Te la do io l'informazione

Stefano Cingolani

Nei tempi eroici, quelli di Raffaele Fiengo per intenderci, gli avversari lo chiamavano il soviet di via Solferino. Poi le cose sono cambiate, il comitato di redazione del Corriere della Sera è rientrato nei ranghi e Fiengo, il suo storico capo, è andato in pensione. Finché, all’improvviso, il cdr è tornato al centro della scena. Non più come soviet, questa volta, semmai come una sorta di Consob, la commissione che controlla le operazioni finanziarie in Borsa e dintorni. Una serie di articoli e comunicati, frutto di un lavoro da giornalismo investigativo, hanno messo sul banco degli imputati niente meno che manager e soci del gruppo Rcs.

    Nei tempi eroici, quelli di Raffaele Fiengo per intenderci, gli avversari lo chiamavano il soviet di via Solferino. Poi le cose sono cambiate, il comitato di redazione del Corriere della Sera è rientrato nei ranghi e Fiengo, il suo storico capo, è andato in pensione. Finché, all’improvviso, il cdr è tornato al centro della scena. Non più come soviet, questa volta, semmai come una sorta di Consob, la commissione che controlla le operazioni finanziarie in Borsa e dintorni. Una serie di articoli e comunicati, frutto di un lavoro da giornalismo investigativo, hanno messo sul banco degli imputati niente meno che manager e soci del gruppo Rcs. Il casus belli è il piano industriale che vede minacciati 800 posti di lavoro e una decina di periodici. Persino la sede storica del Corriere, la mitica via Solferino, rischia di essere venduta, la redazione emarginata in periferia per far posto magari a un grande albergo destinato ai modaioli del quartiere Brera. Orrore. Per il cdr la colpa di tutto ciò risale a una operazione clamorosamente fallimentare: l’acquisto nel 2007 del gruppo editoriale spagnolo Recoletos a un prezzo ritenuto esorbitante (1,1 miliardi di euro) che ha fatto balzare i debiti della Rcs da zero a 880 milioni.

    La vicenda è ricca di personaggi e interessi. Non c’è dubbio, però, che la notizia è nella forma, non solo nella sostanza. Non si era mai vista una cosa del genere in nessun giornale o gruppo editoriale. La controinformazione per mettere alla berlina gli azionisti. La risposta alla ristrutturazione non con gli scioperi, ma con l’arma dell’inchiesta. Ve l’immaginate il Times di Londra fare le bucce a Rupert Murdoch o il Financial Times con Pearson e il New York Times con la famiglia Ochs Sulzberger? Allora, chi sono i protagonisti di questa storia nella storia?
    Il Corriere alberga molte anime, tante quante la proprietà divisa in coriandoli. In posizione prevalente restano Mediobanca e Fiat, ma senza il carisma dell’Avvocato e la mano forte di Cesare Romiti, il consiglio di amministrazione è diventato soprattutto un salotto litigioso in cui si incrociano relazioni, amicizie e rivalità, interessi spesso in conflitto. Secondo una scuola di pensiero, ciò dà più autonomia alla direzione e alla redazione: tanti padroni, nessun padrone. La scuola opposta, al contrario, sostiene che tanti padroni, troppi padroni.
    I corrieristi camminano sulle uova, ma hanno imparato come pochi a muoversi tra tutte queste insidie grazie all’indipendenza garantita da direttori di alto profilo professionale, da Piero Ostellino a Ugo Stille, da Paolo Mieli a Stefano Folli e Ferruccio de Bortoli. Negli anni hanno introdotto uno stile più nervoso, urticante, aggressivo, anche nel giornalismo economico che, visto l’assetto proprietario, è senza dubbio il mestiere più rognoso in via Solferino. Sono fiorite le inchieste, le analisi, le frecciate “con la schiena diritta e senza guardare in faccia a nessuno”, come invitava a fare Carlo Azeglio Ciampi nelle sue visite pastorali da capo dello stato e supremo garante, come egli stesso si definì.

    Un economista allora poco conosciuto, Alessandro Penati, smontò punto per punto il salvataggio della Ferruzzi da parte di Mediobanca. Cuccia era ancora in vita. Non fece una piega, ma certo non gli piacque. Qualche tempo dopo Penati è andato alla Repubblica.  E che dire della operazione Casta? Una delle più dure ed efficaci campagne giornalistiche, condotte da Gian Antonio Stella e da Sergio Rizzo: fatti, cifre, denunce; sprechi, inefficienze, privilegi. Paginate sul Corriere, un libro di grande successo, un bestseller pubblicato dalla Rizzoli. Ma soprattutto un impatto politico con pochi precedenti. Era il 2007 e i due autori hanno interpretato lo Zeitgeist. Paolo Mieli che dirigeva il giornale con arte manovriera e sensibilità politica, dopo aver firmato (tra un mare di critiche) l’inusuale sostegno a Romano Prodi nel 2006, ha colto il vento che spirava dalla folla, la nuova rivolta delle masse contro l’élite. Quella politica, certo. Non erano ancora i tempi di Occupy Wall Street. I banchieri vivevano in Italia l’ultima delle loro grandi stagioni al centro del sistema e la Casta divenne la bandiera dell’anti-politica.

