Le applicazioni taroccate di Facebook che fanno arrabbiare gli imprenditori

Alberto Brambilla

L'idea che Facebook sia un laboratorio dove gli imprenditori della rete possano sperimentare nuove “applicazioni” è ormai messa definitivamente in discussione. In alcuni casi, ancora rari ma “rumorosi”, il social network più usato al mondo è sospettato di “clonare” le innovazioni in maniera anticoncorrenziale. 

    L’idea che Facebook sia un laboratorio dove gli imprenditori della rete possano sperimentare nuove “applicazioni” è ormai messa definitivamente in discussione. In alcuni casi, ancora rari ma “rumorosi”, il social network più usato al mondo è sospettato di “clonare” le innovazioni in maniera anticoncorrenziale. Da quando Facebook si è quotato a Wall Street, nel 2012 – e con scarso successo – si propone non più solo come piattaforma per la condivisione di contenuti tra gli iscritti, ma anche come “spazio” virtuale per gli sviluppatori di applicazioni, le cosiddette “app Facebook-based”. Le app sono vendute all’utente a pochi euro ma portano guadagni esponenziali a ideatore e sviluppatore. Nel caso specifico, sono i programmi che consentono operazioni più o meno semplici, come visualizzare una foto o interagire con altri utenti, nati e costruiti per restare all’interno del social network ed essere usati, in particolare, tramite dispositivi mobili, come i telefoni smartphone (una quota sempre maggiore nel “mercato” delle nuove tecnologie). 

    Le applicazioni sono un affare per gli imprenditori, che si cimentano nel loro sviluppo, e per Facebook stesso, che da esse ricava traffico, contatti e pubblicità. La collaborazione, però, funziona solo se il rapporto di fiducia tra gli sviluppatori e la società presieduta da Mark Zuckerberg rimane solido. E non sempre è così. In passato, per esempio, ci sono stati problemi con “Friendthem”, un’applicazione che dice agli utenti quali tra i loro amici si trova fisicamente nelle vicinanze. “Sono rimasto stupito quando ho visto che Facebook stava candidamente copiando la nostra idea con un’applicazione chiamata ‘Find Friends Nearby’”, ha detto l’amministratore delegato di Friendthem, Charles Sankowich a Ctnews, ravvisando che l’applicazione che Facebook aveva pubblicato era molto simile (almeno nel concetto base: vedo gli amici attorno a me) a quella da lui creata. Il social network si è difeso dicendo che si trattava di un semplice test. Il caso però non è isolato. Un articolo della Cnbc ha fatto emergere, senza esplicitarlo, un altro fatto simile. Si tratta di “Facearound”, un’applicazione con 75 mila sostenitori ideata dalla Business Competence, una società tutta italiana. Questa applicazione consente di vedere, tramite un sistema di geolocalizzazione, tutti i locali e i luoghi di interesse nelle vicinanze degli utenti, unitamente alle promozioni e agli sconti offerti dagli stessi locali. Riportava la Cnbc: “L’app si muove nella lista di utenti e dei loro amici ed espone una dettagliata mappa dei ‘luoghi di interesse’ nei pressi. Nearby, invece, è la creatura di Facebook approdata sul social network a dicembre 2012 (quattro mesi dopo l’originale, ndr) che di base funziona allo stesso modo, tranne per il sistema di coupon e sconti che caratterizza Facearound”.

    Le conseguenze di questi fatti non sono di poco conto. Come fanno notare al Foglio degli analisti di settore che prefersicono restare anonimi, il fatto che Facebook possa “clonare” le idee e modelli delle applicazioni ha due conseguenze: mina alla base il concetto di concorrenza imprenditoriale che Facebook professa e intende difendere e di conseguenza rischia di allontanare gli imprenditori e gli sviluppatori dal social network. Se infatti è sano che gli sviluppatori si “combattano” per costruire l’applicazione migliore e cerchino di superarsi tra loro, è più difficile per il singolo riuscire a competere con Facebook stesso. Soprattutto se per registrare la propria applicazione sul Facebook App Center è a volte necessario mettere a nudo l’applicazione esponendo le funzionalità che la compongono. 

    Fino a prova contraria, tutti gli utenti sono incentivati a partecipare alla creazione di nuove realtà perché “essere in Facebook” significa avere una visibilità potenzialmente planetaria. Ma se il rapporto di fiducia su cui si basa la transazione – cioè traffico di utenti in cambio di visibilità – viene tradito, lo scambio risulta poco conveniente. Creare un’applicazione costa mesi di lavoro, migliaia di euro, ed espone gli sviluppatori a un “rischio imprenditoriale” perché non è sempre facile trovare, infine, dei finanziatori. Se Facebook non riuscirà a dissipare ogni dubbio, il caso delle “app” clonate potrebbe spingere sempre meno persone ad assumersi questo rischio, sapendo che poi potranno trovarsi a competere con un colosso, e quindi non alla pari.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.