Catalogo dei non più viventi, da Ingroia a Fini (e Casini fa scongiuri)
E’ morto, politicamente e giudiziariamente, Antonio Ingroia. Non è deputato, difficilmente tornerà procuratore. Si distinse per aver incautamente concesso credibilità al pataccaro Ciancimino Jr.: è finito schiacciato da un’altra patacca, la pretesa di fare di una fetta particolare di società, per definizione incivile, il fulcro di una rivoluzione civile. Quando gli hanno chiesto se, tanto per fare chiarezza, avesse intenzione di dimettersi dalla magistratura, ha balbettato con visibile imbarazzo che il movimento da lui fondato proseguirà il suo bel cammino e lui lo accompagnerà: il resto è affar suo, cosa privata.
E’ morto, politicamente e giudiziariamente, Antonio Ingroia. Non è deputato, difficilmente tornerà procuratore. Si distinse per aver incautamente concesso credibilità al pataccaro Ciancimino Jr.: è finito schiacciato da un’altra patacca, la pretesa di fare di una fetta particolare di società, per definizione incivile, il fulcro di una rivoluzione civile. Quando gli hanno chiesto se, tanto per fare chiarezza, avesse intenzione di dimettersi dalla magistratura, ha balbettato con visibile imbarazzo che il movimento da lui fondato proseguirà il suo bel cammino e lui lo accompagnerà: il resto è affar suo, cosa privata. Ha detto di aver perso perché Bersani gli ha chiuso la porta in faccia, ma solo lui poteva pensare che potesse aprirgliela dopo quanto successo con il Quirinale. Ha detto di aver perso perché i media lo avrebbero marginalizzato: se l’hanno fatto è certamente per il suo bene, visto che tutte le volte che è andato in televisione, ogni santo giorno per la verità, si è impegnato assai per perdere voti, vedi quando ha tirato fuori da un armamentario da manicomio giudiziario la proposta di trattare l’evasione fiscale alla stessa stregua della mafia, con l’arresto e il sequestro preventivo dei beni sulla base del semplice sospetto. Insomma così iattante e furbetto da far perdere la pazienza persino a una persona per bene come Michele Serra: che ieri su Repubblica l’ha liquidato con un post scriptum, “spero che torni in Guatemala e ci resti per sempre”.
E’ morto, politicamente, Antonio Di Pietro, già sopravvissuto oltre ogni ragionevole limite a capo di un personalissimo partito e come detentore di valori fuori dal comune: rimasto a piedi, ha chiesto un passaggio, glielo hanno dato, si è schiantato ovunque, persino nella sua terra natale. La débâcle di Rivoluzione civile ha fatto altre tre vittime: i rimorti. Ferrero, Diliberto e Bonelli, segretari rispettivamente di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi, si sono spostati su e giù per l’Italia, si sono agitati, hanno presenziato, parlato, fatto qualche apparizione in televisione: non è bastato a provare con certezza che non fossero graffiti, impronte virtuali di un’altra era geologica. Si può dire dunque che il giustizialismo è ferito a morte: con commossa e vibrante partecipazione tutti noi che abbiamo gambe storte e code di paglia salutiamo un Parlamento quasi guarito da un’ulcera ventennale.
E’ morto Gianfranco Fini. Un tempo vicepresidente del Consiglio, un tempo ministro degli Esteri, ancora oggi e per pura forma presidente della Camera dei Deputati e Terza carica dello stato, di qui a poco il nulla. Forse non si è reso conto che proprio nella primavera del patricidio o fratricidio mancato aveva desiderato fortemente il suicidio: atto mancato e in tre anni perfettamente riuscito. Per tre anni ha visto il sangue fluire dal corpo, fino al pallore stanco, all’elocuzione impacciata degli ultimi giorni, lui uomo di mare, buon fisico e ottimo oratore. Senso dell’ineluttabilità del fato, pigrizia? Avrebbe potuto ribellarsi a le sue stesse pulsioni, abbandonare quel ridicolo scranno di Montecitorio cui è rimasto attaccato per orgoglio e pura vanità. Avrebbe dovuto non ascoltare i consigli cattivi dei falsi amici né il canto suadente di coloro che un tempo furono suoi avversari e aspettavano che tirasse via per loro le castagne dal fuoco. Avrebbe potuto mandare al diavolo il Cav. senza passare la linea rossa e tornare semplicemente a essere se stesso. Avrebbe potuto recuperare tutta intera la libertà d’iniziativa politica, arare campi elettorali, andare per ottomila comuni a spiegare e a spiegarsi, perché questo fa un leader in difficoltà che crede comunque di avere un futuro. Avrebbe. Ha fatto invece altro. Muore in solitudine e in disparte, fra tristi poltrone rosse di teatri vuoti di pubblico.
Non ancora morto, benché sulla buona strada, Pier Ferdinando Casini. La sera, faceva tenerezza tanto sembrava provato, tanto sembrava aver perso smalto e sicurezza. Diceva che lui e l’Udc si erano dissanguati per fare la trasfusione a Monti, che il risultato era stato al di sotto delle aspettative, però in Parlamento ci sarebbe stato con la sua pattuglia. Da quell’insuperabile democristiano che è, ha taciuto sul fatto che, a lui e ai suoi, l’ultimo soffio di vita glielo ha dato Fini.
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