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Foto Ansa
La missione è partita
Le ambizioni della misericordia di Papa Francesco
L’invito alla misericordia rivolto ai confessori della Basilica di Santa Maria Maggiore (ai gesuiti sono sempre piaciute le messe frequenti e le frequenti confessioni, perché la direzione delle coscienze richiede buona pratica d’assoluzione)
La missione è partita. E’ la missione di un extra europeo, d’accordo. Le sette, l’Europa malandata eccetera. Di un uomo chiamato Francesco, senz’altro. Il saio, la letizia eccetera. Ma è sopra tutto la missione di un gesuita. Un figlio spirituale del ’500, dell’intrecciarsi di Riforma e di Controriforma in una stagione in cui sant’Ignazio di Loyola formò il fatale esercito del Papa. Lo si è capito con l’invito alla misericordia rivolto ieri mattina presto ai confessori della Basilica di Santa Maria Maggiore (ai gesuiti sono sempre piaciute le messe frequenti e le frequenti confessioni, perché la direzione delle coscienze richiede buona pratica d’assoluzione). Avrebbe tragicamente fatto notizia se avesse detto loro: mi raccomando, un po’ di severità con l’umanità contemporanea, che si fa parecchio i fatti suoi. Non è successo.
“Di che ha parlato il pastore?”, domandò al gran laconico presidente Calvin Coolidge sua moglie. “Del peccato”, fu la risposta. “E che ha detto?”, insisté. “Era contro”. Ecco, i gesuiti sono il contrario di questa semplicità legalistica. Nel bene e nel male. Il peccato, salvo quello originale (sebbene quest’ultimo sia specialità di sant’Agostino, non proprio la loro tazza di tè), va relativizzato. Se c’è una teologia morale, anzi una morale senza aggettivi, la scuola gesuita insegna che ogni peccato fa storia a sé. Il che è consolante, ammettiamolo, e ci predispone alla sintassi di Papa Francesco con meno ansia e una partecipazione emotiva più affratellante rispetto ai tuoni di Giovanni Paolo II e al rasoio razionale di Benedetto XVI. E questo non vuol dire che non sia custode della dottrina della fede, tutt’altro. Ma a modo suo, s’intende.
L’omelia di ieri nella Cappella Sistina fu speciale. Ha parlato dall’ambone, e questo rifiuto del trono ogniqualvolta si possa gli viene spontaneo, non si legge affettazione. Ha parlato a braccio, e cazzo se gli viene bene. Sintesi, pause, concisione, forma sonata con tema, sviluppo, riesposizione del tema, e poi anche il gran finale. Camminare nella luce di Dio. Giusto. Edificare sulla dura pietra. Giusto. Confessare Cristo. Giusto. Con un codicillo, questo ad alta voce e con timbro determinatissimo, contro il re di questo mondo: chi non confessa Cristo come figlio del Dio vivo confessa il diavolo. Cazzo. Sto col diavolo, ho pensato. Ma no, era solo un solenne grido integrista, in fondo me lo auguravo. Amo la differenza, dunque sono un identitario: la chiesa di Cristo è la chiesa di Cristo. Comunque, il Salvatore è il crocifisso, non è la sua regalità o la sua gloria che interessa, il Redentore è la sua croce. Senza la croce la chiesa è una banale ong, al massimo pietosa. Di qui, da questa cristologia della croce, la scelta preferenziale per i poveri, e quello spirito di conquista e di “umanesimo planetario” (formula di Jean Lacouture in un bel libro di storie gesuitiche) che illustrerà di sé un papato che si annuncia rischioso, come dimostra un vecchio ritratto del Papa nero Pedro Arrupe scritto da Maurizio Crippa cinque anni e mezzo fa, ma perfetto per essere letto oggi. Rischioso, ma anche ambizioso e a suo modo veramente grande.
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