Dogma o doxa?
Un mese fa, l’11 febbraio, Benedetto XVI rinunciava al pontificato. Un evento. Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo usato questa parola senza sembrare ridicoli? Sicuramente un altro giorno undici (ah, i numeri) di qualche anno fa, e poche altre. Un evento, finalmente, che inceppa la macchina sfornaeventi, che si impone perché spiazza e sorprende. Cominciamo ad accorgercene soltanto adesso, mentre tra gli attori sulla scena emergono tensioni e incomprensioni ma pure complicità e sintonie.
Un mese fa, l’11 febbraio, Benedetto XVI rinunciava al pontificato. Un evento. Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo usato questa parola senza sembrare ridicoli? Sicuramente un altro giorno undici (ah, i numeri) di qualche anno fa, e poche altre. Un evento, finalmente, che inceppa la macchina sfornaeventi, che si impone perché spiazza e sorprende. Cominciamo ad accorgercene soltanto adesso, mentre tra gli attori sulla scena emergono tensioni e incomprensioni ma pure complicità e sintonie. L’attesa del Conclave si è prolungata e ingarbugliata e appesantita. E’ stata una partita spettacolare, letteralmente. E manca ancora il clou.
Intanto, le cronache dei giorni scorsi ci hanno raccontato del “sacro bavaglio” che la curia capitanata dal cardinale Bertone ha imposto ai porporati americani i quali, appena sbarcati a Roma per il Conclave, avevano apparecchiato briefing quotidiani con la stampa, immediatamente dopo la conferenza stampa ufficiale del direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. Evidentemente non ritenevano sufficiente il pastone elargito dall’ottimo gesuita. Ma questo è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di movimenti delle gerarchie ecclesiali che rimbalzano sui media e tornano indietro, non senza conseguenze. Lo stesso Ratzinger, ben prima di fare il grande passo e anche subito dopo, nel suo discorso ai preti romani, ha chiamato in causa i mass media come terzo incomodo nel dialogo tra i pastori e il popolo di Dio. E poi ci ha pensato Bertone, il 23 febbraio scorso con una nota della segreteria di stato, a mettere in guardia da chi, per fare pressione sul collegio dei cardinali, non esita a “mettere in gioco il peso dell’opinione pubblica, spesso sulla base di valutazioni che non colgono l’aspetto tipicamente spirituale del momento che la chiesa sta vivendo”, e comunque grazie alla “diffusione di notizie spesso non verificate, o non verificabili, o addirittura false”. Quella con i mass media è una triangolazione inevitabile, quotidiana, ma di cui pochi, tra gli uomini di chiesa, possiedono le coordinate.
Certo i prelati americani sono più a loro agio, ci spiega il teologo Marcello Neri che conosce bene la realtà ecclesiale statunitense. “Non c’è stata nessuna improvvisazione nelle conferenze stampa al North American College, è una strategia studiata prima di venire in Italia, a livello diocesano hanno portato avanti tutto un lavoro su Twitter. D’altronde loro hanno una cultura della comunicazione pubblica naturale, ci sono nati. Conservatori o progressisti che siano, il rapporto che hanno con la stampa è diverso da quello dei nostri. Anche nel modo di celebrare: basta assistere alle funzioni di Dolan a New York, e non parliamo certo di un liberal. I cardinali americani sanno bene come funziona la macchina mediatica, per cui se fanno un briefing è per mettere un recinto attorno alle notizie. Sanno che non possono controllarle ma provano a indirizzarle, almeno in parte. Ma soprattutto sanno che i giornalisti vanno costantemente nutriti”. In effetti noi giornalisti siamo maiali perennemente affamati. “Se è il gruppo dei cardinali a dare le informazioni ai giornalisti si riduce la pressione sul singolo porporato, magari il più sprovveduto. Insomma, i giornalisti restano lì e non vanno altrove”. Magari a caccia di corvi che volteggiano a stormi, si dice, attorno ai Sacri Palazzi (nella Bibbia i corvi nutrivano il profeta, oggi danno da mangiare ai vaticanisti). In effetti il messaggio degli americani (non solo, vedi l’intervista programmatica del cardinale tedesco Kasper a Repubblica, mercoledì scorso) è chiaro: facciamo così per evitare un altro Vatileaks. La segreteria di stato però a un certo punto ha detto stop (anche se poi