Il fatale incontro

Stefano Di Michele

Tutto sta nel primo incontro – e nelle prossime settimane ce ne saranno di sorprendenti, in politica e ancor di più in Vaticano. Questione di pelle, di empatia – di ripulsa, quel leggero formicolio che si avverte: fermati, non fidarti, non oltre. Una smorfia, un sorriso, una frase – un’intesa futura, un amore nascente, un allontanamento scaltro. Una fortuna, una sfortuna. Come quando alla stazione Anna Karenina inciampa nello sguardo e nei pettorali del conte Vronskij – e intanto un povero operaio finisce sotto il treno: insieme, inizio della passione e sua brutta conclusione.

    Tutto sta nel primo incontro – e nelle prossime settimane ce ne saranno di sorprendenti, in politica e ancor di più in Vaticano. Questione di pelle, di empatia – di ripulsa, quel leggero formicolio che si avverte: fermati, non fidarti, non oltre. Una smorfia, un sorriso, una frase – un’intesa futura, un amore nascente, un allontanamento scaltro. Una fortuna, una sfortuna. Come quando alla stazione Anna Karenina inciampa nello sguardo e nei pettorali del conte Vronskij – e intanto un povero operaio finisce sotto il treno: insieme, inizio della passione e sua brutta conclusione. O Dante che incrocia Beatrice, “era vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno” (insomma, di rosso) e se la tirerà dietro per l’intera vita e oltre, in questo mondo e in quell’altro, quale guida paradisiaca – seppure a mo’ di Teologia. Certi incontri ti fanno finire sulle rotaie, certi altri ti portano tra le nuvole. Altrimenti attenersi all’incontro, di pura, un po’ stitica marca – di modi, di linguaggio – anglosassone, tra il giornalista Stanley e mister Livingstone (città di Ujiji, lago Tanganica: posti complicati): “Dr. Livingstone, I presume”. Ma appunto: non per tutto nella vita è disponibile la baglioniana “lampada Osram / è il primo appuntamento / e tu ci tieni tanto / sei certa che verrà”. Così che uno dei più famosi amori della Prima Repubblica, quello tra Palmiro Togliatti e Nilde Iotti, sbocciò dopo un primo incrocio banale e formale, perciò lo stesso con qualche palpitazione da lampada Osram, “lo vidi per la prima volta in un ascensore secondario di Montecitorio. Ma non ci parlammo. Ci si guardò soltanto…”. E uno degli incontri che condizionarono la storia stessa della Prima Repubblica, quello tra De Gasperi e Giulio Andreotti, avvenne tra gli scaffali della biblioteca vaticana, dove il primo lavorava e il secondo andava a ravanare alla ricerca di materiale per la tesi di laurea sul poco appassionante tema del Diritto della navigazione. “Non hai niente di meglio da studiare? Lascia perdere la marina pontificia e vieni a lavorare con noi”. Detto, fatto: e persino l’immaginario del paese cambiò – ha dato più da fare l’almanaccare nazionale sui misteri andreottiani che sull’ammaccata rispettabilità coniugale della signora Karenina.

    E adesso comincia un periodo fitto di primi incontri come mai nella storia della penisola italica. Che si diranno, per esempio, Grillo e Napolitano quando si incontreranno (Beppe ha detto che vuole andare da Giorgio, che poi da Giorgio voleva andare anche Maradona, pure quello per un primo incontro: c’è da serrare il portone e allertare i corazzieri) per la prima volta al Quirinale? Dopo il reciproco annunciare il “boom”, scansare il “boom” – solo quello economico essendo presente, in quella fase, al presidente – e il grillesco “chapeau!” dell’altro giorno, come si avvierà la discussione? E ci sarà mica poco da sorridere alla miriade dei prossimi primi incontri che,   tra l’aula e i corridoi di Montecitorio, da metà marzo avverranno tra i pischelli grillini con le Converse ai piedi e i più stagionati marpioni lì da decenni accasati? Con che lingua si parleranno? Che poi, non potendo risolvere il tutto come nel romanzesco auspicio “Incontrarsi e dirsi addio”, bisognerà per forza insistere, e inevitabile a un primo incontro far seguire un secondo, a un secondo un terzo, finché legislatura non li separi – così che quasi certamente quei primi scambi di occhiate e parole si faranno evocativi del giudizio universale messo in scena da Roberto Benigni, dove si incrociano un faraone e un terzino della Sampdoria, e dunque il dubbio dal comico agli eletti del comico passa e resta: “Un terzino della Sampdoria e un faraone che si possono dire?”. Ecco, più o meno.

