazzo di Montecitorio, avevano tutti una maglietta con sopra scritto “Arrendetevi! Siete circondati!”, lanciarono biglie contro le porte della Camera e un vetro andò in frantumi, e non era liberatorio il gesto (liberatorio dei ladri pure lì dentro acquattati, ormai topi all’inclinarsi della nave), ma minaccioso, estremo, oscuro. Mister G. non è un fascista – solo uno stupido antico vezzo di noi di sinistra fa largheggiare nell’accusa di fascismo verso quelli che non ci piacciono, che non ci convincono. Anzi, garantisce Mister G. che la fiumana grillesca che si appresta a depositare dentro il corso del Tevere romano – così da farlo tracimare, così da invadere ogni cosa, dopo aver invaso bastevoli cervelli – è argine a nazisti e lepenisti e fascisti che per l’Europa esangue e in fiamme si aggirano. Ma lo stesso fa paura, piccoli brividi lungo la schiena: sempre, dove manca la misura, mentre si muovono milioni di persone; sempre, dove la buona indignazione travasa il senso della vendetta dentro il corso del vivere civile. A Roma, stasera, si odono le voci che salgono da San Giovanni – e sono ancora le buone intenzioni che fanno cattiva impressione. E’ con le buone intenzioni che il più delle volte si parte all’arrembaggio, e non ci si riesce a fermare prima che i falò vengano accesi. Sono i puritani che danno angoscia e prurito, mica il lascivo (dicono: a suo onore) e teatrale re Giacomo. Si alzano le voci che arrivano dalla piazza – sempre un milione, ormai per meno non si avvia neanche mezza rivoluzione, nemmeno un decente happy hour – come si alzavano giorni fa quelle da piazza del Duomo, che dicevano, invocavano, esigevano (cronaca Corriere della Sera): “Lui ci vendicherà” – neanche la “Starship Troopers”, la fanteria dello spazio che mette in fuga gli extraterrestri aracnoidi della partitocrazia agonizzante, come “Sartana che non perdona”. Ecco: l’attesa di un Vendicatore può essere comprensibile (se uno un torto ha subìto; pure se uno un torto crede di aver subìto), ma lo stesso lascia nell’aria, nell’attesa, qualcosa di spaventoso, di ignoto, di incerto.
Mister G. è un genio – sicuro. Gli va riconosciuto. Genio della comunicazione, genio della presenza coltivando in maniera quasi ossessiva l’assenza dai luoghi altrui: l’essere altrove, così costringendo chi osserva a crederlo ovunque. La grandezza dei suoi comizi è nello spettacolo puro, nel copione impeccabile, nelle battute con efficacia ripetute, nel vaffanculo che si leva, con boato si leva – e il vaffanculo è epidemico, così che sempre a un’epidemia, a un virus, Mister G. fa riferimento: si spande, è facile e immediato. E’ il rutto, è la scoreggia – che viene sempre piuttosto facile (da sé, si sa), ma che in solitudine o tra pochi appare sempre imbarazzante, e però fatta da un’intera folla sembra liberatoria: il pisciare in compagnia, l’esaltarsi in massa, l’urlo che cresce quando passa di bocca in bocca. Li ho visti, sul palco di Milano, Mister G., comico straordinario, e il Dottor Fo, incolbaccato, di Nobel ornato, guitto straordinario – che si passavano la voce e si passavano il testimone: dove il Dottor Fo aveva fallito in passato ora Mister G. incoraggiava a proseguire, e la forza ne lodava e la folla intanto blandiva: “Ribaltate tutto!” – e da soli quasi a nessuno verrebbe in mente di ribaltare neppure un vaso di gerani, a darsi fiato reciprocamente si crede di poter (per sante ragioni, per buonissime ragioni) ribaltare un sistema. Dice anche molte cose giuste, Mister G., nella sua foga vaffanculesca: ché poi i maiali festaioli si sono visti, gli assatanati dal rimborso facile svergognati, i tangentari presi col sorcio in bocca. Un lavoro di pancia, il suo – su stomaci inaciditi da spettacoli indecenti. Monta, con sapienza comiziesca che gli altri possono solo invidiargli (e che giusto il Berlusconi dei giorni felici, non quello che fa accorrere pensionati sperduti con la sua letterina di rimborso Imu), la rabbia dei giusti. O piuttosto di quelli che si ritengono giusti – l’Italia lamentosa e vociante è piena di scrittori discriminati, di scombinati perseguitati, di artisti incompresi, di geni oscurati, di rancorosi pronti a mutarsi in santissimi Giusti Vendicativi. E’ un posto pieno di vittime vere (purtroppo) e di eccentrici fasulli (purtroppo). E’ un terreno fangoso, dove la politica (a voler stentatamente provare a volare alto nella rimembranza: quella buona, di scontro vero e veri leader, non quella dei poveracci affidati alle strette cure, tra la misericordia e il bordello, del nostro porcellum) una volta separava e dove Mister G., invece, procede felice all’ammasso. Urla troppo, urla sempre – e certo che così lo storico vaffanculo rimbomba ancora – e l’urlo dalla sommità del suo palco si riversa sulla massa sottostante (un po’ come il Berlusconi, sempre quello che fu, quando strepitava: volete voi combattere per la libertà?, e quelli: sììììììì!), risuona di piazza in piazza, stordisce, si amplifica. E l’urlo ne genera altri e altri ancora e altri all’infinito: tutti volontari urlatori, quando l’urlo intorno a noi risuona. “A furor di popolo”, lo chiamò un giorno Mister G. – prefazione a volume del dottor M. T. E dentro il furore la ragione si perde – nel furore la ragione è sentimento afflitto da labirintite: non sa alla fine più ritrovarsi. Resta qualcosa di diverso, la bella passione dal sordo rancore.
Lo ascolto sempre, Mister G. Lo amavo molto, come artista, rivedo a volte i suoi spettacoli feroci e straordinari, ché la ferocia nello spettacolo di satira è benemerita. Leggermente pauperista, lievemente luddista, berlingueriano mai pentito, mi succede ancora di pensare: cazzo, però qui almeno ha ragione. C’è testa. Forse c’è cuore. “L’Italia deve diventare una comunità, dove nessuno deve essere lasciato indietro…”. Ottimo proposito, forse generosa ovvietà, ma tra tanta debordante stronzaggine va bene così. Poi, c’è sempre il decibel che scatta, l’onda che si alza, la piazza che si muove, la parola d’ordine ripetuta, il cielo invaso – ché poi del cielo spesso Mister G. parla, ed evoca il dirigibile Zeppelin, “più leggero di una piuma, imprendibile come l’aria”, ma poi il cielo sopra Roma, stasera, sembra sgombro di angeli wenderiani e di solo color plumbeo acciaio. A cena con amici – il giornalista intelligente e democratico, l’amico sbirro fascio e poco democratico ma simpatico, l’impiegata sempre di sinistra – si parla, e si scopre che, gratta gratta, al momento del caffè, a mezza bocca sempre qualcuno dice: io mi sa che voto Mister G... “Almeno qualcuno che gli fa un culo così!”. Una volta c’era la maggioranza silenziosa, quella democristiana, incrollabile e carsica: si votava tutti lì, ma molti si vergognavano di dirlo. Così un po’ adesso con l’effetto di (grande) minoranza rumorosa, tra chi ostenta la venerazione per Mister G. il Vendicatore e chi la cova silenziosamente al suo interno, pronta a rovesciarla nel segreto dell’urna: a pernacchia, a sfregio, a estremo taglio. Come Gaber diceva di non aver paura di Berlusconi in sé, piuttosto “ho paura di Berlusconi in me”, così si avverte la sensazione di non temere tanto Mister G. in sé, quanto il Mister G. che è in ognuno di noi: e vendetta meditiamo sempre, e un Vendicatore che lo faccia al posto nostro vogliamo innalzare – la triste inutile convinzione che c’è sempre qualcuno capace di raddrizzare le gambe dei cani, che felicemente restano come a loro piacciono e fanno comodo; al peggio, la brutta preoccupazione di potersi mettere a sistemare meglio il legno storto che tutti siamo. E’ il “grillino collettivo” che più spaventa, la replica surreale di un formicaio di piccole guardie rosse nostrane, mica Mister G. – il Mister G. che è in noi, mica (o non più di tanto) quello che nella notte romana si sente su quel palco a San Giovanni. E’ un sentimento che (ed è bene ripeterlo: in mezzo a tante comprensibili ragioni, in mezzo a tante vomitevoli prove date dalla classe politica, dalla sua avidità da miserabili da film di Sordi) ogni tanto, ciclicamente, prende alla gola l’Italia. A ondate, dove il meglio come il peggio del paese si somma, arriva la voglia di farla finita, la dannazione per ogni chiaroscuro, l’invocazione della dissoluzione di ogni zona grigia – pessima in politica, ma nei rapporti umani essenziale e protettiva. Con una pessima sensazione: come se dalla lode degli antichi fermenti dello yogurt, che in gioventù e con gran successo Mister G. pubblicizzò, si volesse passare alla disamina di ogni altrui fermento – a successiva conformazione, a retto sentire, ad associazione vocale.
