Processo a Napolitano

Claudio Cerasa

“Sommessamente, vorrei ricordare che non rientra tra le prerogative che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica definire la linea politica del Pd, e quindi escludo che il Quirinale abbia intenzione di partecipare al dibattito interno al nostro partito”. Matteo Orfini, con questo breve virgolettato offerto al Foglio, sintetizza bene un sentimento facilmente intercettabile in queste ore all’interno del martoriato mondo del centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani.

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    “Sommessamente, vorrei ricordare che non rientra tra le prerogative che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica definire la linea politica del Pd, e quindi escludo che il Quirinale abbia intenzione di partecipare al dibattito interno al nostro partito”. Matteo Orfini, con questo breve virgolettato offerto al Foglio, sintetizza bene un sentimento facilmente intercettabile in queste ore all’interno del martoriato mondo del centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani. Il sentimento in questione è un inedito assoluto per la storia del Pd ma giorno dopo giorno, dichiarazione dopo dichiarazione, intervista dopo intervista, risulta sempre più evidente che una buona parte della coalizione capitanata dal segretario del Partito democratico ha deciso di mettere sotto processo la linea scelta da Giorgio Napolitano per tentare di guidare il paese in questa delicata fase post elettorale. Al centro dello scontro non più a bassa intensità tra presidente della Repubblica e leader del Pd c’è un problema legato a una parola rispetto alla quale Bersani e Napolitano hanno due visioni che più opposte non potrebbero essere: “Elezioni”. In sintesi, il segretario è convinto che il Quirinale debba sciogliere le Camere nel caso in cui il Movimento 5 stelle non voti la fiducia al governo Bersani e che anche la sola idea che qualcuno, cioè Napolitano, possa pensare a un nuovo governissimo sul modello Monti sia, come sostiene Stefano Fassina, un “suicidio per la democrazia”; dall’altra parte, invece, il Quirinale ha fatto capire in ogni modo che la sciagura vera sarebbe andare nuovamente alle elezioni e che per questo sia doveroso per il capo dello stato tentare un’altra soluzione, anche a costo di dover ricorrere a una formula tecnica simile a quella già adottata nel novembre del 2011 con Mario Monti. Un’idea, diciamo così, non esattamente gradita dal fronte del Pd più legato al segretario. “Una fiducia a un governo stile Monti io non la voto neanche se mi sparano”, dice al Foglio il senatore del Pd Stefano Esposito, e sulla stessa lunghezza d’onda è il ragionamento fatto da Daniele Marantelli, deputato vicino al segretario Pd.

    “Io – dice Marantelli – stimo moltissimo Napolitano ma sarebbe ipocrita non riconoscere che è anche a causa del modello delle larghe intese con cui abbiamo convissuto negli ultimi mesi se oggi ci ritroviamo in quello che è lo scenario di instabilità più grave mai visto in Italia nella storia recente della Repubblica”. La dialettica tra il segretario del Pd e il presidente della Repubblica ha avuto l’effetto di innescare una serie di meccanismi a catena che probabilmente non emergeranno domani durante la direzione del Pd (dove la linea Bersani passerà più o meno all’unanimità) ma che, come ammette Orfini, rischiano di “detonare” un minuto dopo che Bersani chiederà a Napolitano l’incarico. “La nostra linea è semplice: non ci può essere alcun governo che non sia appoggiato contemporaneamente dal Pd e dal Movimento 5 stelle, ovvero dal primo e dal secondo partito italiano, e se Napolitano non dovesse confermare l’incarico a Bersani la strada è quella delle urne, e sono convinto che anche i numeri in Parlamento saranno dalla nostra parte”. I numeri, già. La carta d’intenti firmata dai leader del centrosinistra prevede che “in caso di dissenso su temi rilevanti la coalizione dovrà esprimersi a maggioranza qualificata”. E la ragione per cui il segretario è convinto che la sua linea sia destinata a prevalere è legata ai numeri delle sue truppe in Parlamento, dove Bersani su 340 deputati eletti dal centrosinistra alla Camera (la proporzione è simile al Senato) avrebbe, tra giovani turchi (circa 60), vendoliani (35) e bersaniani (un’ottantina), più della metà dei deputati favorevoli alle elezioni subito. Senza contare poi un dettaglio importante: che la linea niente governissimi è condivisa anche dai circa 30 deputati vicini al sindaco di Firenze. “Dal nostro punto di vista – dice al Foglio Alfredo Bazoli, neo deputato renziano – dovendo scegliere tra un governissimo e le elezioni non c’è dubbio che metterei la mia ‘x’ sulla seconda opzione”. Un’opzione che prevede un “no” a un nuovo pasticcio alla Monti (in pratica, gli unici favorevoli al governo tecnico, a oggi, sarebbero i grillini) e un “sì” alle elezioni il prima possibile, e se serve anche a giugno. Il ragionamento è simile a quello dei bersaniani ma prevede un corollario diverso alla voce “candidato premier”. “Se si rivota a giugno – sostiene Matteo Richetti, deputato rottamatore – è legittimo che Renzi possa pensare di riproporsi agli elettori e che Bersani faccia un passo indietro”. La linea è questa, ma chissà che Napolitano non abbia nel taschino una mossa a sorpresa per vincere in extremis la sua ultima partita con il Pd di Bersani.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.