Apocalypse Bloy
Era un tranquillo pomeriggio di fine estate, un sabato, il 19 settembre 1846, e aveva appena finito di piovere quando due pastorelli dell’Isère che badavano alle mucche sul Planeau, una montagna delle Alpi a 1.800 metri a metà strada tra Grenoble e Gap, videro d’improvviso una palla di luce posarsi sul fondo di una vallata. Sembrava un sole caduto a mezza costa. S’avvicinarono e scorsero una donna seduta, il viso nascosto tra le mani, i gomiti sulle ginocchia. La Signora piangeva. Li guarda, si alza in piedi e continuando a piangere si rivolge loro: “Avvicinatevi figli miei. Non abbiate paura: sono qui per annunciarvi una grande notizia”.
Era un tranquillo pomeriggio di fine estate, un sabato, il 19 settembre 1846, e aveva appena finito di piovere quando due pastorelli dell’Isère che badavano alle mucche sul Planeau, una montagna delle Alpi a 1.800 metri a metà strada tra Grenoble e Gap, videro d’improvviso una palla di luce posarsi sul fondo di una vallata. Sembrava un sole caduto a mezza costa. S’avvicinarono e scorsero una donna seduta, il viso nascosto tra le mani, i gomiti sulle ginocchia. La Signora piangeva. Li guarda, si alza in piedi e continuando a piangere si rivolge loro: “Avvicinatevi figli miei. Non abbiate paura: sono qui per annunciarvi una grande notizia”. E’ alta, bella, luminosa. Porta una tunica lunga fino ai piedi e un grembiule da contadina stretto in vita, ha uno scialle incrociato sul petto e i capelli raccolti in una cuffia. Lo scialle, come pure la testa e i piedi sono orlati di rose e sul capo risplende la luce abbagliante di una sorta di diadema. Le spalle invece sono avvolte in una lunga catena a maglie larghe, mentre dal collo le pende una catenina con appeso un crocefisso, che finisce sui lati del braccio più corto in un martello e in una tenaglia.
I due pastorelli restano senza parole. Maximin Giraud, 11 anni, tipo sveglio, birbantello, orfano di madre e inviso alla matrigna, osserva la visione senza credere ai suoi occhi. Per prendere confidenza, si mette a far girare il cappello sulla punta del bastone e inizia a lanciare dei sassolini sotto i piedi della Signora, che levita sull’erba verde del prato. La sua compagna di pascolo è un po’ più grande di lui, ha quattordici anni, si chiama Mélanie Calvat, è la quarta figlia dei dieci avuti da un boscaiolo che vive di espedienti, vicino di casa del pastore che ha assoldato Maximin. Lei però diversamente da lui è una tipa schiva, taciturna, timida, al punto che la madre, che è proprio amorevolissima, l’aveva soprannominata “la muta, la lupa, la selvaggia”. Anche lei perfettamente analfabeta, mai andata a scuola, parla solo dialetto, e vive in mezzo ai prati all’aria aperta, badando alle mucche e alle pecore, soffrendo il freddo e la fame, mangiando pane e formaggio. Sono questi due bambini poverissimi, innocenti, incolti, sguarniti di tutto, di affetto, di ricchezza, di cultura, “le cere vergini” scelte da Maria Vergine per trasmettere loro il suo messaggio a La Salette. Per annunciare l’ira di suo figlio Gesù Cristo nei confronti di un popolo di miscredenti, che da cent’anni ha abbandonato la preghiera girando le spalle alla chiesa, e perciò adesso deve aspettarsi solo fame e malattie, stenti, guai e carestie, a meno che non ritorni alla fede. “Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio figlio. Esso è così forte che non posso più sostenerlo”, dice infatti la Madonna ai pastorelli del Delfinato. Maria Vergine soffre per loro e per tutta l’umanità. E li invita a pregare continuamente suo figlio, perché non li abbandoni alla loro sorte di miscredenti. Nel suo messaggio ai due pastorelli analfabeti, la Madonna spiega pure cos’è che appesantisce tanto il braccio di suo figlio: è l’attivismo sfrenato, l’operosità senza fede, la rinuncia a Dio, causa prima delle sue lacrime e del suo pianto. “Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservata il settimo, e voi non me lo volete concedere… anche i carrettieri non sanno fare altro che bestemmiare il nome di mio figlio”, dice la Madonna in lacrime, prima di lanciare la sua profezia apocalittica annunciando il castigo dei colpevoli. “Se il raccolto si guasta la colpa è vostra, le patate continueranno a marcire, il grano seminato sarà mangiato dagli insetti, e quello che maturerà cadrà in polvere al momento della battitura”. Carestia e morte, e una nuova strage degli innocenti fra le braccia dei loro genitori sono i segni della punizione divina che solo la conversione e il ritorno alla fede potranno evitare. La Madonna di La Salette è la Vergine riconciliatrice dei peccatori, scriverà alla fine del secolo J. K. Huysman, scrittore convertito e grande esploratore della mistica cristiana, nel suo romanzo autobiografico sulla cattedrale di Chartres. E’ la Vergine venuta per le anime che amano il dolore e riveriscono la sofferenza di Cristo, nella loro devozione al sacrificio del Dio fatto uomo morto in croce.
