La piccola ma creativa chiesa dell'Asia e le sorprese che potrebbe regalare al Conclave

Matteo Matzuzzi

Una “minoranza creativa in crescita”, aveva definito la presenza cattolica in Asia il cardinale Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio consiglio per i laici, aprendo nell’agosto del 2010 il Congresso dei laici cattolici dell’Asia. Oggi quella minoranza “di certo non timida, chiusa e ripiegata su se stessa” è effettivamente in crescita: i fedeli sono più di 120 milioni su una popolazione complessiva di quasi 4 miliardi di individui. Ogni anno i cattolici aumentano di circa il 4 per cento, realtà come le Filippine sono tra le più vive e animate da “una forte fede e tradizione cattolica”.

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    Una “minoranza creativa in crescita”, aveva definito la presenza cattolica in Asia il cardinale Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio consiglio per i laici, aprendo nell’agosto del 2010 il Congresso dei laici cattolici dell’Asia. Oggi quella minoranza “di certo non timida, chiusa e ripiegata su se stessa” è effettivamente in crescita: i fedeli sono più di 120 milioni su una popolazione complessiva di quasi 4 miliardi di individui. Ogni anno i cattolici aumentano di circa il 4 per cento, realtà come le Filippine sono tra le più vive e animate da “una forte fede e tradizione cattolica”.
    L’Asia rappresenta la grande sfida della chiesa dei prossimi anni: resistere alle derive integraliste e al relativismo e continuare, ampliandola, la missione evangelizzatrice. E’ la Cina, con il suo miliardo di abitanti, il terreno da coltivare, la grande speranza che ha animato Benedetto XVI, come ha ricordato recentemente il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong e da poco più di un anno escluso per limiti d’età dal gruppo dei porporati con diritto di voto in Conclave: “Per la Cina questo Pontefice ha compiuto gesti che non ha fatto per nessun altro paese. A nessuna altra chiesa particolare ha scritto una ‘Lettera’ specifica, nessun paese può contare su una commissione ad hoc della Santa Sede. Noi dobbiamo essergli riconoscenti in modo profondo”. Lo sa bene anche il successore di Zen alla guida dell’avamposto cattolico in Cina, il cardinale John Tong Hon, dal 2009 capo della diocesi di Hong Kong. Tong Hon, 74 anni, figura slanciata e ieratica, sempre sorridente e appassionato di sport, ha scelto un approccio dialogante con Pechino. Dove prima c’era asprezza e chiusura, ora c’è moderazione e ricerca del negoziato. “E’ preferibile essere pazienti e aperti al dialogo con tutti, anche con i comunisti”, diceva alla rivista 30Giorni poco dopo la sua creazione a cardinale, avvenuta nel febbraio 2012.