    Ma niente in confronto al primo incontro che si prepara in Vaticano, da qui a pochi giorni, a Conclave concluso: quello tra un Papa e un ex Papa, altro che faraone e terzino della Sampdoria, un evento che neanche la più sfrenata produzione fantareligiosa – né le recenti “inpapate” alla Dan Brown, né altri immaginari e ben più suggestivi pontefici (l’Adriano VII di Rolfe Frederick, l’Urbano IX di Bruce Marshall, il Kiril I di Morris West) avevano mai messo in conto simile ipotesi. Finora ci si era spinti al più a ritrarre letterariamente una “Roma senza Papa”, ma una Roma con due papi a nessuno era venuta in mente. Realtà meglio della fantasia. E ovviamente mai un Papa aveva incontrato l’altro Papa (a parte Stefano che fece disseppellire e processò il suo predecessore Formoso: ma questa è storiaccia da alto Medioevo, roba andata): un primo incontro destinato a entrare nella storia. “Tu sei Pietro”. “Beh, pure tu eri Pietro”. Ben oltre persino la leggenda della papessa Giovanna. 
    Un primo incontro può sempre decidere un destino – o un destino lasciare inalterato, ma allora nessuno quel primo incontro ricorderà. Oppure sì – e allora, incontrarsi e dirsi addio, ciao ciao, amorazzi a caratura ungherese tra le due guerre, nulla  di più. Comunque, un tema. Così che per anni la rivista americana Atlantic ne ha fatto una sorta di rubrica, un raffinato appuntamento – con Nancy Caldwell Sorel che raccontava questi incontri ed Edward Sorel che li illustrava. Grandi personaggi della storia, celebri musicisti, scrittori straordinari, inventori di geni, ignobili dittatori. E qualche anno fa, quando la Mondadori pubblicò una raccolta di queste storie illustrate, come titolo scelse così il più opportuno: “Primi incontri di personaggi famosi, meno famosi, infami”. Pure la salvezza del mondo, succede, deve a volte sfidare l’umana antipatia e incomprensione. Per esempio, non andò bene il primo approccio tra due protagonisti della lotta contro il nazismo, nel pieno della Seconda guerra mondiale: il generale francese De Gaulle e il presidente americano Roosevelt. “Questi aprì la conversazione in un francese colloquiale. Il generale ribatté nell’eloquio classicheggiante dei philosophes. Dovettero intervenire gli interpreti, il che non semplificò certo la situazione”. Due fatti per non capirsi – e che per fortuna, vista l’alternativa, finirono col comprendersi. Ma fu un primo incontro poco piacevole. Il francese “fu intransigente riguardo all’argomento della propria autorità, e quando Roosevelt, con l’ostinazione che gli derivava dalle sue origini olandesi, annunciò altezzosamente che non poteva sostenere De Gaulle perché non era stato eletto dal popolo francese, il generale rispose senza batter ciglio che nemmeno Giovanna d’Arco era mai stata eletta”.