L’apparizione della Vergine a La Salette è la seconda di una serie che per tutto l’Ottocento costella di miracolli la France profonde, scossa dai postumi della rivoluzione. Segue di sedici anni le cinque apparizioni dell’Immacolata a Parigi, davanti agli occhi di Catherine Labouré, una novizia del convento delle Figlie della Carità, nella rue du Bac, poi beatificata, e dalle quali scaturì la Medaglia Miracolosa, pegno di protezione e sorgente di grazia. E precede di dodici anni l’apparizione in una grotta di Lourdes di fronte a Bernadette Soubiros, un’altra povera pastorella dei Pirenei. Nel 1871 la Madonna comparve di nuovo in Francia davanti a quattro bambini di Pontmain nella Loira, durante l’avanzata delle truppe prussiane; e cinque anni dopo, nel 1876, ricomparve a Pellevoisin, nei pressi di Châteauroux di fronte alla contadina Estelle Faguette. Ma il miracolo di La Salette, col suo messaggio profetico, col suo monito apocalittico alla Francia postgiacobina e decristianizzata, con la sua messa in guardia contro i mali del positivismo, dell’abbandono della chiesa, del tradimento del Vangelo, e col suo invito estremo a convertirsi per evitare il castigo divino, darà adito a una lunga controversia che segnerà per sempre la vita dei pastorelli di Corps, e non solo la loro.
Intanto passeranno sei anni prima che la chiesa prenda posizione. Il primo maggio 1852 il vescovo di Grenoble, considerata veritiera la testimonianza dei pastorelli, ordinerà la costruzione di un santuario a La Salette, ancora oggi meta di un impervio pellegrinaggio religioso. I due bambini però andranno incontro a un’esistenza difficile. Maximin, abbandonato a se stesso, cadrà nelle grinfie dei fanatici legittimisti, sostenitori di un sedicente figlio di Luigi XVI. Accusato di frode, peregrinerà da un seminario all’altro, finché non finirà per arruolarsi in Vaticano come guardia pontificia, prima di convertirsi, in modo però fallimentare, al commercio di liquori e fare quindi ritorno al suo paesello alpestre dopo la Guerra franco-prussiana. Lì, nel 1875, di fronte a una folla di devoti mariani, ripeterà per l’ultima volta il suo racconto dell’apparizione di vent’anni prima, morendo in grazia di Dio a soli quarant’anni. Mélanie Calvat, invece, pagò ancora di più le confidenze della Madonna. Novizia nel convento delle suore della Provvidenza, vedrà negarsi i voti dal nuovo vescovo di Grenoble per la troppa vanità o troppa superbia connessa all’essere diventata un’attrazione pubblica, e finirà segnata dal misticismo profetico degli integralisti cattolici che la trasformeranno in un oggetto di culto. “La missione dei pastorelli è conclusa, inizia quella della chiesa” proclama nel 1855 monsignor Ginoulhiac cercando di imporre una sterzata, ma nel frattempo la corrente mélanista è nata, fondata sulle parole di Mélanie e orchestrata in primo luogo dal profetismo apocalittico di Léon Bloy.
