Banche in subbuglio
I guai di Mediobanca tra crisi d'influenza e bisogno di liquidità
E’ da oltre dieci anni che la stampa internazionale descrive Mediobanca come un’istituzione in crisi di influenza. “La piccola banca d’investimento milanese è stata per anni il padre confessore del capitalismo italiano. Il suo ministero è al capolinea?”, si chiedevano nel 1997 gli analisti dell’Economist intelligence unit, branca del settimanale inglese. Più che una sentenza, quella dei britannici era una previsione: l’interrogativo è oggi diventato una realtà con cui il management di Mediobanca deve misurarsi nel mezzo della più grave tempesta finanziaria del secolo e dell’attuale crisi istituzionale italiana.
E’ da oltre dieci anni che la stampa internazionale descrive Mediobanca come un’istituzione in crisi di influenza. “La piccola banca d’investimento milanese è stata per anni il padre confessore del capitalismo italiano. Il suo ministero è al capolinea?”, si chiedevano nel 1997 gli analisti dell’Economist intelligence unit, branca del settimanale inglese. Più che una sentenza, quella dei britannici era una previsione: l’interrogativo è oggi diventato una realtà con cui il management di Mediobanca deve misurarsi nel mezzo della più grave tempesta finanziaria del secolo e dell’attuale crisi istituzionale italiana. Un indizio recente. La capacità di Mediobanca di influenzare le scelte strategiche delle società di cui è azionista è stata messa in discussione con l’operazione di acquisto di La7 da parte di Urbano Cairo. Telecom ha ceduto la rete televisiva alla Cairo Communication a un prezzo scontato. Un piano spinto dall’amministratore delegato di Telecom, Franco Bernabè, ma apertamente avversato da esponenti di Mediobanca, che di Telecom è azionista, in sede di cda perché, ad esempio, non riduce il debito di Telecom. La linea della banca era attendista, l’intenzione era di esaminare con più attenzione le altre offerte: del fondo Clessidra (di cui Mediobanca era advisor) o di Diego Della Valle, patron di Tod’s. Secondo diversi osservatori, all’indomani dell’operazione, è la linea Bernabè ad avere sconfitto sia Mediobanca sia Intesa Sanpaolo, altro azionista di Telecom. La strategia di Mediobanca ha avuto invece la meglio nel caso della cessione di Fonsai, holding assicurativa della famiglia Ligresti.
L’amministratore delegato, Alberto Nagel, in accordo con Unicredit, creditore di Ligresti, aveva ritenuto utile avviare la società verso la fusione con Unipol. Partita vinta ma dalla quale è scaturita un’indagine giudiziaria che riguarda Nagel per un presunto accordo informale con Salvatore Ligresti (storia arrivata sulle pagine del Wall Street Journal). Ciò accade in un contesto che vede il cosiddetto capitalismo di relazione, peculiarità italiana, avviarsi a un’irrilevanza. Pesa al riguardo la scomparsa di quei “poteri forti”, spesso indentificabili con le grandi famiglie industriali (un esempio su tutti gli Agnelli), che in passato fungevano da regia nelle strategie economiche nazionali. La scossa a questo modo di fare affari che aveva contribuito a tenere coeso il sistema capitalistico è arrivata dal cambio di prospettiva delle assicurazioni Generali. L’amministratore delegato, Mario Greco, ha deciso di avviare un graduale processo di dismissione delle partecipazioni “non core”, cioè non afferenti al business assicurativo, per concentrarsi solo su questo. La sua scelta è stata letta dagli osservatori come una “rivoluzione”, ma è piuttosto un altro indizio di come stia cambiando il bilanciamento dei poteri nella finanza italiana. Generali, infatti, non è solo la terza compagnia assicurativa d’Europa ma è stata un crocevia dei molteplici interessi dei suoi azionisti, in particolare durante la presidenza di Cesare Geronzi. Che un azionista importante per Mediobanca, com’è Generali, decida di uscire dai “salotti buoni” può anche essere una buona notizia a Piazzetta Cuccia. Con meno “interferenze” da parte dei soci, Mediobanca può ritornare a essere il fulcro del potere industriale italiano, come voleva il banchiere dominus Enrico Cuccia? Il problema, come notano fonti finanziarie milanesi, è che si tratta di un potere che si va riducendo di pari passo con la capacità economica italiana di cui Mediobanca è stata custode. In sostanza: meno soldi in circolazione, meno partite da gestire e dunque meno potere.
Per il piano industriale si aspetta settembre
Come banca d’investimento, Mediobanca dovrà affrontare diversi problemi nei prossimi mesi, riferiscono al Foglio persone a conoscenza dei dossier. A cominciare dai criteri più stringenti posti dai regolatori europei che chiedono agli istituti di avere una congrua riserva di liquidità (una quota di attivo facilmente smobilizzabile) per scongiurare fallimenti. Per Mediobanca, che raccoglie denaro sul mercato e non dai depositi, tenere fermo il capitale senza rimetterlo in circolo con prestiti a medio termine o partecipazioni significa sostenere meno iniziative industriali e, in prospettiva, guadagnare di meno. E’ probabile – questo filtra dall’istituto – che Mediobanca dovrà dismettere degli investimenti tradizionali per fare cassa, ma non realizzerà tantissimo, per cui i soci non avranno grandi soddisfazioni economiche. A Piazzetta Cuccia da un anno proseguono riunioni ad hoc, oltre a quelle di routine, per discutere il piano industriale che verrà esaminato a settembre.
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