Memorie di un inquisito
Imputato a vita
Per fortuna che sono abituato a guardare le nature morte…”, mormora Ottaviano Del Turco. Ce ne sono molte, appese alle mura di questa casa a pochi passi da piazzale Flaminio: melograni aperti che sanguinano e luccicano, cedri accesi, grappoli di uva scintillanti, larghe foglie nell’aria, fichi dal colore cupo. E cesti di vimini riprodotti nei minimi dettagli – così che il grande quadro laggiù in fondo immediatamente evoca il canestro colmo di colori e luci del Caravaggio – e tazze anch’esse di frutta stracolme, blu e bianche come certe antiche porcellane cinesi. Tutte opere di un amico di Del Turco, Luciano Ventrone.
“Stare sulla corda è vita. Tutto il resto è attesa” (dal film “All That Jazz”)
"Per fortuna che sono abituato a guardare le nature morte…”, mormora Ottaviano Del Turco. Ce ne sono molte, appese alle mura di questa casa a pochi passi da piazzale Flaminio: melograni aperti che sanguinano e luccicano, cedri accesi, grappoli di uva scintillanti, larghe foglie nell’aria, fichi dal colore cupo. E cesti di vimini riprodotti nei minimi dettagli – così che il grande quadro laggiù in fondo immediatamente evoca il canestro colmo di colori e luci del Caravaggio – e tazze anch’esse di frutta stracolme, blu e bianche come certe antiche porcellane cinesi. Tutte opere di un amico di Del Turco, Luciano Ventrone. (“Un giorno andò a trovarlo Federico Zeri, che voleva conoscerlo. Suonò il campanello. ‘Chi è?’. ‘Sono Federico Zeri’. ‘Sììì, e io sono Picasso!’, e mise giù”). Sulle pagine dei giornali, c’è una foto che a una natura morta – però confusa, di cattiva luce, di ammasso informe – potrebbe far pensare, anzi: fa pensare. Mele che spuntano da una busta – mele dove poco prima c’erano (dicono, accusano) pacchi di soldi. Tolstojano denaro falso, soldi consegnati, mele date in cambio – a far finto ingombro, a sigillare quasi biblicamente il peccato d’ingordigia commesso – in un giorno preciso: il 2 novembre 2007. Giorno dei morti, emblematicamente, perciò giorno in cui si può pure cominciare a sentirsi morire. “Ma sono abituato a guardare nature morte…”. E allora? E allora – come se fosse la tela laggiù, come se fosse la magia del Caravaggio – Del Turco cominciò a scrutare quella foto (malefica foto, foto che sanzionava insulto e dannazione per colui che aveva azzannato il frutto proibito della corruzione). Qualcosa nell’ombra appariva e si celava dietro le mele. Castagne, noci. Ma noci con il mallo – la parte carnosa, verde, che poi la noce perde. “Feci un salto: a novembre, in Abruzzo, non ci sono noci con il mallo attorno. Lo hanno già perso. Quelle non potevano essere le noci del 2 novembre”.
Ora dicono i quotidiani che “la prova ‘regina’ era una bufala”, che l’accusa contro Del Turco vacilla, e che quelle foto che dovevano inchiodarlo (soldi, mele, l’uomo che paga mentre entra in casa) sarebbero state scattate mesi prima. Del Turco respira – dopo cinque anni riprende a respirare. Ma è un respiro che ha un fondo di affanno, di stanchezza – dentro il fiato un principio comunque di sconfitta. Perché il processo è ancora da concludere, chissà se entro l’estate, chissà se entro l’anno, chissà come finirà – pur se la “valanga di prove schiaccianti che non lasciano spazio a difesa”, vantata dalla procura quando tutto cominciò fatica a venire giù, pur se a volte il telefono ha ripreso a squillare, pur se giornali e televisioni chiedono commenti e interviste. Ha un affanno che forse non andrà mai più via, il respiro di Del Turco. “Un cencio”, risponde di sentirsi a un’amica che telefona. Di respiro che una volta è stato interrotto con spavento, e ora non riesce più a ritrovare il suo ritmo. Perché poi dentro una storia così – tra lui che proclama la sua innocenza e la sua sconsolazione (“sono un apolide, ormai ho perso tutto”), e i magistrati che insistono sulla sua colpevolezza – se ne macinano altre cento, altre mille. Non si esce, comunque se ne esca, come in un giorno di novembre – “cala novembre e le inquietanti nebbie gravi coprono gli orti”, cantava Guccini: gli orti con le mele, le castagne e le noci, lì dietro la casa di Collelongo dove ogni cosa si consumò e l’arresto fu eseguito – successe di precipitarci dentro, e il sospetto infame di sei milioni di tangenti che tirano a fondo, cementificando piedi e pensieri. Anche lo sguardo di Del Turco ha qualcosa di spento, che si accende davanti al racconto di un libro, di una tela, per poi tornare a fissarsi sul computer, su Facebook, “mi è rimasta una sola finestra sul mondo”, e consola magari sapere che “c’è un musicista di Firenze che ha aperto una pagina: ‘Verità e giustizia per Ottaviano Del Turco’…”. E’ sollevato, certo. Ma è un quieto sollevarsi, il suo – ché appunto sa che mai il conto andrà in pareggio. “Ho vissuto sulla mia pelle la tragedia della consumazione”. Fu arrestato il 14 luglio del 2008, il governatore Del Turco. Il giorno che presero la Bastiglia si presero anche lui. Giorno da rivoltosi, da giacobini. Sorride. “Mi ricordo la lettera di una vecchia nobildonna abruzzese…” – e viene in mente, per subito sparire dalla mente, “quella candida vecchia contessa” di De André – ma anzi, “ricordo le parole esatte, mi scrisse: ‘Caro presidente, lei è stato arrestato il 14 luglio, il giorno dei giacobini, così impara ad amare quella gente’. Ma io i giacobini non li ho mai amati, mi ricordo gli scontri con i più estremisti durante le assemblee sindacali. Le vostre sono seghe senza orgasmo!, gli gridavo…”.
