Voltaire papista
Quando un editore britannico intende promuovere un saggio puntando sul pragmatismo, di solito mutua un’espressione dalle pubblicità degli attrezzi per il bricolage: “It does exactly what it says on the tin”, ovvero “Fa esattamente ciò che sta scritto sulla confezione”. Non è criterio che si possa applicare a “Lo strano Illuminismo di Joseph Ratzinger”, il nuovo libro di Vincenzo Ferrone appena pubblicato da Laterza, ma certo non per imperizia dell’autore che è anzi uno dei principali studiosi italiani dei Lumi.
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Quando un editore britannico intende promuovere un saggio puntando sul pragmatismo, di solito mutua un’espressione dalle pubblicità degli attrezzi per il bricolage: “It does exactly what it says on the tin”, ovvero “Fa esattamente ciò che sta scritto sulla confezione”. Non è criterio che si possa applicare a “Lo strano Illuminismo di Joseph Ratzinger”, il nuovo libro di Vincenzo Ferrone appena pubblicato da Laterza, ma certo non per imperizia dell’autore che è anzi uno dei principali studiosi italiani dei Lumi.
In questo breve saggio dai toni dichiaratamente pamphlettistici l’Illuminismo viene infatti inteso in senso lato come “Illuminismo dei diritti dell’uomo, quello della sacrosanta battaglia per la libertà religiosa, la tolleranza e la neutralità dello stato”, e non in senso stretto come scambio continuo e un po’ convulso di idee, per mezzo di testi sovente anonimi o clandestini, fra intellettuali che riconoscevano una comune appartenenza alla “philosophie”. Si tratta, beninteso, di un’interpretazione storiografica perfettamente legittima che è stata seguita nel tempo da vari studiosi, contrapposta a un’interpretazione più restrittiva e altrettanto legittima dei confini storici, geografici e tematici dell’Illuminismo.
Ferrone opera questa scelta di campo storiografico che ingenera qualche confusione (voluta, pamphlettistica appunto) quando, ad esempio, dicendo che determinate concessioni retoriche fatte in encicliche posteriori al Concilio Vaticano II avrebbero reso felici Diderot e Voltaire, equipara di fatto il primo, ateo militante sempre più convinto, al secondo, che a ottant’anni d’età svegliava i propri ospiti alle quattro del mattino per portarli a vedere l’alba come dimostrazione macroscopica dell’esistenza di Dio. Allo stesso modo, sulla scorta di questi precetti di ampio Illuminismo, Ferrone conduce la propria critica a una chiesa intransigente “nel campo della morale sessuale, del costume delle famiglie, del controllo delle nascite, dei diritti dei gay, del celibato dei preti”; tutti temi però estranei alla stretta osservanza del pensiero dei philosophes settecenteschi.
Se dunque va ricalibrato secondo questi parametri il senso dell’Illuminismo nel titolo del saggio di Ferrone, anche la presenza di Ratzinger nel volume è piuttosto limitata. Appare nel primo capitolo e poi svanisce fino a pagina 84 per poi ricomparire nelle tre pagine conclusive del volume, che consta di 109 pagine in tutto. Potrebbe parere una presenza troppo discreta rispetto alle aspettative che il titolo può creare ma, anche qui, bisogna considerare le ragioni di Ferrone: questi intende incardinare il magistero di Benedetto XVI, e prima ancora il pensiero del Ratzinger teologo, al vasto e talvolta ondivago processo di progressivo riconoscimento dei valori fondanti dell’Illuminismo da parte della Chiesa romana. Su ciò si basa l’erudita ed esaustiva analisi dei documenti ecclesiastici, passati al setaccio della moderna invenzione dei diritti dell’uomo, che costituisce il cospicuo nocciolo del libro di Ferrone.
Quest’analisi contiene indicazioni preziose riguardo alla radice della rivalità d’intenti fra Illuminismo e Chiesa, dovuta alla trasformazione di quest’ultima in “ferrea monarchia” col Concilio di Trento, e alla conseguente trasformazione del papato in “totato”, neologismo coniato da Paolo Sarpi di cui si sente l’eco ancora nelle parole pronunziate da Pio XI nel 1938 che Ferrone appone in esergo al libro: “Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa”. Se dunque l’Illuminismo va inteso, secondo la definizione di Kant, come “uscita dell’uomo da una condizione di minorità della quale egli stesso è responsabile”, è evidente che fra Illuminismo e Chiesa non ci può essere cooperazione perché la sottomissione alla Chiesa è totale e, soprattutto, è divenuta completamente volontaria in un mondo progressivamente secolarizzato.
