Le rivelazioni di un insider
Nella guerra per bande della Casa Bianca s'è persa la vittoria a Kabul
Ieri mattina Foreign Policy ha pubblicato un pezzo di Vali Nasr, l’esperto di medio oriente e Asia cooptato per due anni a lavorare con l’Amministrazione Obama. Molto lungo, sofisticato, pieno di dettagli inediti, il resoconto è parte di un libro appena uscito sulla crisi profonda della diplomazia americana durante il primo mandato del presidente (“The Dispensable Nation: American Foreign Policy in Retreat”). Nasr è sempre stato un tecnico, interessato alle questioni di politica estera e non di politica interna, ma la sua testimonianza dall’interno del dipartimento di stato e dell’Amministrazione descrive la scena di un massacro tra bande rivali.
Ieri mattina Foreign Policy ha pubblicato un pezzo di Vali Nasr, l’esperto di medio oriente e Asia cooptato per due anni a lavorare con l’Amministrazione Obama. Molto lungo, sofisticato, pieno di dettagli inediti, il resoconto è parte di un libro appena uscito sulla crisi profonda della diplomazia americana durante il primo mandato del presidente (“The Dispensable Nation: American Foreign Policy in Retreat”). Nasr è sempre stato un tecnico, interessato alle questioni di politica estera e non di politica interna, ma la sua testimonianza dall’interno del dipartimento di stato e dell’Amministrazione descrive la scena di un massacro tra bande rivali.
Dopo essere stato nominato rappresentante speciale per l’Afghanistan e il Pakistan, Richard Holbrooke, diplomatico con fama di essere tenacissimo e grande amico di Hillary Clinton (che lo avrebbe voluto come vice, ma Obama si oppose), mise assieme a tempo di record un ufficio e uno staff pensati per portare a Washington soluzioni fresche. “Una specie di start up – racconta Nasr – Holbrooke incoraggiava il caos creativo” per generare idee a getto continuo. “Non voglio che facciate come il resto del governo. Quel posto è intellettualmente morto. Non produce più idee, è tutta una battaglia per il territorio. Il vostro compito è tagliare dritto. E se qualcuno vi crea problemi, rivolgetevi a me”, diceva l’uomo di Clinton. Alla prima visita al nuovo ufficio, persino il generale David Petraeus, abituato a smantellare burocrazie, era stupefatto: “Non ho mai visto un’organizzazione così piatta, con la gerarchia ridotta al minimo”. Ma benché gli avesse affidato il dossier AfPak, Obama rifiutava di prendere in considerazione le proposte che arrivavano da Holbrooke, mai ricevuto per un incontro faccia a faccia. Lui era ignorato e la Clinton riusciva ad andare avanti soltanto quando la Casa Bianca – che invece per prendere le decisioni s’affidava molto al Pentagono e ai servizi segreti – capiva che non c’era niente da fare, perché non esiste un buon surrogato per la diplomazia. “Quando le cose sembravano sul punto di cascare a pezzi, chiamavano la Clinton perché era la sola a poter salvare la situazione”.
La difesa messa in piedi dallo staff più stretto di Obama – tutta gente arrivata dalla campagna elettorale e ancora abituata a vedere Hillary come un nemico, non come un pezzo della macchina governativa – era così alta e insormontabile da essere chiamata “il muro di Berlino”. Il problema è che lo staff era bravo a difendere il territorio, ma non altrettanto in politica estera e tendeva a influenzare le decisioni finali di Obama seguendo un solo criterio: quanto avrebbero giovato all’immagine del presidente (oppure: avrebbero fornito cartucce alle critiche dei rivali repubblicani?). Il criterio del funzionamento o no nel campo del reale era tenuto sullo sfondo.
Nella guerra per bande, ogni mezzo era lecito. La Casa Bianca teneva aggiornato un dossier su Holbrooke, di possibili capi d’accusa – come per esempio qualche rivelazione di troppo ai giornalisti – e Hillary teneva un controdossier su tutti gli espedienti per incastrare il suo mastino. Arrivarono persino a chiedere ai funzionari afghani se tutto andava bene con il rappresentante americano, in un completo rovesciamento delle parti: invece che chiedere al diplomatico come fossero i rapporti con gli infidi funzionari afghani, chiedevano a loro un giudizio nella speranza di coglierlo in fallo. Scrive Nasr che già nel 2009 c’era la possibilità di fare la pace con i talebani, “ma la Casa Bianca non voleva tentare nulla di così audace come una soluzione diplomatica. Per chi prende le decisioni in alto, è come un’arte perduta. Non hanno esperienza in quel campo e sono ansiosi all’idea di impegnarcisi. In campagna elettorale, Obama aveva promesso di aprire un nuovo capitolo della politica estera americana: gli Stati Uniti si sarebbero lasciati alle spalle l’approccio militarizzato di Bush e avrebbero cominciato a fare diplomazia sul serio. Ma quando venne l’ora dell’Afghanistan e del Pakistan, soltanto Clinton si spendeva a favore della diplomazia”. Vinse in effetti la soluzione militare. Del resto erano i più ascoltati, secondo una divisione dei compiti che suonava così: dell’Afghanistan si occupava il Pentagono e del Pakistan la Cia. Non granché come rivoluzione rispetto a Bush.
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