Perché oltre a cambiare la vita dei due pastorelli di Corps l’apparizione della Madonna a La Salette doveva cambiare anche quella di Léon Bloy, il più radicale degli scrittori cattolici francesi, l’integralista spregiatore dell’ateismo illuministico, il grande solitario nelle lettere di fine Ottocento, il cristiano anticlericale, apocalittico denunciatore di un mondo senza Dio, in marcia verso l’autodissoluzione, che dunque urge allertare, redimere, correggere o quantomeno, ma attivamente, fustigare. Nasce infatti col miracolo di La Salette la crociata cristiana di Léon Bloy e la sua battaglia teologica condotta sul filo di un’esegesi appassionata dove l’interpretazione dell’Antico Testamento nutre la comprensione del Nuovo, e dove i segni della profezia biblica si inverano nel messaggio cristiano. E’ una battaglia che molto deve all’incontro col predicatore Tardif de Moidrey, maestro nell’interpretazione figurale dell’Antico Testamento, e che segue passo passo le profezie di Mélanie Calvat. Léon Bloy interpreta e rielabora tutti i messaggi diffusi nel corso della sua vita dalla pastorella aspirante suora e novizia errante, così semplice di spirito da ignorare persino la differenza tra i sessi, da quando entra giovanissima al Carmelo di Darlington, in Inghilterra, dove resta dal 1856 al 1860, a quando approda a Cefalonia, fra le suore della Compassione di Marsiglia, sino al soggiorno italiano, a Castellammare di Stabia, dove resterà per 17 anni, scrivendo i suoi “segreti” e cercando di fondare la regola di un nuovo ordine religioso, che però sarà sempre osteggiato dal Vaticano, anche se questo era quanto le aveva detto la Madonna: “E’ giunto il tempo dei tempi, la fine delle fini”, tradurrà Léon Bloy. “E’ tempo che vengano a illuminare la terra… gli apostoli degli ultimi tempi, i fedeli discepoli di Gesù Cristo che hanno vissuto nel disprezzo del mondo e di se stessi, nella povertà e nell’umiltà, nel silenzio, nell’orazione e nella mortificazione, nella castità e nell’unione con Dio, nella sofferenza e ignoti al mondo”. Dopo un soggiorno a Cannes, Mélanie approda a Chalons sur Saône, e lì in rotta di collisione con le autorità ecclesiastiche finirà in tribunale contro il vescovo di Autun, finché nel 1892 non torna in Italia, nelle Puglie, dopo varie peregrinazioni a Messina, accolta dal canonico Annibale di Francia, e ancora a Diou, nell’Allier, dove inizia a scrivere lo straordinario romanzo della sua vita, per finire i suoi giorni nel 1940 in Altamura, dove oggi è sepolta ai piedi di un bassorilievo della Madonna che l’accoglie in cielo.
Sarà Léon Bloy il mélanista più accanito di Francia. Per tutta la vita cercherà di interpretare le parole e le visioni della povera pastorella scelta dalla Madonna per affidarle il suo segreto e annunciare un cristianesimo assoluto. Cercherà di dimostrare come lungi dall’essere una rozza selvaggia Mélanie fosse in realtà “un prodigio di santità sotto le sembianze del nulla, ignorante per quanto si può su tutto ciò che gli uomini insegnano ma terribilmente sapiente di ciò che solo Dio può insegnare”. Nel 1879 Léon Bloy ha trentatré anni quando sale per la prima volta in pellegrinaggio a La Salette e trova la sua strada mistico-teologica in cui incanalare la sua ansia di assoluto. Per rendersene conto, bisogna leggere “Il miracolo di La Salette” (Edizioni Medusa, 328 pagine, 25 euro), un libro appena uscito, a cura di Mario Porro, con prefazione di Alessandro Zaccuri, che raccoglie la prima traduzione dei tre scritti incompiuti sull’apparizione della Madonna (“Il Simbolismo dell’apparizione”, “Colei che piange”, e “Introduzione alla vita di Mélanie”), offrendo una testimonianza preziosa del lavorìo teologico che ispira uno dei grandi accusatori dei tempi moderni, fustigatore di quelle “cloache di impurità” che sono diventati i sacerdoti moderni, e della miseria contemporanea in cui annaspa l’umanità bestiale, ridotta ormai in balìa di una cieca brama di ricchezze e indifferente al Vangelo e al sacrificio di Cristo.
