Tra i due Conclavi, il più teocratico è quello per il Quirinale

Alessandro Giuli

C’è Conclave e Conclave. Quello messo su dal Vaticano per eleggere il successore di Joseph Ratzinger al soglio pontificio ha caratteristiche apparentemente immutate nei secoli e si è sedimentato intorno a una visione teocratica del papato. Un cerimoniale sofisticato, titoli e formalismi tardoantichi – in origine la parola “Papa” non è che l’abbreviazione acrostica di “Pater patratus”, supremo grado dell’iniziazione ai misteri di Mithra – insieme con vistosi apparati simbolici corredano l’adunata delle Congregazioni che si riuniscono a porte chiuse con precisa meticolosità.

    C’è Conclave e Conclave. Quello messo su dal Vaticano per eleggere il successore di Joseph Ratzinger al soglio pontificio ha caratteristiche apparentemente immutate nei secoli e si è sedimentato intorno a una visione teocratica del papato. Un cerimoniale sofisticato, titoli e formalismi tardoantichi – in origine la parola “Papa” non è che l’abbreviazione acrostica di “Pater patratus”, supremo grado dell’iniziazione ai misteri di Mithra – insieme con vistosi apparati simbolici corredano l’adunata delle Congregazioni che si riuniscono a porte chiuse con precisa meticolosità. Ma, a ben guardarla, la procedura teocratica risulta più mondana e democratizzata di quanto non appaia in superficie. La presenza costante dei mezzi d’informazione, combinata con i dispositivi tecnologici di cui gli stessi cardinali non sdegnano di servirsi, tende a disvelare ruoli e disegni altrimenti incogniti. Basti pensare alla funzione della sala stampa vaticana, impegnata quotidianamente nell’emissione di dispacci ufficiali; ovvero alle improvvisate conversazioni e propalazioni di questo o quell’esponente d’uno degli innumerevoli “blocchi cardinalizi” di cui si compone la geopolitica del Conclave. Realisticamente, si sta assistendo a una campagna elettorale sui generis, nella quale il segreto della Sistina è preceduto dalle infografiche con i numeri dei porporati e i presunti destinatari del loro voto o del loro veto, accompagnati da retroscena e strategie, piani di riforme (o controriforme) e tatticismi convenzionali. E’ come se la programmatica verticalità del Conclave si fosse deformata in un planisfero orizzontale, reticolare. Soltanto l’assenza di un dibattito all’americana fra candidati al soglio tiene ancora lontano l’effetto primarie (ma il concetto di rottamazione, quello è già largamente penetrato dal brumoso nord protestante). Drôle de chrétiens.

    C’è però un altro Conclave in arrivo, quello quirinalizio, la cui direzione è speculare e opposta rispetto a quello pontificio. L’elezione del presidente della Repubblica è una cerimonia parlamentare che i democratici tengono in alta considerazione. Ma con il tempo l’hanno museificata. Complice una Costituzione che ha la duttilità del minerale, la rosa dei presidenziabili viene maneggiata dalla classe politica come fosse un elenco di loggia, i nomi diventano quasi indicibili e infatti sono presentati come “la carta coperta” di un capopartito o la materia negoziale di uno schieramento. La riunione congiunta delle Camere, dalla quale infine spunterà il successore di Giorgio Napolitano, serba in sé il segreto di un’urna elettorale. Ma in quest’urna non piovono schede prestampate con sopra un simbolo o un cognome da sbarrare. Il tutto sembra mosso da una consuetudine impolverata ed è singolare che questo avvenga mentre da più parti si reclama una riforma dei poteri costituzionali (ne ha parlato ieri con destrezza Angelo Panebianco sul Corriere della Sera). Il settennato di Napolitano, con la sua improntitudine decisionista, dovrebbe aver irrobustito la richiesta di una competizione più aperta e nitida, nella quale la presidenza della Repubblica diventi contendibile sulla base di un programma da premiare. Se non già l’elezione popolare d’uno dei candidati al Quirinale, non più la nomina di un fossile politico fuoriuscito dal Conclave degli apparati: forse di questo avrebbero bisogno le istituzioni in cerca di rilegittimazione, di ricostituenti. Anche perché un fossile è il rivestimento pietrificato che serba in sé l’impronta di una vita ormai spenta, e il Quirinale tutto sembra fuorché spento. E’ comprensibile che la democrazia italiana tema il plebiscitarismo e si voglia rappresentativa (la volonté générale funziona a mala pena nei condominii) ma non è illogico desiderarne una manutenzione, diciamo così, un po’ meno teocratica.