a uno come Dolan è bastata la messa di domenica nella parrocchia romana di cui è titolare per sfamare i media). “Ma in curia a Roma c’è una mente che le pensa, queste mosse, o davvero non capiscono? – si domanda Neri – Sono davvero convinti che il silenzio sia il modo migliore per poter controllare la comunicazione? Gli americani sono stufi di un certo modo di gestire le cose. Il discorso non riguarda solo il Conclave, è più ampio. E’ come se dicessero: sappiamo tutti di esser consegnati ai mass media, ma c’è modo e modo. Forse si può dare un po’ di sapore al brodo in cui siamo tutti immersi. E poi gli americani hanno voglia di trasparenza e di informazione. Certo, un po’ di arcano fa bene all’istituzione e alcune informazioni è giusto che restino riservate. Ma se tutto è riservato è come se fosse tutto trasparente. E poi la riservatezza si può modulare, così il messaggio diventa: su certe cose stiamo lavorando e a tempo debito vi diremo”. Per farlo bisogna saper gestire il mezzo. “Ma anche essere competenti in politica ecclesiale. Ormai siamo arrivati a una tale personalizzazione dei problemi di curia che qualsiasi cosa è delicata perché interessa qualcuno e non il bene complessivo della chiesa”.
Su questo punto è pienamente d’accordo Giuseppe Angelini, teologo di spicco della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. “La curia romana si è abbassata come profilo della competenza professionale. Ci sono troppi arrivisti, non c’è una selezione del personale e purtroppo questa inclinazione a privilegiare gli obbedienti o i chierichetti abbassa il livello degli organi centrali”. Il teologo milanese, invece, è più critico sul ruolo che i media stanno giocando a partire dalla rinuncia del Papa. “Mi danno fastidio certe dietrologie che leggo sui giornali. Non c’è bisogno di immaginare chissà cosa, quello che ha detto Benedetto XVI è chiaro: quando non si hanno più le risorse per esercitare il ministero è meglio rinunciare, soprattutto adesso che la vecchiaia si è dilatata. Ma anche attorno alla vicenda Ior è in atto una grossa mistificazione da parte dei media. In fondo sui presunti scandali dei cardinali non sappiamo niente e anche i giornalisti non sanno niente, sono solo speculazioni”. Angelini ha apprezzato il discorso di Ratzinger al clero romano, quello in cui ha parlato di un “concilio virtuale”, dei mass media, che si è imposto a scapito del “concilio reale”, della chiesa. “Certo Ratzinger ha vissuto con fervore e speranza il Vaticano II, di cui era perito, poi però non si è riconosciuto nell’immagine che si è andata costruendo negli anni successivi”. Qualche tempo fa Angelini ha scritto un articolo in cui sottolineava come il “regime della diretta” televisiva e radiofonica avesse condizionato l’assemblea conciliare ma il bello è venuto dopo quando, ci dice, “alcuni teologi protagonisti al concilio diedero una forte accelerazione e mostrarono particolare indulgenza verso i media. Alla fine hanno inventato un concilio che non c’è stato”. Hans Küng ne ha fatto un metodo e forse anche per questo è l’alter ego di Joseph Ratzinger che dei mezzi di comunicazione, invece, ha sempre diffidato (Twitter è un’umiliazione che potevano risparmiargli). Secondo Angelini, la critica di Ratzinger all’operazione mediatica sul concilio “è pertinente”, soprattutto in reazione alla tesi del “tradimento del Vaticano II” che “cominciò a circolare nel ventesimo anniversario della conclusione” e che si codificò poi nella “Storia del Concilio Vaticano II” di Giuseppe Alberigo”, “una storiografia tendenziosa che imputa alla stagione postconciliare una lentezza nella riforma della chiesa se non addirittura l’inizio della restaurazione, in nome di un concilio che invece sarebbe stato chiarissimo sulla direzione da prendere e che quindi era solo da mettere in pratica”. Secondo il teologo milanese, invece, il Vaticano II “è stato un evento provvidenziale e apprezzabilissimo ma ha disegnato direzioni di ricerca che avevano bisogno di un ulteriore approfondimento. Approfondimento che poi non c’è stato, anche perché il Sessantotto ha sancito la rottura tra papato e teologia, un conflitto che ha messo da parte i problemi concreti e ha polarizzato gli schieramenti: chi voleva la rottura e chi voleva tornare indietro”.
