Il “fondamentalista del Québec” che piace a Ratzinger

Matteo Matzuzzi

E’ stata una partita di hockey a cambiare il destino di Marc Ouellet, oggi sessantottenne prefetto della congregazione dei Vescovi, ruolo che gli garantisce un rapporto diretto con il Papa, con il quale (di norma) si incontra ogni sabato pomeriggio nelle stanze del Palazzo apostolico per discutere i dossier riguardanti i candidati all’episcopato. Quel giorno del 1961, il giovane Ouellet cadde malamente sul ghiaccio, la gamba si spezzò e lui fu costretto a lasciare lo sport che tanto amava. “La stagione era ormai persa, non potevo fare nulla. Prima di allora ero molto attivo, direi iperattivo, e improvvisamente iniziai a pregare e a leggere.

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    E’ stata una partita di hockey a cambiare il destino di Marc Ouellet, oggi sessantottenne prefetto della congregazione dei Vescovi, ruolo che gli garantisce un rapporto diretto con il Papa, con il quale (di norma) si incontra ogni sabato pomeriggio nelle stanze del Palazzo apostolico per discutere i dossier riguardanti i candidati all’episcopato. Quel giorno del 1961, il giovane Ouellet cadde malamente sul ghiaccio, la gamba si spezzò e lui fu costretto a lasciare lo sport che tanto amava. “La stagione era ormai persa, non potevo fare nulla. Prima di allora ero molto attivo, direi iperattivo, e improvvisamente iniziai a pregare e a leggere. E’ da quell’incidente che è nata la mia vocazione”, raccontò qualche anno fa incontrando la stampa canadese. “Grazie a quell’infortunio”, ha confidato il suo amico Lionel Gendron, vescovo di Saint-Jean-Longueuil, nel Québec, “Marc ha imparato a riflettere sul senso della vita e ha capito come indirizzare la propria esistenza”. Cinquant’anni dopo quella partita, Benedetto XVI l’avrebbe chiamato a Roma in sostituzione del cardinale Giovanni Battista Re, dimissionario per raggiunti limiti d’età.

    Affabile e timido – per i suoi critici è troppo incline alla facile commozione –, Ouellet è l’uomo che da capo della diocesi di Québec per otto anni tra il 2002 e il 2010 tuonò contro l’aborto, un “crimine morale” anche nel caso di stupro: “C’è già una vittima, dobbiamo averne un’altra?”, chiese. Affermazioni che portarono uno dei più popolari quotidiani di Montréal a definirlo “il fondamentalista del Québec”. Lui non si scompose: “Io non condanno le donne che abortiscono, ma condanno l’aborto. Non posso essere indulgente su questo. Il messaggio della verità non è sempre accettato: è doloroso sia per quelli che lo ascoltano sia, a volte, per quelli che lo pronunciano”.
    Inflessibile sulle questioni etiche, nel secolarizzato Canada è stato in prima fila nel denunciare l’avanzata di quella “cultura della morte” che ormai “include l’accettazione dell’aborto e del suicidio medicalmente assistito”. Analoga critica ha mosso nei confronti dei matrimoni omosessuali, “una finzione”. Teologo di fama e di salda formazione ratzingeriana (è membro associato della rivista Communio, fondata da Hans Urs von Balthasar e Joseph Ratzinger), ha prima ottenuto la licenza in Filosofia alla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino nel 1974 e in seguito, nel 1983, ha conseguito il dottorato in Teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana a Roma. Di Marc Ouellet impressiona la grande profondità spirituale, ha scritto sul National Catholic Reporter il vaticanista americano John Allen. Decisiva, nella sua formazione, la lunga esperienza come missionario in Colombia: undici anni, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, trascorsi tra Bogotá e Cali insegnando teologia nei seminari della Compagnia dei sacerdoti di S. Sulpizio.
    Poliglotta (parla correntemente francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco e italiano), può vantare una lunga esperienza pastorale affiancata a prestigiosi incarichi nella curia romana: prima di diventare prefetto della congregazione dei Vescovi, infatti, è stato tra il 2001 e il 2002 segretario del Pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani, organismo allora retto dal cardinale Walter Kasper. Ouellet è stato poi consultore della congregazione per il Clero, della congregazione per la Dottrina della fede e della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. Nell’ottobre del 2008, il Papa lo nominò relatore generale alla dodicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi.

    “Diventare Papa sarebbe un incubo”
    Ai giornalisti del quotidiano Soleil di Québec City che gli chiedevano se avesse mai considerato di potere accedere un giorno al Soglio di Pietro, Ouellet rispose che “diventare Papa sarebbe un incubo”. Al solo pensiero “tremano i polsi”. Troppe responsabilità, doveri “tutt’altro che invidiabili”. Nessuno, giurò Ouellet, “fa campagna elettorale per conquistarsi quel posto”. Eppure – scriveva lo scorso giugno sull’Espresso il vaticanista Sandro Magister – questo riflessivo porporato canadese sarebbe uno degli uomini più adatti a governare la metamorfosi di una chiesa che guarda sempre più al sud del mondo, dall’America latina all’Africa e all’Asia. Attuale presidente della Pontificia commissione per l’America latina, a Ouellet guardano quei settori della chiesa che auspicano l’avvento del primo Pontefice non europeo. Giocano a suo favore l’esperienza in Colombia, la profonda conoscenza della situazione delle diocesi nel mondo assicurata dal suo incarico come capo dei vescovi e l’essere stato pastore di una diocesi tra le più secolarizzate d’America – dove ha promosso una nuova evangelizzazione prima ancora che Benedetto XVI la ponesse al centro della propria agenda.

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    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.