    Al Cremlino, invece, si trovarono faccia a faccia Stalin e Churchill. Il primo ministro inglese, pur sistemato in una villa “con una stanza da bagno più moderna di quella della Cancelleria britannica”, non aveva buone notizie per il capo sovietico, che “espresse tutta la sua disapprovazione”. In seguito, Stalin gli propose di bere qualcosa nel suo appartamento privato. I due bevvero di gusto, “la conversazione scorse generosamente come il vino”, così “l’ora prevista da Churchill diventarono sette”. Stalin, a un certo punto, notò che il dramma della guerra non era paragonabile alla sua lotta per imporre la colletivizzazione dell’agricoltura. Il primo ministro inglese – la politica ha ragioni che il cuore non conosce – passò oltre. “Milioni di kulaki erano stati, per così dire, eliminati. Lo storico Churchill ripensò al detto di Burke: ‘Se non posso avere riforma senza ingiustizia, rinuncerò alla riforma’, ma il politico Churchill concluse che, se la guerra richiedeva unità tra gli alleati, era meglio non moraleggiare ad alta voce”. Cosa che non fece neanche il presidente americano Nixon, quando per la prima volta, nel suo viaggio in Cina, incontrò la moglie di Mao, la bellicosa Jiang Qing, ostinatamente contraria all’incontro tra suo marito e il diavolo imperialista americano. Lei condusse gli ospiti ad assistere a una sua opera, “Il dipartimento rosso femminile”, dove le ballerine danzavano col pugno chiuso levato in alto. E intanto tempestava Nixon di domande. “Il presidente condivideva il suo entusiasmo per John Steinbeck? (E che dire, comunque, delle misere condizioni del proletariato dell’Oklahoma descritte nei suoi romanzi?). Perché Jack London si era suicidato? (Forse per incompatibilità con i valori decadenti della società capitalistica?). Quando Nixon cercò di cambiare discorso chiedendo a Jiang chi avesse scritto, musicato e diretto ‘Il dipartimento rosso’, lei lo informò amabilmente che era stato ‘creato dalle masse’. Nixon riuscì in qualche modo a sorridere”. C’è Trotsky che vede per la prima volta Lenin mentre quello dormiva a letto, con la Krupskaja che si aggira nei pressi in camicia da notte – Londra, ottobre 1902 – e Hitler nervoso al primo incontro con Mussolini, nel giugno del 1934. “Tanto per cominciare aveva trascurato d’indossare l’uniforme”, e senza uniforme un dittatore di solito non sa dove tenere le mani. Quello già voleva l’Austria, Mussolini non voleva saperne, alla fine “uscirono a lunghi passi senza degnarsi d’uno sguardo”. Seguirono gelidi saluti (chissà se romani). “Qual era stata la sua impressione di Hitler? chiesero in seguito a Mussolini. ‘Un piccolo buffone pazzo’, fu la risposta”. Peccato che dopo quel primo, già allarmante incontro il fascista nostrano continuò a dar man forte al nazista teutonico, così da far finire tutti nelle mani del “piccolo buffone pazzo”. Lui per primo.
    Perché magari aveva ragione Oscar Wilde, che ha quasi sempre ragione, quando sosteneva che “solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”, e dunque un primo incontro dovrebbe essere sufficiente per prendere almeno le misure, per sapere se ne deve seguire un secondo o se mettere immediatamente le distanze. Quando Wilde andò in America, disse che desiderava incontrare Walt Whitman, il grande autore di “Foglie d’erba”. “Subito gli venne recapitato un messaggio: ‘Walt Whitman sarà a casa questo pomeriggio dalle due alle tre e mezza’”. Wilde andò. “Vengo da poeta a salutare un poeta”, esordì. E l’altro (tirando fuori una temeraria bottiglia di vino di sambuco preparato dalla cognata): “Ti chiamerò Oscar”. Tra l’estetismo wildiano e la prosa di Whitman, c’era un abisso. “Vedi Oscar, mi è sempre sembrato che chi si mette alla ricerca della bellezza in sé e per sé, sia su una brutta strada”. Ma i due s’intesero lo stesso – e per il poeta americano Wilde rimase sempre “un bel ragazzone elegante”, mentre l’inglese, rievocando il tremendo vino di sambuco, ammetteva: “Fosse stato aceto l’avrei bevuto ugualmente”. Un primo incontro (causa distanza, anche ultimo) che funzionò. A proposito invece di mettere le distanze, così fece, e così bene fece, il grande regista Fritz Lang dopo essere stato convocato, nella primavera del 1933, dal ministro nazista della Propaganda, Joseph Goebbels. “Gli uomini in camicia bruna delle truppe d’assalto erano dappertutto, e quando venne introdotto nel grande ufficio dalle grandi finestre, Lang sudava come una fontana”. E invece, il dotto Goebbels “aveva fatto chiamare Lang perché Hitler aveva molto ammirato ‘Metropolis’, e avrebbe voluto fare di lui una sorta di ministro del Reich per la cinematografia”. Lang promise una risposta entro ventiquattr’ore, tornò a casa, racimolò cinquecento marchi e alcuni gioielli, e quella sera stessa prese il treno per Parigi e abbandonò la Germania. Perché, appunto, a non voler essere superficiali, la prima impressione il più delle volte è sufficiente per capire.