Ma chi era Léon Bloy? E cosa lo spinse a farsi interprete dei sogni, della visione, della “sapienza assoluta” di Mélanie, l’ancella del Sacro Cuore di Gesù, che non ha bisogno di comprendere, perché “sa per scienza infusa, primordiale, come Adamo ed Eva prima del peccato”, e soffre enormemente conoscendo “la miseria spirituale e l’insufficienza del Clero”? Era il figlio di un ingegnere ateo e anticlericale di Périgueux e di un’ardente cattolica di origine spagnola e soprattutto un cabalista nato, uno che credeva nei numeri, nel significato esoterico del grande firmamento divino che presiede la creazione, e dunque la nascita dell’uomo e la sua missione in terra. Era nato nel 1846 lo stesso anno in cui la Madonna è apparsa ai pastorelli di Corps. E questo per lui è già un prodigio in sé. E vivrà fino al 1917. Dopo essere “montato” a Parigi dalla natia Dordogna, come un qualsiasi Rastignac in cerca di fortuna, era cresciuto nella bohème letteraria del Quartiere latino, bazzicando la rivolta antiborghese nei circoli socialisti ispirati da Blanqui, e maturando come “un comunardo prima della Comune”. Nel 1867, l’incontro con Barbey d’Aurevilly segna per lui una svolta. Del romantico narratore legittimista sensibile al soprannaturale e molto in voga fra i decadenti, Baudelaire suo contemporaneo scriverà: “Vero cattolico, evocava la passione per sconfiggerla, cantando, piangendo, e gridando in mezzo alla tempesta, piantato come Ajace su uno scoglio di desolazione, aveva sempre l’aria di dire al suo rivale – uomo, fulmine, dio o materia – ‘Portami via, o io porto via te’, non poteva nemmeno più mordere su una specie assopita i cui occhi restano chiusi di fronte ai miracoli dell’eccezione”. Eppure su quel giovane provinciale in cerca di fortuna Barbey d’Aurevilly ebbe un’influenza determinante. Farà di Bloy il suo segretario, ricompensandolo con una formazione di prim’ordine, che presto sfocerà nella conversione, anzi nel ritorno alla fede perduta “a quindici anni, età in cui vediamo aggirarsi quel gran leone con la testa di porco della Pubertà”.
Forte del suo appoggio, Bloy si mette a scrivere per riviste militanti, dando sfogo al suo sdegno esorbitante, a una vena di inquisitore intransigente, pronto a dare battaglia alle chimere dell’illuminismo, all’egalitarismo, al progresso, e a confutare come una perniciosa illusione il dogma dell’autodeterminazione e della libertà di coscienza di origine protestante, nel tentativo strenuo di scongiurare il naufragio dell’umanità in balia della decristianizzazione e afflitta dalla rincorsa al profitto come fine ultimo dell’esistenza e scopo in sé. Sentite per esempio come sviluppa la parafrasi del messaggio della Madonna sessant’anni dopo il miracolo di La Salette: “La domenica si lavorò sempre di più e, soprattutto, si fecero lavorare i poveri. La Bestemmia divenne una toga virile, anche per le donne, un segno di forza e di indipendenza, come il tabacco o l’alcol. Si ambì a essere cani, figli di cane e persino nipoti di maiale, in tutte le epoche dell’anno indistintamente, e tale ambizione fu soddisfatta”. Sono parole scritte cent’anni fa, che però sembrano fotografare il nostro oggi. Bloy insomma è un grande reazionario apparentemente fuori tempo massimo, che continua a fare sentire la sua voce a dispetto del tempo. E’ l’ultimo profeta disarmato dell’epoca moderna, un dolorista nato, alfiere della sofferenza necessaria, “uomo di guerra”, come amava dire di sé, che rivolge il suo furore contro i potenti, gli ipocriti, i seduttori di anime, straziato com’è dalla pietà per gli umili, gli oppressi, i sofferenti. E’ un vinto della storia, perfetta incarnazione della rabbia disperata di un sopravvissuto in lotta contro il mondo pur sapendo che la sua è una battaglia perduta, anzi impossibile. “Un mostro così forte ha bisogno di settant’anni per finire di fermentare”, dirà di lui nel 1942 Ernst Jünger. Non si sbagliò per niente, e infatti ora ci siamo. L’ufficiale della Wehrmacht in servizio a Parigi durante l’occupazione nazista, scrittore in proprio e collezionista di insetti, berrà di quel francese purosangue tutto l’antisemitismo sulfureo, leggendone le profezie apocalittiche all’insegna della rivoluzione bolscevica, e trovando nei suoi scritti e nella perfezione del suo stile l’affinità profonda di un conservatore spietato, “malgrado i suoi scatti maniaci e ciechi contro tutto ciò che è germanico”. Jünger sarà un lettore esaltato di Léon Bloy, sino a diventarne il mallevadore infernale: “Non è ancora un classico, ma un giorno lo diventerà” annuncia nel “Diario parigino”, a settant’anni dalla sua morte. “Ci vorrà ancora del tempo perché decada tutto ciò che all’inizio vi era di transitorio”, assicura l’ufficiale tedesco, trovando in quel francese austero, solitario e sordo al progresso “un eremita antimoderno” al quale votare un culto devoto per “l’intangibilità dell’autore rispetto al domino della tecnica”.