    Cattolico di seconda generazione (sua madre si convertì solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando John aveva già sei anni), esule con la famiglia a Macao per sfuggire alle rappresaglie giapponesi, il vescovo di Hong Kong è giunto a Roma negli anni in cui si chiudeva il Concilio, venendo ordinato sacerdote direttamente da Paolo VI e ottenendo licenza e dottorato in Teologia dogmatica alla Pontificia Università Urbaniana. Laureato in Filosofia, profondo conoscitore del pensiero taoista e confuciano, è convinto che Hong Kong possa diventare un ponte sempre più saldo tra Roma e Pechino, alimentando quella “fede e devozione per Cristo” già forte e ben radicata nel tessuto sociale cinese. La dimostrazione è nei numeri, spiegava Tong Hon: nel 1949 i cattolici in Cina erano 3 milioni, ora sono almeno 12. Un dato positivo per un continente che, come spiegava Rylko, “subisce l’influsso potente della postmodernità, che informa una mentalità secolarizzata e stili di vita senza Dio”.
    In Asia la chiesa è viva, scriveva Benedetto XVI nella sua Lettera del 2007 ai cattolici cinesi, e la prova è data anche dall’India, con i suoi 18 milioni di cattolici. Un piccolo nucleo diviso al suo interno in comunità e riti che progredisce nonostante le difficoltà. Una crescita costante, anche se fragile, ha detto in un’intervista al vaticanista irlandese Gerard O’Connell l’arcivescovo di Ranchi, Telesphore Placidus Toppo. Primo cardinale aborigeno dell’India, appartenente alla tribù Kurukh, ordinato sacerdote in Svizzera, anche lui ha frequentato l’Urbaniana a Roma. Insegnante, gran viaggiatore, conosce otto lingue. Stimatissimo in patria, è stato a capo della Conferenza episcopale indiana che raggruppa i vescovi dei tre riti latino, siro-malabarese e siro-malankarese dal 2004 al 2008 e la Conferenza episcopale dei vescovi cattolici di rito latino dal 2002 al 2005 e dal 2011 a oggi. Presidente delegato all’undicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo sull’Eucaristia nell’ottobre del 2005, Toppo è ben visto anche in curia, dove è uno dei cinque membri della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior. Di lui si parla come possibile sorpresa asiatica se il Conclave non dovesse essere breve. “Penso che il prossimo Papa dovrebbe provenire da una chiesa locale animata da una forte fede cattolica: è stato così per la Polonia con Giovanni Paolo II e per la Baviera con Benedetto XVI. La comunità indiana è divisa e piccola”, dice Toppo, che invita a guardare piuttosto alle Filippine del giovane Luis Antonio Tagle.

    All’arcivescovo di Manila, però, manca quell’esperienza amministrativa che ha invece il cardinale cingalese Malcom Ranjith Patabendige Don, capo della diocesi di Colombo (Sri Lanka) dall’agosto del 2009. Ranjith, 65 anni, studi al Collegio di Propaganda Fide a Roma, licenza in sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, allievo a Gerusalemme di Carlo Maria Martini e Albert Vanhoye, ha alternato esperienze da nunzio – il primo nella storia del suo paese – in giro per il mondo  (dall’Indonesia a Timor Est) a incarichi nella curia romana, culminati nella nomina a segretario della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, avvenuta nel 2005 per volontà di Joseph Ratzinger. Quattro anni più tardi, il ritorno in patria seguito, l’anno successivo, dalla creazione a cardinale. Conservatore in questioni dottrinali, in Vaticano si disse che il suo allontanamento da Roma fu dovuto ad alcune prese di posizione considerate troppo vicine alle istanze lefebvriane, come la critica alla comunione data in mano – a suo parere il Concilio non aveva mai autorizzato tale “innovazione” – e l’accusa di disobbedienza al Papa mossa a quei vescovi che si rifiutavano di promuovere la celebrazione della messa secondo il rito antico, accusandoli di essere dei “ribelli”.
    Della messa in latino, Ranjith è sempre stato uno strenuo difensore: in un messaggio del 2011 plaudiva all’“entusiasmo di coloro che promuovono la causa del ripristino delle vere tradizioni liturgiche della chiesa”.

    Il rito antico, sosteneva l’arcivescovo di Colombo, “rappresenta nel modo più appagante la chiamata mistica e trascendente a un incontro con Dio nella liturgia”. Si augurava, l’ex segretario della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, “il ritorno del rito antico”. Qualche mese fa, nel corso di un’assemblea con il clero locale, diceva che “lo Sri Lanka non deve sacrificare i suoi standard morali in cambio di aiuti allo sviluppo provenienti dall’estero: “Noi non vogliamo i matrimoni tra omosessuali né quartieri a luci rosse. Possiamo fare anche a meno dello sviluppo, soprattutto se per raggiungerlo dobbiamo compromettere i nostri equilibri ambientali”. Il pericolo maggiore – ritiene Ranjith – è quello di essere contagiati dal relativismo e dal sincretismo, dimenticando la bellezza di essere cristiani. Come scriveva il cardinale Rylko, “bisogna essere fieri di essere cristiani e non bisogna avere complessi di inferiorità verso nessuno”.

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    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.