Sulla dialettica tra magistero e teologi, sempre in presenza del terzo incomodo, ha qualcosa da dire anche Neri. “E’ interessante notare la preoccupazione che attraversa l’ultimo documento della commissione Teologica internazionale (organismo di supporto della congregazione per la Dottrina della fede, ndr), ‘La Teologia oggi. Prospettive, principi e criteri’: la teologia ha un contenuto proprio che deve affermare di fronte alle altre scienze; nel testo c’è un continuo richiamo ai teologi perché siano coerenti con i principi e sorveglino l’uso di altri linguaggi. Il magistero, invece, è legittimato a intervenire in tempi e modi che non sono commisurati tanto sul contenuto dell’impresa teologica quanto sui suoi effetti mediatici”. In parole povere: la teologia deve restare pura, quasi fuori dal mondo, mentre il magistero può intervenire sulla teologia in base alla risonanza pubblica che questa ottiene e, dato che oggi le idee circolano in tempo reale, lo fa bruciando le tappe. “A questo punto – osserva Neri – i contenuti passano in secondo piano. A partire dagli anni Ottanta lo spauracchio del magistero è l’ampia diffusione di opinioni teologiche. Tra il testo e il fedele c’è una bolla mediatica che può far diventare pericolose per la fede cose che, chiuse dentro un volume, di per sé non sarebbero pericolose”. Il problema, insomma, è quando certo materiale finisce sui giornali. “Certo non è più come ai tempi di Küng o di Schillebeeckx, forse gli ultimi teologi a essere studiati nel merito della loro produzione”. Quello stesso Küng che, una volta privato della missio canonica, cioè l’autorizzazione all’insegnamento della teologia cattolica da parte di Roma, si è reinventato campione della teologia mediatica. Magistrale. “E’ vero – dice Neri – è stato il primo a intuire la forza dei media e a giocarla a suo favore, anche se con la comunicazione non giochi mai solo a tuo favore… Küng l’ha usata come grimaldello per forzare la mano, indirizzando il concilio verso un’univocità che in realtà non aveva”. Angelini, da parte sua, invita a non farsi suggestionare troppo. “Il rapporto chiesa-comunicazione pubblica è delicato ma non riguarda solo la chiesa e non solo l’Italia. L’immaginario della realtà rappresentato dai media è molto distante dalla realtà vera. I media devono sempre inventare il clamore. L’antidoto, lo diceva già Rahner negli anni Sessanta, è costituito da un’opinione ecclesiale libera che si esprime anche pubblicamente. Purché sia un’opinione forte, argomentata. Invece la comunicazione delle gerarchie ecclesiastiche e della stessa teologia è ancora scadente, e questo propizia le operazioni abusive dei media”.
Tra gli abusi spiccioli ma per questo ancor più emblematici c’è il servizio fotografico del rotocalco Chi su Benedetto XVI nei giardini della residenza pontificia di Castel Gandolfo. Neri ci trova “un misto di malizia e ingenuità che lascia disarmati”. Ma non è semplicemente un’intrusione? “Appunto per questo. Ratzinger doveva ritirarsi in un posto che non conoscesse nessuno, non dove sanno tutti. Almeno fino al Conclave. C’è una dose di ingenuità perché i cannoni dei teleobiettivi ti raggiungono ovunque, ma anche una dose di malizia perché il suo entourage certe cose le sa benissimo. Nella sua rinuncia al pontificato c’è un profilo alto che chiede un rigore alto, quasi più di quando faceva il Papa. Lui personalmente ne è capace, ma chi gli sta intorno a quanto pare no. Con quelle foto il rigore della rinuncia viene sminuito, è il nonno che passeggia ai giardinetti e sembra dire: adesso sono affari vostri. La perversità dei media è evidente, ma sul tratto perverso come chiesa dobbiamo dire: a costo della reclusione non cediamo, non diamo alimento in alcun modo”. Affamare o no la bestia, il dilemma è sempre quello.