Per quanto postumo, non poteva riscuotere elogio migliore Léon Bloy, anche a costo di finire nel comparto dei reietti, degli scrittori violenti, scandalosi, non commestibili, da maneggiare con cura, o non toccare affatto. Quando Roberto Calasso vent’anni fa pubblicò “Dagli Ebrei la salvezza”, pamphlet antisemita fra i più esplosivi dell’Ottocento (tesi: avendo gli Ebrei rifiutato il Messia, non resta loro che il suo esatto contrario, il danaro, l’altra faccia della divinità, e la sua croce), la grande germanista Renata Colorni per protesta si licenziò dall’Adelphi, e il grandissimo Sergio Quinzio contestò sul Corriere della Sera il giudizio sommario fornito da Guido Ceronetti e da Mario Andrea Rigoni (“Non lo si può ridurre a ‘delirio selvaggio’ (…) senza un minimo di partecipazione alle tragiche domande che Bloy affrontò nelle sue pagine e nella sua vita”). Eppure, il primo a pagare tanto scandalo e tanta originalità di pensiero fu lo stesso Bloy che visse una vita grama, mendica, solitaria, afflitto da lutti, vedovanze, figli in fasce morti di fame, pur di servire la sua natura ostica e coltivare la sua fama di uomo insopportabile. Appena gli presentavano qualcuno, lo salutava subito dandogli dell’imbecille. Era il suo modo di testare gli sconosciuti. Nato povero, vissuto di stenti, tormentato dalla penuria, s’era dato come pseudonimo Caïn Marchenoir, sintesi biblica del male e del negativo. Era un tipo violento, scontroso, odiatore del buon senso e del luogo comune. Quando venne arruolato da Barbey d’Aurevilly, si mise a scrivere un inno alla controrivoluzione, scegliendo Maria Antonietta come punto di fuga per la sua rilettura visionaria della storia, che molto deve al mito degli eroi di Carlyle. Quel pamphlet tradotto sempre da Adelphi, si legge ancora oggi come l’estrema apologia dell’ultima regina di diritto divino ghigliottinata dalla “canaglia”, implacabile atto d’accusa contro il principio della sovranità popolare e il tribunale rivoluzionario che ne consegue. A nulla valse tanto ardore. I legittimisti rimasero inorriditi dalla violenza dello stile, dalla passione degli argomenti. Reietto ed emarginato, Léon Bloy continuò la sua battaglia contro il mondo moderno, nutrendola di profetismo, dell’esegesi biblica in chiave simbolica e figurata, e canalizzando la sua foga antimoderna nel provvidenzialismo religioso, in cui ritrovare la predicazione di Bossuet, l’irrazionalismo teocratico di Joseph de Maistre, avvolgendo il suo furore nella spessa coltre di luci e tenebre della grande tradizione cristiana che fa dell’espiazione la via maestra per entrare nella città celeste. E’ questo a fare di Bloy un immenso inattuale, è questo il paradosso grazie al quale, più di chiunque altro, riesce a cogliere l’angustia del mondo in cui viviamo.
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