Inquieta, il “grillino collettivo”, perché somiglia a noi tutti – e noi tutti qualcuno che a esso somiglia conosciamo. Convinto di essere il meglio, di dover raddrizzare torti e di impedire nuove ingiustizie, può dagli altri pretendere, esigere, condannare. Sono fenomeni che non chiedono – anzi: l’eliminazione è opportuna – le mezze misure, l’ombra, la differenza. E l’altro facilmente, troppo facilmente, in nemico della buona causa si muta. Ecco, per dire, e solo per stare agli ultimi giorni. Il dottor M. T. (che convintamente la buona causa di Mister G. sponsorizza) va dalla Gruber, dibattono, ogni tanto la Gruber lo interrompe con una domanda. Così, certi intemperanti si inalberano: “La Gruber interrompe per non far dire la verità” (la verità, abusatissima peccaminosa tentazione) “Lilli Gruber dal 27/2/2013 lei sarà licenziata!!! Lasci le sue cose in redazione e si cerchi un vero lavoro, prego quella è l’uscita”, “Lavorerà per la strada, quella lurida comunista”, “La Gruber vada a fare i pompini a Bersani”… Dovrebbe dirlo, Mister G. (dovrebbe dirlo pure il dottor M. T.), che questi esaltati lo ripugnano – ma non lo dice, mai una presa di distanza, mai che dimostrasse l’ardore almeno di una Meloni e di un Crosetto. Come il dirigibile che vuol far volare, così gonfia aspettative ed eccessive autoconsiderazioni dei suoi militanti. E lo stesso è successo a Bennato, per una sua canzone anti Mister G. O quando ha avuto la bella pensata di far scendere – tra la folla vociante – un operatore della Rai. O la penosa scena di quando tentava di spruzzare uno spray nelle bocche dei giornalisti – e la scena ancora più penosa di quelli che accettavano un trattamento simile. O l’iniziativa di gruppi di militanti che assediano il giornalista per intervistarlo loro – come se fosse democrazia reale, e non semplice prepotenza – e senza per questo voler difendere i giornalisti: che da soli si dovrebbero difendere, e da soli, a volte, si offendono. Cose che fatte da un Berlusconi o un Bersani o un Monti, un (benemerito, stavolta), indignato vaffanculo provocherebbe.
Spaventa questo giocare così vicino al fuoco, questo gonfiare il risentimento che poi chissà chi potrà rimettere dentro i suoi argini. “Fate una pubblica ammissione di colpa!”, viene ordinato ai politici. “Siete circondati dal popolo italiano. Uscite con le mani alzate. Nessuno vi toccherà”. Poi, si sa come sempre vanno a finire queste cose – come sempre sono andate a finire, tra rivoluzioni civili e società civile e Italia del fare (che Iddio l’abbia in gloria) che irrompe. Così animati erano quelli dell’Uomo qualunque, così i leghisti vergini dei primi anni Novanta, con cappio dondolante appresso (e finiti con le ramazze a spazzare il cortile di casa), così i dipietristi sbarcati a redimere genti e paesi (ancora non si finisce di ridere): è l’avanzare marciante, vociante, che scantona e si allarga sempre in nome della buona causa, della giustizia da fare, dell’ingiustizia da cancellare. Magari così non sarà – e se così fosse, forse sarebbe anche più rassicurante – a fare davvero la rivoluzione, il Coluche ligure che adesso alto sul palco di San Giovanni si leva, spera e crede. Mister G. – con il soccorso e il suggerimento e del suo Mister C. di virtuale irrangiungimento, lassù sul fondo della rete – ha solo spinto ognuna di quelle storie su un limite più estremo, ma chissà se poi un limite più estremo di un cappio dondolante esiste. L’ammasso indistinto che la giustizia popolare richiede ha troppe controindicazioni. Almeno a me sembra che ne abbia troppe. Non è il problema del programma – la Tav o non la Tav, l’euro o non l’euro, l’economia verde o quella buia dei banchieri avidi, i bravi ragazzi o, figurarsi, le facce incartapecorite di vecchi boiardi, le grandi opere o le piccole opere per la gente. E’ un generoso affastellare di roba che certi considerano mattane – e certi che le considerano mattane hanno lo stesso sostenuto robe che si sono rivelate tragedie sociali. Tutto si può dire, si può fare, si può auspicare. Pure, e va benissimo, Celentano al posto di De Gregori.