Appena cinque anni, e magari altri ancora – e cinque anni, comunque, possono contenere e macinare tutti i sessantaquattro precedenti, così che il sindacalista, il segretario socialista, il ministro, il deputato, il presidente dell’Antimafia, l’eurodeputato quasi non esistono più. Né l’adolescente che a sedici anni preparava le pratiche delle pensioni di vecchiaia e di invalidità all’Inps, le assemblee dei metalmeccanici alla Voxson o alla Romanazzi o alla Selenia, il ragazzo che andava al cinema a vedere “Allarmi, siam fascisti!”, e fuori c’erano i fascisti veri e bellicosi in attesa. “Improvvisamente la mia vita sociale si è ridotta al rapporto tra me e sei carcerieri, che mi sorvegliavano ventiquattr’ore su ventiquattro. Perché evitassi, credo, gesti insani… E nel carcere di Sulmona incontravo lo sguardo malizioso di alcuni mafiosi. ‘Visto che succede anche a te?’, diceva quello sguardo”.
C’è un pensiero fisso, un tunnel buio, “una valanga” che fatica a farsi prove ma che intanto mediaticamente e politicamente seppellisce e azzittisce. Scriveva, Del Turco. Dipingeva, Del Turco – e la sua casa è percorsa da questa passione, insieme alle opere (rivelatrici, si è visto) di Ventrone, un paio di coloratissimi Schifano, Vespignani, Guccione. Fa correre lo sguardo lungo le pareti. “Sai, adesso credo che dovrò vendere tutto per pagare le spese legali, non c’è altro da fare. Tutto, tranne quello, è di Guccione…”, e indica un Cristo crocifisso dietro la testa – più che altro un’ombra di Cristo crocifisso, il corpo sofferente che sfuma nel nulla, la croce appena intuita. E qualcosa appeso a un chiodo vicino alla croce invisibile. “E’ una frusta… E’ il crocifisso che Angelica e Tancredi scoprono nel ‘Gattopardo’, ricordi?”. I due fuggono, dentro il palazzo di Donnafugata, “e l’Eros sempre con loro, malizioso e tenace”, scoprono stanze disabitate, vite di antenati dimenticati, mentre la governante timorosa li insegue: “Tancrède, Angelica, où êtes-vous?”, e di colpo un enorme dimenticato spaventevole crocifisso si para loro davanti, e “accanto al cadavere divino pendeva giù da un chiodo una frusta col manico corto dal quale si dipartivano sei strisce di cuoio ormai indurito, terminanti in sei palle di piombo grosse come nocciole”. E con quella frusta un antico avo, Giuseppe Corbera duca di Salina, si fustigava, “e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle” – e adesso chissà Del Turco cosa in quel crocifisso vede, e soprattutto cosa in quella frusta implacabile riconosce, così da essere pronto a privarsi di tutto, ma non di quell’ombra inchiodata, minacciosa più che consolante. E dunque una vicenda giudiziaria – e la sentenza dirà se di ordinaria giustizia si tratta, impreziosita da centoquattro rogatorie internazionali, o se la “valanga” seppellì solo una reputazione anziché smascherare un furfante – che sempre una vicenda umana senza scampo, e a volte anche senza colpa, muta e fa deragliare. E adesso Del Turco non dipinge, “serve una serenità che non ho”, e non scrive. Fatica a mettere in ordine i colori sulla tela. “E non mi vanno più in ordine le parole. Una volta per me scrivere era facile, adesso… Questa storia ha cambiato il mio rapporto con la sintassi, commetto errori che non avevo mai fatto, perdo la consecutio temporum. Non so più scrivere, mi smarrisco. Questa storia mi ha come inaridito, reso una pianta secca, affaticata…”.