Altrettanto fondamentali sono le pagine su Jacques Maritain, che è riuscito a far convivere coerentemente la condanna di Rousseau quale creatore di “una teologia umanistica assoluta”, culmine dell’Illuminismo dei diritti dell’uomo, e una frase sensazionale come questa: “Nel sistema dell’umanesimo cristiano c’è posto non per gli errori di Lutero e di Voltaire ma per Lutero e per Voltaire che, malgrado gli errori, hanno contribuito nella storia degli uomini a certi accrescimenti”. Anche qui c’è da intendersi. Se si considerano Cattolicesimo e Illuminismo secondo i fini immanenti è ovvio che, come ammette lo stesso Maritain, né Jean-Jacques né gli enciclopedisti “possono passare per pensatori fedeli all’eredità cristiana nella sua integrità”. Se invece si considerano i metodi per conseguire questi fini, l’Illuminismo dei diritti dell’uomo e il Cattolicesimo dei diritti della persona caro a Maritain possono trovare un punto d’incontro nel concetto di “opera pratica in comune” fra credenti e non credenti, ossia la tolleranza di là dalle divisioni di fede.
Fugace apparizione nel volume, Ratzinger è invece il protagonista della prefazione grazie alla pretesa, avanzata sin dal suo saggio “Teologia e politica della Chiesa” del 1980, di operare quella che Ferrone chiama “teologizzazione dell’Illuminismo”, una “inattesa campagna filosofica” che ha portato Benedetto XVI a scrivere a ridosso dell’ascesa al soglio: “L’Illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana”. Ferrone non lo accetta. Scrive che si tratta di “qualcosa di molto serio e preoccupante, un vero e proprio progetto politico e culturale di restaurazione di un’idea egemonica della cristianità”; ammette che subodorando tale pericolo ha deciso di produrre “un polemico pamphlet” volto a “denunciare l’uso disinvolto della storia da parte delle gerarchie vaticane quando si tratta di fare i conti con la modernità”. Seguendo la linea di Benedetto XVI, scrive, si può arrivare a una “paradossale santificazione di Voltaire”.
Curioso a dirsi, la santificazione di Voltaire in realtà si è già verificata, sia in ambito cattolico sia in quello laicista. Un libro francese del 1989 s’intitola appunto “Voltaire: la leggenda di sant’Arouet” ed è volto a illustrare come costui incarni l’identità virtuosa del benefattore di individui concreti del proprio tempo che si fa altresì modello di una comunità che nei secoli beneficia del suo esempio e del suo insegnamento: esattamente ciò che i santi sono per la Chiesa. Ancora più coraggiosa e tempestiva era stata l’operazione postuma svolta in ambito cattolico: nel 1820, una quarantina d’anni dopo la morte di Voltaire, aveva preso a circolare per Parigi un pamphlet intitolato “Voltaire cristiano” e consistente in un’antologia di suoi passi che potevano essere presi come esortazione a una vita da bravi fedeli.
Ciò che Ferrone ricusa sono proprio queste ibridazioni. Per ovviare al rischio di ingerenza culturale ecclesiastica che dichiaratamente teme, tende a pretendere dalla Chiesa posizioni di ostilità granitiche e immutabili nel tempo. Cita l’enciclica “Mirari vos” di Gregorio XVI, in cui si condanna uno dei cardini dell’ideologia illuministica: “L’indifferentismo, ossia”, come scrive il Pontefice nel 1832, “quella perversa opinione secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto”. Si tratta, con duecentocinquant’anni di tara, degli stessi toni usati da Ratzinger contro il relativismo nella Missa pro eligendo pontifice dopo la morte di Giovanni Paolo II; e in entrambi i casi si tratta, soprattutto, dei toni inevitabili contro nemici contingenti, ben definiti nel tempo, e che di fronte all’eternità della Chiesa non praevalebunt. Allo stesso modo Ferrone cita il sacerdote Nicola Spedalieri che subito dopo la Rivoluzione francese scriveva: “Con quale mezzo la Setta è giunta a distruggere in Francia la Religione e il Principato? Col cangiare le opinioni del popolo. E come le ha cangiate? Co’ libri che ha fatto circolare liberamente per le mani di ognuno”. A tratti sembra auspicare il ritorno dell’atterrito catechista eternato in un sonetto del Belli: “Che ppredicava alla missione er prete? / Li libbri nun zò robba da cristiano: / fijji, pe ccarità, nnu li leggete!”.