Ma c’è anche chi è più ottimista su quello che sta capitando. Luca Collodi è il responsabile del canale italiano di Radio Vaticana, uomo di fiducia di padre Lombardi. “Questo è un momento molto bello per la chiesa, una possibilità di crescita e di discernimento. Quando la chiesa comunica verità arriva a destinazione e non ha rivali. Quando la comunicazione, anche quella ecclesiastica, si fabbrica il proprio oggetto, nascono le difficoltà. Perché la gente percepisce la finzione e gli interessi. Per questo comunicare la verità è vincente”. I giornalisti accreditati per il Conclave sono più di cinquemila da ogni parte del mondo: “A quanto pare il cristianesimo fa ancora notizia – osserva Collodi –, chiama le persone a riflettere, riscuote la curiosità se non la fede della gente. Questa grande attenzione dei media, a volte morbosa e un po’ caotica, certamente rivela la voglia di verità, di capire cos’è il destino dell’uomo, e su questo Benedetto XVI ha fatto un grande lavoro. Anche la sua rinuncia è un gesto che restituisce verità alla comunicazione: senza mediazioni, senza sovrastrutture. La macchina mediatica è stata messa all’angolo, è stata una mossa che ha superato la capacità interpretativa dei giornalisti. Ratzinger ha fatto sintesi tra cuore e ragione, che è poi la caratteristica del suo pontificato. Una sintesi che ha spiazzato molti abituati a parlare di chiesa secondo altre strategie”.
Nonostante la crescita esponenziale dei social media, nel discorso pubblico, almeno quello italiano, la televisione resta al centro e quindi anche il fatto religioso si misura soprattutto sul piccolo schermo. Le dirette televisive di questi ultimi giorni, dall’addio di Benedetto XVI in elicottero alle riunioni dei cardinali nei loro sgargianti abiti rosso porpora, sono affascinanti e si prestano alle ermeneutiche più creative. Ma sono le dinamiche che permeano i palinsesti quotidiani a essere rivelative. Paolo Taggi, teorico della televisione e autore di numerosi programmi, collabora da anni con Tv2000, il canale della Conferenza episcopale italiana. “I format hanno saccheggiato i riti religiosi, dalla veglia funebre di Guido Angeli per la scomparsa di Aiazzone, ottanta minuti davanti a una sedia vuota, nell’86, al confessionale del ‘Grande Fratello’ alle dichiarazioni d’amore di ‘Adesso sposami’. Sono liturgie, è evidente. D’altronde il mondo è popolato di confessioni e di racconti. E se i reality riflettono sulla vita, i format scatenano l’accadimento. Il format ha un ordine preciso: deve catturare, intrattenere, fidelizzare e infine soddisfare”. Il Conclave sembra un format perfetto. “Perché non ha una durata prestabilita – osserva Taggi – Si parva licet, è un po’ come ‘Unan1mous’, prodotto americano che da noi è andato in onda su Canale 5 condotto da Maria De Filippi per sole tre puntate, nel 2006: nove tizi vengono rinchiusi in un bunker e vi restano finché non hanno deciso all’unanimità a chi andrà il montepremi in palio. I concorrenti sono isolati dal mondo esterno e la durata è indefinita, può essere una sola puntata oppure quattro o cinque. Il gioco finisce quando i partecipanti hanno trovato l’accordo. Niente nomination né televoto: si vota ad oltranza, e tra una votazione e l’altra i concorrenti imparano a conoscersi affrontando dibattiti su tematiche politiche e sociali”. Taggi, esponente della storica scuola di comunicazioni dell’Università Cattolica di Milano, fa notare come il telespettatore di oggi sia un animale evoluto. “Da noi si parla di tramonto della tv, mentre lo stupore che avevamo negli occhi ai suoi esordi è rimasto in altre culture. Un discorso universale come quello cattolico deve tenere conto di questa varietà. Senza contare il dualismo tra cultura chiusa e cultura aperta. I valori sono questioni intime, soggettive, e in questo senso chiuse, mentre la tv è totalmente aperta, un colosseo, una bolla di sapone continuamente attraversata, un transito ininterrotto”. In ogni caso la tv, e i mass media in genere, sono congegni più complicati di quanto non sembri, richiedono ingegno e manutenzione.