Le parole vagano, indisciplinate, come a volte la testa, magari. Le parole – quelle dette, quelle scritte, quelle riferite – che in un processo si fanno carne e sangue (a sfiorare il letterario di quella frusta accanto al divino cadavere appeso), e l’ordine salta e il grigio pare divorarle tutte insieme. Persino le parole nei bigliettini che gli inviarono colleghi deputati – come Bersani, come la Turco – e che furono bollati quali “pizzini”, come fossero opera malavitosa, messaggi osceni di osceni briganti, e non saluti di parlamentari della Repubblica. E’ che dentro queste storie le parole sempre poco consolano – anche quando sono parole che accompagnano sperati e tardivi successi processuali – piuttosto che ferire. “Ricordo che dopo l’arresto un importantissimo dirigente del Pd mi mandò un biglietto. C’era scritto: ‘Caro Ottaviano, sono sicuro che riuscirai a dimostrare la tua innocenza’. Gli risposi che mi lasciava senza parole, lo sapeva che non toccava a me dimostrare la mia innocenza? Ero allibito”.
Le cose cambiano, quando improvvisamente le tue mani non sono più libere di muoversi, quando finisci in cella, quando sei confinato agli arresti domiciliari. Anche quando tutto è ancora da dimostrare, anche quando le persone che ti conoscono dovrebbero avere qualche certezza in più su ciò che tu sei – e sei stato, e sai che forse per gli altri non sarai più. “Vivo nel silenzio, dentro questa mia casa. Mi ero sempre svegliato alle sei del mattino, alle sette stavo sempre fuori, e adesso… A volte una passeggiata, una cena. Quando sono tornato dal carcere, ho visto gente cambiare marciapiede per non incrociarmi, girare l’angolo di strada per non salutarmi. Il vuoto intorno… Mi è successo di osservare con attenzione il mutamento dell’opinione pubblica rispetto alla mia storia. All’inizio la sensazione era questa: sì, forse hanno esagerato, ma qualcosa ci deve essere. Ero attento alle reazioni, non solo di chi conoscevo, ma anche di chi mi riconosceva. A volte sorprese positive, a volte negative. D’altra parte, non mi faccio illusioni sul permanere, nei rapporti sociali, di una dose di cinismo e di ipocrisia. Quando incontro certe persone che furono amiche, e si avvicinano sospirando: ‘Sapessi come ci sono rimasto male’ – beh, ma non mi hai mai telefonato, non mi hai più invitato a cena; ‘Sapessi come ti ho pensato’ – beh, allora potevi pure dirlo. Spesso non resisto, e glielo dico in faccia: non ti facevo così ipocrita. Ci sono state anche occasioni di rottura. Ogni volta mi viene in mente e cito loro l’epigramma che Pasolini scrisse su Gian Luigi Rondi: ‘Sei così ipocrita che come l’ipocrisia ti avrà ucciso / sarai all’inferno, e ti crederai in paradiso’…”. Sul divano, vicino a Del Turco – anzi: su Del Turco, addosso a Del Turco – saltano in coppia i suoi due cani: il cane Due (successivo al cane Uno) e sua figlia, la cagnetta Soutine, come il pittore francese. Dove uno va, l’altra vola. Dove una fugge, l’altro insegue. Al loro accorrere, il sorriso di Del Turco si fa meno appassito, più pieno. Le mani, fino ad allora abbandonate (mani che faticano a scrivere, mani che non s’imbrattano più di colori), sembrano riprendere vita, cominciano a seguire carezzevoli i loro piccoli e sussultanti e pelosi corpi. Bordeggia il divano, scivola intorno alla poltrona, il gatto Miró – in onore del grande pittore catalano, ovvio, “ma anche del centravanti laziale Miroslav, il dio degli stadi”, spiega il biancoceleste ex governatore. “L’abbiamo trovato in una strada di Collelongo, si trascinava con una zampetta rotta, spaventato…”. Si fa sempre fatica, però, dentro certe storie, a mettere in ordine quelle più banali – che banali sembrano, e raccontano invece di piccole felicità smarrite – che ora appaiono perse, e quindi smisurate. A volte, confida Del Turco, piange – e senza vergogna lo confida, e quando racconta lo sguardo si vela, “piango spesso, non so perché, ma piangere è una risorsa, non è un danno”. Come quando ricorda Luciano Lama, di cui fu segretario aggiunto in Cgil – “chiesi un appuntamento a Cossiga, al Quirinale, gli dissi: sono stati fatti senatori a vita molti artisti, scienziati, mai un sindacalista, gente come Pastore o Di Vittorio o Lama. Cossiga mi rispose: e chi glielo dice, a Natta? Tu portami il consenso di Natta, io sono pronto a mettere la firma. Era il Pci che non voleva…”. O la vita da bambino in quell’Abruzzo che doveva segnare poi così tanto, e così per sempre, la sua esistenza, e D’Alema, che pure gli fece la proposta di andare a farsi governatore, e col 60 per cento dei voti lo fu, che mostrava cautela, si fermava sul limite, “se io fossi in te, non andrei”.