Ferrone desidera insomma salvaguardare il muro contro muro: Chiesa da una parte, Illuminismo dall’altra. Se la contrapposizione regge sul piano teorico, quello appunto dell’astratto “Illuminismo dei diritti dell’uomo”, diventa più nebulosa quando si viene a considerare i singoli illuministi nel concreto secondo l’interpretazione storiografica più restrittiva. Molti di loro, per necessità o contingenza o formazione, non sembrano testimoniare altrettanta incomunicabilità; il Foglio ad esempio ha già più volte raccontato il controverso rapporto col cattolicesimo di Voltaire, autore di un’interessante corrispondenza con due Papi (“Voltaire papista”, Foglio del 17/6/2009) e addirittura orgoglioso di un’accidentale nomina a terziario francescano (“Voltaire, lo strano cappuccino”, Foglio del 5/3/2011). Ferrone stesso ammette che a coniare l’espressione “Europa cristiana” – formula alla quale potrebbe benissimo rifarsi il Ratzinger di “Senza radici” – è stato Diderot; e che nonostante l’idée reçue di un Illuminismo ciecamente progressista, la prospettiva dei philosophes era più assimilabile a quella espressa da Giovanni Paolo II nell’enciclica “Redemptor hominis” del 1979: “L’uomo non può diventare schiavo delle cose, dei sistemi economici, della produzione, dei suoi propri prodotti”. Altresì è possibile scorgere un decisivo punto di contatto nella dichiarazione “Dignitatis humanae” del 1965, dove Paolo VI rivendica la libertà religiosa come diritto fondamentale per l’uomo: non è solo l’eco della battaglia settecentesca per la tolleranza ma è la dimostrazione che, così come i philosophes avevano predisposto una formidabile rete clandestina per veicolare idee non conformi ai sentimenti allora più diffusi, così il cattolicesimo tende a farsi illuministico nei momenti di crisi, quando insomma si scopre tendenzialmente minoritario. È il caso, appunto, del pontificato di Benedetto XVI.
Qualche tempo fa un lungo convegno internazionale all’Academia Belgica di Roma aveva affrontato approfonditamente il fulcro della questione, ossia i rapporti fra i philosophes illuministi e il papato (“Les philosophes et leurs Papes”, Rodopi, 2009). Era emersa una realtà molto più sfaccettata di quanto forse gli studiosi stessi avrebbero potuto presumere: lungi dall’essere tout court un nemico da abbattere, il capo della Chiesa romana fu per alcuni illuministi un interlocutore con cui poter conferire in pari dignità, per altri un possibile modello di galantuomo universalmente riconosciuto. Perfino un ostile utopista come Louis-Sébastien Mercier auspicò l’abolizione del pontificato comunemente inteso ma raccomandò la conservazione del Papa quale “rappacificatore delle divergenze dei popoli”, un uomo “le cui bolle parlano di Dio, della sua presenza universale, della vita a venire, della sublimità della virtù”, e che viene letto con profitto “dai cinesi, dai giapponesi, dagli abitanti del Suriname e della Kamchatka”. A ben vedere, nel Settecento le bordate più violente contro i Papi giunsero dal fuoco amico: il sacerdote Henri-Joseph Dulaurens pubblicò nel 1767 “L’antipapismo rivelato, ovvero i sogni dell’antipapista”, e i giansenisti del periodico Nouvelles ecclésiastiques sin dal 1728 fornirono un regolare bollettino della salute papale un po’ minaccioso e un po’ menagramo.
