Nora Ephron raccontata dal figlio Jacob, con sconfinata ammirazione
Non c’è solo amore, rimpianto, tenerezza, ma anche una sconfinata ammirazione, nel racconto delle ultime settimane della madre che Jacob Bernstein (giornalista e primogenito della sceneggiatrice e regista Nora Ephron e di uno dei due eroi del Watergate, il giornalista Carl Bernstein), ha pubblicato sul New York Times magazine di domenica scorsa. Ammirazione e orgoglio per quella donna vissuta nella convinzione che ogni fatto, anche il più sgradevole, possa produrre il miracolo della comicità. Anche essere tradite dal marito mentre si è incinte del secondo figlio, per esempio, e scoprire che la rivale è una delle tue più care amiche, come è successo davvero alla Ephron, che lo ha raccontato in “Affari di cuore” (con Jack Nicholson nella parte del fedifrago Bernstein).
Non c’è solo amore, rimpianto, tenerezza, ma anche una sconfinata ammirazione, nel racconto delle ultime settimane della madre che Jacob Bernstein (giornalista e primogenito della sceneggiatrice e regista Nora Ephron e di uno dei due eroi del Watergate, il giornalista Carl Bernstein), ha pubblicato sul New York Times magazine di domenica scorsa. Ammirazione e orgoglio per quella donna vissuta nella convinzione che ogni fatto, anche il più sgradevole, possa produrre il miracolo della comicità. Anche essere tradite dal marito mentre si è incinte del secondo figlio, per esempio, e scoprire che la rivale è una delle tue più care amiche, come è successo davvero alla Ephron, che lo ha raccontato in “Affari di cuore” (con Jack Nicholson nella parte del fedifrago Bernstein).
Perché, in fondo, “everything is copy”, “è tutto materiale”. A Nora, sceneggiatrice e figlia di sceneggiatori, la massima l’aveva trasmessa la madre Phoebe. La stessa che, sul letto di morte, l’aveva invitata a “prendere appunti” perché “everything is copy”. Lei, racconta ora Jacob, “l’ha fatto. Entrambe pensavano che la scrittura avesse il potere di trasformare le cose brutte in arte (anche se ‘arte’ era una parola che odiava)”.
Il primo e fondamentale “teorema Ephron”, infatti, vuole che “quando scivoli su una buccia di banana, le persone ridono di te, ma quando racconti alla gente che sei scivolato su una buccia di banana, la risata è la tua”. Lo aveva scritto nella raccolta “Il collo mi fa impazzire”.
Ma quando la realtà è troppo dura per poter obbedire al teorema, e dalla caduta sulla buccia di banana non ci si potrà più rialzare? Jacob racconta che sette anni fa, appena avuta la diagnosi della malattia che poi, nello scorso giugno, l’avrebbe uccisa, la madre capì “che non si può davvero trasformare una malattia mortale in una barzelletta. E’ quasi solo il fatto di raccontarlo che trasforma in vittima invece che nell’eroe della storia. Per lei, la tragedia era un abisso di cliché. Allora è rimasta calma, anche se ha seminato indizi in quello che ha scritto nei sei anni di malattia”. Come in “Non ricordo niente”: “Cerco di capire cosa voglio veramente fare ogni giorno, cerco di dirmi, se questo è uno degli ultimi giorni della mia vita, sto facendo davvero quello che voglio fare? Io sono modesta. La mia idea di un giorno perfetto è un gelato alla crema da Shake Shack e una passeggiata nel parco (seguiti da un Lactaid)”.
Ma forse, scrive il figlio di Nora Ephron sul Nyt, gli indizi più importanti sono nel suo ultimo lavoro, nel copione di “Lucky Guy”, che Tom Hanks sta per portare a Broadway, il prossimo aprile. E’ la storia di Mike McAlary, figura leggendaria del giornalismo d’inchiesta americano degli anni Novanta, cronista del Daily News.
Nel 1997 ha quarant’anni, una carriera compromessa e un tumore. In ospedale per curarsi, riesce a parlare con un uomo ricoverato dopo un pestaggio: è l’haitiano Abner Louima, arrestato davanti a un locale notturno di Brooklyn e seviziato dalla polizia. Con quella storia McAlary vinse il Pulitzer, pochi mesi prima di morire, nel 1998. Per Nora Ephron, pensa suo figlio, “McAlary era un modello non tanto nella vita quanto nella morte, nel modo di utilizzare la scrittura per mantenere uno scopo e trovare una via d’uscita dalla malattia”. E’ “l’atterraggio perfetto” dal trampolino di una piscina che la scrittrice attribuisce a McAlary in una scena di “Lucky Guy”. Lei, per il suo “atterraggio perfetto”, ha lasciato poche istruzioni: “Una festa in casa con champagne e tartine ai cetrioli di William Poll, e una commemorazione qualche giorno dopo, con l’elenco preciso degli oratori”.
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