“So anche persino quando sono stato concepito, perché mio papà stava con i partigiani sulle montagne intorno a Collelongo, e scendeva raramente a casa: fu un otto di febbraio. Venne e giacque e scappò, perché stavano arrivando i tedeschi. E mia madre, a 41 anni, che si disperava per il senso del peccato”. E fu l’ottavo figlio, Ottaviano – e da qui il nome, e non fu neanche il più bizzarro in famiglia, comprensiva di un Quintiliano, di una Pratilina e di un Alfiere. E dentro quella casa fu arrestato, appunto cinque anni fa, appunto nel giorno dei giacobini, quando la sua vita definitivamente sbandò. Vennero dei finanzieri, “pensavo a una perquisizione, io non lo sapevo, ma ricordo che un programma televisivo già lo stava annunciando, e il colonnello mi disse: presidente, dobbiamo tradurla al carcere di Sulmona. Da quel momento tutto cambiò”. Furono ventotto giorni di carcere, “esperienza indimenticabile”, poi gli arresti domiciliari, e serviva l’autorizzazione per spostarsi da Collelongo a Roma e viceversa. “La damnatio memoriae che io ho conosciuto”, ha ripetuto in questi giorni ai giornali. E che pure conosce – e che forse, mentre Soutine ancora scappa e Due ancora la insegue e Mirò infila il muso in un piatto rimasto incustodito – e che forse teme di dover per sempre (pur nella forma sottile della dimenticanza, pur nell’insopportabile ferocia dell’ipocrisia) conoscere. Racconta che in cella leggeva, come molti fanno, ché altro da fare non c’è, e riscoprì “Addio alle armi” di Hemingway, “avevo un pregiudizio, mi ricordavo la stroncatura sull’Espresso di Moravia, invece mi è piaciuto, le ultime quindici righe sono bellissime”, e fu deluso da “Il giovane Holden” di Salinger, “riletto mi pareva una fiction”, molto meglio “Il rosso e il nero” di Stendhal. E Gadda, tutto Gadda, ancora adesso, il geniale e spaventato Gadda, le parole quasi incomprensibili e perfette, “per la terza volta sto rileggendo ‘L’Adalgisa’…” – così sempre pare restare uno “gnommero” da cui districarsi, e farlo richiede una vita, se una vita basta. “Una vita già deviata, irreversibile”, mormora Del Turco. “Quando sono uscito di galera tornato a Collelongo, c’è stata una gran festa, ma il delitto era ormai consumato…”.
C’è molto da pensare, quando c’è molto da attendere – e pur sperando, senza grandi speranze restare. “Poco prima di morire mi chiamò Miriam Mafai, mi disse che voleva venire a cena da me. Eravamo amici da una vita. Ne fui felice. Dove abiti adesso? Le diedi l’indirizzo. Ma a che numero? Le diedi il numero. Non è possibile, disse, è il palazzo dove io ho abitato con la mia famiglia. A che piano? Le dissi il piano. Ma è lo stesso! E l’interno? Le dissi l’interno. Ma è esattamente la casa dove abitavamo! Non è strana la vita? Com’è curiosa… Miriam mi raccontò di quei mesi tra queste mura, era il 1944, i nazisti erano appena andati via. Mi disse: mio padre non riusciva a trovare i colori che gli servivano, mia madre non riusciva a trovare la creta, io e le mie sorelle non riuscivamo a trovare il pane per mangiare…”. Del Turco si ferma, lo sguardo torna faticoso. “Morì pochi giorni dopo, Miriam, non è più riuscita a rimettere piede in questa casa…”. Prima o poi, in qualche modo finirà. “Anche la lotta senza vittoria inaridisce, lo sappiamo noi vecchi sindacalisti. Porta all’inaridimento la sensazione di non poter più vincere una battaglia. A che serve lottare, se non hai la possibilità di vincere? Diventano campi di battaglia che non sono più tuoi”.
C’è un quadro alle pareti. L’ultimo che Del Turco ha dipinto. Non ha colori – l’unico altro senza colori, a parte il Cristo con la frusta dell’espiazione (della paura) a fianco. C’è una bicicletta appoggiata a un muro, una piccola Citroën degli anni Quaranta ferma in mezzo alla strada. Nient’altro – né luce né vita né stupore. Un po’ triste, spettrale, dico. “Mi fa pensare all’inizio di una storia, quell’immagine…”. Ma ancora non sa come andrà, poi, quella storia.
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