Certo, i grandi philosophes non risparmiarono critiche alla storia, alla politica e alla persona dei Papi – non di tutti, però, e non a priori. Nelle “Lettere persiane” Montesquieu definì il Papa “un vecchio idolo che viene incensato per abitudine” ma ne “Lo spirito delle leggi” si guardò bene dal chiamarlo despota, gratificandolo sempre del titolo di monarca. Charles de Brosses fu ricevuto da Clemente XII, del quale apprezzò lo spirito, e scrisse: “Il governo papale, per quanto possa essere il peggiore in Europa, è al contempo il più dolce”. Voltaire, stendendo la storia dei Papi del X secolo, fu sarcastico. Però cercò di addolcire la descrizione negativa di quei pontificati, che aveva trovato nelle fonti ecclesiastiche, come le storie di François Bruys e Louis-Ellies Du Pin, notando anzi: “Questi Papi, condannati dalla posterità come vescovi poco religiosi, non furono in realtà dei principi indegni”. Benedetto XIV, che regnò fino al 1758, fu membro di varie accademie scientifiche e incarnò il prototipo del Papa galantuomo agli occhi dei philosophes (anche di quelli che avrebbe messo all’indice, come Diderot, il quale nell’“Encyclopédie” ne lodò le virtù e l’umorismo); Voltaire intrattenne con lui un’ammirata corrispondenza e un amico di Rousseau, il duca di Württemberg, lo definì “l’unico prete dei nostri tempi che fosse veramente cristiano”. Nel 1776 si arrivò a far circolare delle lettere apocrife di Clemente XIV dalle quali il Papa emergeva come compiuto uomo filosofico: lucido, gaio e misurato.
Raccogliendo gli atti di questo convegno dell’Academia Belgica, Philippe Levillain e Hervé Yannou hanno fatto notare come per comprendere i rapporti fra l’Illuminismo e il Papato si debba aggiungere agli otto Papi che si successero nel secolo dei Lumi almeno altri due pontefici, benché inesistenti: cioè il modello del ruolo politico del Papa, ovvero un precipitato che emerge da secoli di storia e permane sempre centrale nella riflessione degli illuministi; e inoltre l’ipotetico Papa che assomma in sé tutti i mali che ci si può attendere da un luogo misterioso e inconsueto come la curia romana e che stimolava oltremodo l’immaginario dei philosophes. Quasi tutti gli attacchi degli illuministi si appuntarono su questo Papa immaginario, meno spesso sul Papa storico e molto di rado sul Papa regnante, di là da qualche isolata antipatia personale: ad esempio Voltaire detestava Clemente XIII, ma con ogni verosimiglianza l’avrebbe detestato anche se non fosse stato Papa così come avrebbe detestato Rousseau anche se non fosse stato philosophe.
Da un lato abbiamo dunque degli illuministi concreti, ovvero dei singoli individui, che attaccano un Papa immaginario: non un Pontefice effettivamente regnante ma l’idea ipotetica che un Pontefice potesse operare una politica malvagia e condurre una vita dissoluta. Dall’altro abbiamo invece la considerazione di Ferrone: questi rileva come dei Papi concreti, i predecessori di Benedetto XVI, abbiano mostrato disagio nel confrontarsi con un Illuminismo ideale, ossia con la battaglia per il progresso dei diritti dell’uomo. Agli occhi di Ferrone questo manifesto disagio rende impraticabile il progetto di una rilettura cattolica dell’Illuminismo perseguito da Ratzinger sin dagli anni ’80.
E’ possibile superare quest’impasse? Si potrebbe farlo ricorrendo a una teoria di José-Michel Moureaux, grande settecentista francese scomparso lo scorso anno. Moureaux faceva notare che l’Illuminismo è stato un movimento eminentemente mimetico. Basti pensare a Voltaire, che fu il conclamato “patriarca” dei Lumi e tentò in due modi di cambiare dall’interno un Cattolicesimo protervo e intollerante: dapprima corrispondendo da pari a pari con alti prelati; poi, messa da parte ogni speranza di riformare la Chiesa in senso razionale, producendosi in una messe di scritti propagandistici nei quali fingeva di essere un sacerdote o un predicatore, e ai quali dava significativamente il titolo di sermoni, omelie, catechismi, canonizzazioni o profezie. L’Illuminismo immaginava dunque se stesso come completamente interno a un orizzonte cristiano e questa categoria del mimetismo, applicata a una corrente di pensiero culminata nella Francia cattolica del medio Settecento e giunta alla massima popolarità grazie all’impegno profuso da un fin troppo arguto allievo dei gesuiti quale era Voltaire, può in qualche modo aiutare a spiegare lo strano papismo degli illuministi.
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