Il ritorno del Duca Bianco Bowie non è solo un disco, è un'invasione

Stefano Pistolini

Perdonateci, ma noi crediamo nell’orchestrazione mediatica. Arricchita da additivi spontanei, ma pur sempre un’accurata strategia d’attacco marketing a un mercato rantolante. Così nasce l’affaire Bowie. Perché non si può vivere nutrendosi di sedie a rotelle d’oro di Lady Gaga (aveva già fatto di meglio Lennon nel ’66, con la sua Rolls Royce superaccessoriata). Ci vuole il pensiero forte del divismo, quello con trascorsi inattaccabili e profumi divini. Il ritorno del circo-Bowie, con la sua snobberia e frigidità, è la migliore declinazione dello star system originale, resuscitato per ridare una parvenza di charme a una terra desolata.

    Perdonateci, ma noi crediamo nell’orchestrazione mediatica. Arricchita da additivi spontanei, ma pur sempre un’accurata strategia d’attacco marketing a un mercato rantolante. Così nasce l’affaire Bowie. Perché non si può vivere nutrendosi di sedie a rotelle d’oro di Lady Gaga (aveva già fatto di meglio Lennon nel ’66, con la sua Rolls Royce superaccessoriata). Ci vuole il pensiero forte del divismo, quello con trascorsi inattaccabili e profumi divini. Il ritorno del circo-Bowie, con la sua snobberia e frigidità, è la migliore declinazione dello star system originale, resuscitato per ridare una parvenza di charme a una terra desolata. E dai primi risultati, prodigiosamente, funziona: la storia del ritorno di Bowie del 2013, a 66 anni suonati, è uno sconcertante case history del commercio della celebrità, sostenuto da una personalità monumentale e da un talento stellare. Solo pochi mesi fa si parlava di Bowie come dell’emerito scomparso rock di fine secolo, del Dorian Gray discioltosi in Ziggy Stardust, dell’infarto che aveva steso la star dissoluta e l’aveva ridotta a ricca larva newyorchese. Poi qualche segnale: un paio di sortite occasionali, con i suoi amati Arcade Fire o alla proiezione del dimenticabile film del figlio. Quindi l’inaugurazione del vero piano d’invasione: prima il video firmatissimo, povero e antitecnologico di Tony Oursler per “Where are we Now”, il giorno del suo compleanno, con l’annuncio folgorante dell’album per marzo. La macchina si muoveva: niente foto, niente interviste, Tony Visconti, storico produttore e compagno di bagordi, che rilasciava appetitose anteprime – sì ci sta lavorando da due anni, in uno studiolo del Lower East Side, coi soliti musicisti, niente ospiti, tutto concentrato sul suono e sulle cose da cantare. A Londra, in parallelo, cresceva l’eccitazione per l’evento artistico della stagione, almeno dal punto di vista del botteghino: per sei mesi, a partire dal 23 marzo, le sale del Victoria & Albert Museum, culla della pop culture, invase da “David Bowie Is”, la mostra del mondo-Bowie: quadri, costumi dei ragni di Marte e del Sottile Duca Bianco, memorabilia, film, video, ogni cosa nutra la fame turistica – e vedrete le file per questo affare miliardario che ridicolizzerà gli incassi discografici!

    Mentre la marea della curiosità montava, è arrivato il secondo video, questa volta un sontuoso lavoro coreografato da Floria Sigismondi, altra firma iper chic, con Tilda Swinton a giocare alla consorte dell’inquieto Bowie pensionato. Infine – mentre si rincorrono gli scoop, emergono piccanterie d’una sua vetusta love story con Mick Jagger e da YouTube riaffiorano 6 smaglianti videoclip scomparsi, in un florilegio di copertine, hurrà e alleluja, discende “The Next Day”, l’album, e il bello è che si rivela disco d’altri tempi, per complessità, potenza compositiva, varietà e stellare qualità esecutiva. E’ il colpo da ko: Bowie è bravo esattamente quanto prima, con un suono tra “Hunky Dory” e “Lodger” (liriche cupe, riflessioni oniriche su fama e morte, una vocalità intatta che evoca tramontate aristocrazie). Sono bastati due mesi e lui è di nuovo – in un elettrizzante presente futuribile – la rockstar più venerata del pianeta, as usual perfettamente irraggiungibile. Un capolavoro. Immaginiamolo traguardare questa deflagrazione di sudditanza e fascinazione. Maestro come Kubrick e Fellini, in una solitudine rarefatta, mentre assapora il gusto della memorabile dimostrazione di potere. Che contiene quell’ambiguo dato di assoluto che da sempre lo muove, lo strega e lo perseguita.