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Guardare per credere

Matteo Matzuzzi

Quando però Francesco è apparso ai fedeli, i più attenti hanno capito che qualcosa, nella Stanza delle lacrime, era successo. Lo rivelava lo sguardo cupo di monsignor Marini, fermo un passo dietro il Papa con la stola in mano

Tutto, fino alla prima apparizione di Papa Francesco dalla Loggia delle Benedizioni mercoledì sera, aveva seguito fedelmente il copione meticolosamente preparato dal maestro delle Cerimonie liturgiche, Guido Marini. I drappi rossi che rivestivano le colonne ai lati della grande vetrata, le tende tirate, le luci accese sulla piazza gremita. Le campane che, a differenza dell’ultimo Conclave, non si erano fatte attendere e avevano immediatamente confermato che la fumata era bianca. Anche le modalità dell’annuncio atteso, l’Habemus Papam, erano state riviste. Cancellata l’introduzione poliglotta che si era sentita nel 2005, ritorno al tradizionale accusativo latino per svelare il nome pontificale scelto dall’eletto. E così il protodiacono Jean-Louis Tauran, in abito corale scortato da due cerimonieri, declamava “Franciscum”. Otto anni fa, al suo posto, il cardinale Medina Estevez disse “Benedicti” e prima ancora, nel 1978, Pericle Felici stupì i puristi della lingua con quel doppio “Ioannis Pauli” pronunciato due volte tra l’agosto e l’ottobre di quell’anno. Nessun errore, si giustificò più tardi il cardinale: era genitivo epesegetico, tutto perfettamente in regola. Un’innovazione che, più di trent’anni dopo, sarebbe stata cancellata. Un ritorno, l’ennesimo, alla tradizione.

Quando però Francesco è apparso ai fedeli, i più attenti hanno capito che qualcosa, nella Stanza delle lacrime, era successo. Lo rivelava lo sguardo cupo di monsignor Marini, fermo un passo dietro il Papa con la stola in mano. Davanti a lui, il vescovo di Roma vestito con la sola talare bianca. Senza mozzetta di velluto rosso bordata d’ermellino. Senza croce d’oro, che il Papa per tradizione porta al petto. Niente scarpe rosse, benché fossero già pronte a corredo del vestiario papale, niente gioielli e orpelli. D’altronde, il nome scelto dall’eletto già indicava un programma preciso: la volontà di purificare la chiesa e di reggerla mentre è prossima al crollo, affinché non cada. Come nel Sogno di Innocenzo III affrescato da Giotto nella Basilica superiore di Assisi.

Il giorno dopo l’elezione, in Cappella Sistina, altri segni confermavano che l’apparato simbolico liturgico stava rapidamente mutando. A cominciare dall’altare mobile messo davanti al “Giudizio” michelangiolesco per permettere di celebrare l’Eucarista rivolti verso il popolo e non verso Dio. “Almeno sono rimasti i candelabri sull’altare”, notava sconsolato chi aveva apprezzato entusiasta il ritorno alla tradizione voluto da Joseph Ratzinger. Un segno che per qualcuno che l’applicazione del Motu proprio “Summorum Pontificum” emanato dal Pontefice tedesco nel 2007 che disciplinava la libera e corretta celebrazione della messa tridentina, non sarà tra le sue preoccupazioni. Papa Bergoglio, poi, entrava in processione nella Cappella con la mitria personale sul capo (quella che era solito portare a Buenos Aires) e con una semplice casula. Niente rocchetto di pizzo, nulla che lo distinguesse dai suoi “cari fratelli” cardinali concelebranti. L’unico riferimento simbolico a Benedetto XVI era la ferula, il pastorale che (a differenza di quello dei vescovi) non si curva. L’omelia, poi, non è stata pronunciata dal trono ligneo, ma dall’ambone. A essere messo in discussione non è tanto il primato petrino, quanto la sua interpretazione. Francesco parla di se stesso come vescovo di Roma – “la chiesa che presiede nella carità tutte le altre chiese” –, apre alla collegialità episcopale, chiama al suo fianco il vicario Vallini.

Che provi insofferenza per i cerimoniali rigidi, Bergoglio l’aveva già fatto capire la sera dell’elezione, quando decise di tornare a Santa Marta in pullmino, insieme ai suoi elettori. La macchina ufficiale non sarebbe stata usata neppure la mattina seguente, per la visita a Santa Maria Maggiore, quando Francesco preferì sedersi sul sedile posteriore di una modesta berlina. Uno stile semplice e personale ribadito anche ieri, durante l’udienza ai cardinali nella Sala clementina. Oltre al candido bianco della talare, Francesco si è concesso solo un’altra nota di colore: un braccialetto giallo che il cardinale sudafricano Fox Napier gli ha donato e che lui, senza esitazione, si è allacciato al polso. Con l’aiuto di un divertito Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.