    Nancy Caldwell Sorel e Edward Sorel hanno raccontato e illustrato anche decine di incontri tra i grandi protagonisti della letteratura, della musica, dell’economia, del cinema. E qui, simpatie reciproche o reciproche antipatie, nessuno ha almeno la sfortuna di trovarsi faccia a faccia con un Goebbels o un Hitler o un Mussolini o uno Stalin. Henry James ricordava sempre di aver “indimenticabilmente conosciuto” Rupert Brooke, destinato a morire presto in guerra – dopo aver composto “splendidi sonetti”. “Dalla sua persona s’irradiava una grazia innata, una straordinaria dolcezza, addirittura una sorta di luminosità”. James chiese se fosse considerato un grande poeta. Allora gli risposero di no. Sospirò. “Sia ringraziato il cielo. Con l’aspetto che ha, se fosse anche un buon poeta non so proprio cosa potrei fare”. Igor Stravinskij ospitò a casa sua Auden per lavorare insieme all’opera “La carriera di un libertino”. Auden viveva con un gatto, Stravinskij con quaranta tra pappagalli e parrocchetti schiamazzanti. Uno era tutto azzimato e misurato, l’altro mangiava in maniera pantagruelica e “sapone e asciugamani nel suo bagno”, spiò la cameriera, non venivano usati. Ma l’intesa fu perfetta, l’amicizia durò tutta la vita, “il compositore non perdeva occasione per soffocare il poeta con poderosi abbracci alla maniera russa”. Cechov la prima volta che vide Tolstoj lo trovò a bagno in un fiume a Jasnaja Poljana. Erano diversi, ma erano due geni. “Cechov non sopportava l’aspetto moralistico dei romanzi di Tolstoj; quest’ultimo condannava le commedie del primo definendole peggiori di quelle di Shakespeare”. Ma lo stesso, fino all’ultimo, l’autore delle “Tre sorelle” sostenne: “Finché in letteratura ci sarà un Tolstoj, sarà bello essere uno scrittore”. Fenomenale  il primo incontro tra F. Scott Fitzgerald e la somma Edith Wharton. Il giovane, trasgressivo scrittore credeva di impressionare la vecchia scrittrice raccontando, mentre sorseggiavano il tè, “una storiella a proposito di una coppia di ingenui turisti americani che avevano trascorso tre giorni (due settimane) in un bordello parigino convinti si trattasse di un albergo. Fine della storia”. La Wharton impressionata? Macché, casomai delusa: “Ma signor Fitzgerald, non ci ha raccontato cosa succede nel bordello!”.

    Lo scienziato Fleming donò all’ammiratissima Marlene Dietrich una fiala di vetro: “E’ l’unica cosa che mi sembrava di poterle regalare: la prima coltura di penicillina”; Descartes andò a trovare Pascal quando era ammalato, “la conversazione cadde sul problema del vuoto”; Puccini la prima volta che si trovò davanti e sentì cantare Caruso: “Ma chi vi ha mandato? Dio?”. E poi Berlin e Gershwin, lord Charles Stewart Rolls che incontra il meccanico Henry Royce, Freud e Mahler e la momentanea impotenza del musicista, Sartre e la De Beauvoir e la camicia “più o meno pulita”, Galbraith e Keynes scambiato per un certo “signor Kines” che voleva parlare di mais e suini. E un fenomenale incontro in ascensore – come Togliatti e la Iotti, ma qui primo e ultimo: del resto, la passioni non scoccò – tra il giovane Orson Welles e William Randolph Hearst, il magnate americano che  aveva ispirato il personaggio di Charles Foster Kane di “Quarto potere”. Incontro inatteso salendo ai piani alti del Fairmont Hotel. Welles cerca di fare il simpatico, invita Hearst alla prima del film. “Le sue avances si infrangono contro un muro di silenzio”. E mentre Hearst esce, gelido e scuro, dall’ascensore, Welles non resiste e gli urla dietro, malizioso: “Charles Foster Kane avrebbe accettato!”. Ecco un primo incontro davvero coi fiocchi.