A volte i cattolici, che sono stati tra i primi a credere nei mass media, dimenticano che la qualità fa la differenza e che da un bel pezzo siamo passati dal regime delle parole a quello delle immagini, con conseguenze enormi. Secondo il teologo Angelini, “se ci fosse una discussione schietta all’interno della chiesa sui temi concreti, sulla famiglia, gli affetti, la possibilità di inventare polemiche sarebbe minore. Siccome i nostri discorsi sono convenzionali e tautologici prevale la ricostruzione faziosa dall’esterno. Un film stupido come ‘Habemus Papam’ di Nanni Moretti è inevitabile che faccia opinione, se noi non sappiamo produrre qualcosa di professionalmente valido. Le fiction sui santi che circolano in tv sono risibili, gli autori chiedono consulenza a qualche prelato e tutto si ferma lì, mentre manca un lavoro serio da parte dei credenti. D’altronde la chiesa non apprezza davvero la cultura, le nostre celebrazioni e anche i nostri convegni sono ritualistici, non incidono sulla realtà, e questo facilita le mistificazioni degli altri”.
Mistificazioni che in questi giorni abbondano. Tutti che straparlano di cose che non conoscono, ovunque spuntano teologi da salotto e vaticanisti for dummies (ma ve lo immaginate qualcosa di simile per l’economia o la scienza? questo è il clero intoccabile, oggi). Schemini, caricature. C’è chi ha visto nella rinuncia di Benedetto XVI una minaccia al dogma dell’infallibilità e chi pretende di dettare l’agenda ai cardinali che stanno per entrare in conclave in base agli umori del pubblico, alla doxa decifrata all’occorrenza. Ma quanti sanno che il dogma, la verità di fede, è meno rigido di quanto si dica in giro e la doxa, l’opinione pubblica, ha un’inflessibilità neanche tanto nascosta? Certo, prima di aprire bocca bisognerebbe leggere almeno Newman e Blondel, sapere che c’è una lunga e complessa storia del dogma e che, come ci ricorda Neri che insegna proprio Teologia fondamentale (e cioè la disciplina che nel postconcilio ha sostituito l’apologetica senza perdere di autorevolezza come lamentano certi sprovveduti, anzi misurandosi alla pari con il pensiero contemporaneo), “l’infallibilità del Papa è un caso eccezionale e non il governo ordinario della chiesa, tant’è che la prima e unica volta che è stato usato in centocinquant’anni (dalla sua fissazione nella costituzione dogmatica ‘Pastor Aeternus’ del Concilio Vaticano I, ndr) è stata per l’Assunzione di Maria, Pio XII nel 1950. E anche in quel caso, per come è avvenuto, è stato un atto collegiale di tutti i vescovi del mondo”. E poi, fa notare Neri, “il dogma è stretto sull’aspetto formale ma su quello reale lascia ampissime possibilità di scelta”. Tante quante sono i credenti, verrebbe da dire.
Per quanto riguarda invece la rigidità della doxa, beh, basta un nome: Grillo.
Mettere in crisi gli stereotipi incrociati dogma/doxa non toglie serietà alla questione, tutt’altro. Parafrasando Tony Pagoda, sono una montagna le cose della chiesa che non sopporta più sia chi ci è dentro fino al collo sia chi ha un piede dentro e un piede fuori, quorum ego, sia chi è fuori e guarda con curiosità (gli altri è meglio lasciarli stare). Sono davvero tante, le cose insopportabili, un elenco lunghissimo. Solo una cosa è sopportabile: la sfumatura. Senza la sfumatura, dogma/doxa è solo un duello buono per un titolo di giornale.
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