E’ altro che complica e inquieta. Il modo, la forma, il linguaggio – lo strumento primario di un grande comunicatore come Mister G., che forse come scrive Adriano Sofri vuole solo essere per almeno un giorno lo zar di tutte le Russie come il Pugaciov di Pusˇkin, o magari il più rassicurante “re di Girgenti” di una bella storia di Camilleri, o forse davvero pensa di permanere e continuare. Così che, come nessun altro politico ha mai fatto, ai suoi adoranti quasi offre il suo stesso corpo (Gesù, è stato evocato; un simil Gesù fu da Mister G. interpretato) – si tuffa in acqua, si getta dal palco sulla folla: mangiatene pure voi, trovate in esso forza e fede. Ma in ogni modo, mentre già la polemica sul milione sì-milione no a San Giovanni è iniziata (solita stucchevole contabilità ragionieristica: 2,5 o 3,9 persone a metro quadrato, nei 42 e 700 bardati a 5 stelle?), l’ennesima rivoluzione all’italiana si è avviata. Tutti in marcia (si marcia, nelle rivoluzioni italiane), tutti in piazza (si va in piazza, nelle rivoluzioni italiane), tutti in coro (si canta in coro, nelle rivoluzioni italiane). “Fate pubblica ammissione di colpa e chiedete agli italiani di perdonarvi”. Verranno chiesti, c’è da scommettere – anzi: sono già stati richiesti – parecchi autodafé per concedere di poter posare il culo stanco su quell’elicottero che si alza, ultimo in volo, dal Palazzo di Montecitorio. I proclami, c’è da credere, saranno solenni, a mutazione dell’universo tutto, da “Monitore Napoletano” della Rivoluzione dei Lumi, o certi della rivoluzione romana antipapalina. Si capovolgerà il mondo – si crederà di capovolgere il mondo – si crederà di poter presentare delle rese, si pensarà di poter raddrizzare quelle storture che gonfiano i petti di indignazione. Chissà, magari voleranno pure altre monetine: ci sono sempre spiccioli in tasca – e solo spiccioli sono rimasti, si dirà. Tutti crederanno (molti fingeranno) che la Storia si sia rimessa in marcia, lodi già si odono – ora che il Palazzo d’Inverno, con buvette inclusa, supplì compresi, è stato conquistato. Ma il modo (come fu per i leghisti, come fu per i dipietristi, come persino è stato per l’epica berlusconiana) si prenderà la rivincita. I maiali festaioli scapperanno, i ladri più sfacciati si defileranno, almeno questo, la servitù di questi anni da altra servitù sarà semplicemente sostituita. Un po’ come nelle evocative pratiche televisive che furono di Mister G.: te la do io la rivoluzione! Anche stellata come un ristorante di lusso, la stessa fragile sostanza, dietro la solita e solida apparenza, avrà.
Alla fine, come diceva Kafka, che ogni cosa capiva e intuiva, “ogni rivoluzione evapora e non rimane che il limo di una nuova burocrazia”. Questa compresa. Ma è nell’esondazione verbale che muta i cuori e i sensi e le voci, che si conserva (e conserverà) intero lo spavento. E’ nel limo che resterà appiccicato sulla pelle del paese – quel democratico, essenziale giocare a vincere e a perdere sui numeri mutato in scontro che chiede la resa e mani alzate e pubbliche ammissioni: i migliori contro gli ignobili –, che si farà crosta e poi duro ferro, che finirà definitivamente imprigionata anche una parte della paura che Mister G. ha saputo (con tanta sua intelligenza spettacolare e con tanta straziante veemenza) evocare e tirare fuori. Come un cattivo genio, che chissà chi poi saprà far rientrare nella lampada – dove inquieto dormiva.
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