    Quanto all’establishment economico, il Corriere ha trattato con britannico aplomb i pasticci combinati dall’Avvocato quando venne fuori la faccenda dell’eredità e del “tesoretto” nei paradisi fiscali. Ha raccontato con distacco il blitz con il quale Franzo Grande Stevens e  Gianluigi Gabetti misero al sicuro il controllo della Fiat per conto dell’erede John Elkann, in barba alle banche che nel 2005 avrebbero voluto farla da padrone. Quando Massimo Mucchetti, allora all’Espresso, nel 2004 pubblicò un libro graffiante, intitolato “Licenziare i padroni?”, venne assunto da Cesare Romiti. E furono guai anche per alcuni dei padroni del Corsera. Il duello con Marco Tronchetti Provera è finito persino in tribunale. Ma in tempi più recenti, Mucchetti ha rovesciato come un guanto i piani di Sergio Marchionne, suscitando il malumore dell’intero clan Fiat. Fino a spingere il compunto Elkann a irritate reazioni contro il direttore.  Il giornalista ora è senatore per il Pd. Ma al Corriere c’erano e ci sono altre validissime penne ben attrezzate nel vigilare sulle eventuali malefatte della finanza e del capitalismo nostrano. Anche per questo oggi colpisce tanto la controinchiesta del comitato di redazione.
    Tutto comincia, in realtà, molto prima del piano lacrime e sangue, ma rimane a lungo sotto traccia.

    Riceve, per esempio, pochissima pubblicità la notizia che nel 2008 la Consob commina a Rcs una multa di 200 mila euro per la mancata trasparenza nell’affare Recoletos. Il gruppo era in utile, le vendite andavano bene, perché preoccuparsi? E’ vero, i periodici mostravano la corda. E in bilancio erano improvvisamente emersi debiti massicci. Ma il boccone spagnolo era grosso e sembrava naturale che ci volesse tempo per smaltirlo. Poi, arriva il grande crac, la recessione, scoppia la bolla immobiliare, le banche sono sull’orlo del collasso, crollano le entrate pubblicitarie e le vendite. Un mostro dopo l’altro azzanna i bilanci della branca iberica di Rcs e si scarica sulla casa madre. Così Antonello Perricone, allora amministratore delegato, spiega il precipitare della situazione nell’assemblea del 2011 e in quella del 2012, rispondendo alle domande di un socio tutto particolare, un giornalista del Corriere che lavora a Bruxelles: il suo nome è Ivo Caizzi. Assunto dal settimanale il Mondo (sempre Rcs) si era distinto per le sue inchieste finanziarie spesso scomode. E non aveva avuto molte promozioni. Finché non era stato inviato a seguire la Commissione europea e da allora aveva mollato l’aspetto della professione che più lo appassiona.
    Per spiegare quest’altra bizzarria del giornalista-azionista, bisogna tornare ai tempi di Fiengo. L’allora capo carismatico del sindacalismo di via Solferino aveva deciso di far acquistare una manciata di azioni dal comitato di redazione, in modo da esercitare un “controllo democratico e professionale” sui manager, avendo gli strumenti per contestare cifra su cifra, qualora ve ne fosse bisogno. Poi la vigilanza militante era caduta in disuso, tanto che quei titoli di proprietà si erano persi in qualche cassetto. Caizzi, preso dall’antica febbre  e allarmato dai debiti della Rcs, aveva riproposto al cdr di esercitare i diritti dei soci. Non trovando il pacchettino collettivo, aveva comperato mille azioni (spendendo un migliaio di euro) e aveva cominciato a chiedere spiegazioni (per iscritto perché scripta manent) sugli aspetti più controversi dell’operazione Recoletos.

    Dai verbali, risultano alcuni punti chiave che vanno riassunti. Recoletos è una società spagnola che pubblica il giornale sportivo Marca e il quotidiano economico-finanziario Expansion. Nel 2004 il gruppo inglese Pearson (edita il Financial Times e l’Economist) la mette in vendita. Gli analisti finanziari del Santander consideravano illiquida la società e suggerivano di accettare l’unica offerta, quella di Retos Cartera, il cui primo azionista era Jaime Castellanos, rappresentante di Lazard in Spagna e cognato di Emilio Botín il patron del Santander (avevano sposato due ricche ereditiere, Patricia e Paloma O’Shea). Pearson incassa 743 milioni di euro per il 79 per cento di Recoletos. Poco più di un anno dopo, Castellanos offre il gruppo a Vittorio Colao, amministratore delegato di Rcs il quale lo giudica troppo caro. Tre anni prima la Rizzoli aveva già comprato da Castellanos la quota del 30 per cento nel quotidiano il Mundo del quale possedeva già il 52 per cento, consigliato da Lazard Italia che allora era guidata da Gerardo Braggiotti.
    Il 12 settembre 2006, Colao viene defenestrato. Non si era mai inteso né con gli azionisti né con i giornalisti. Al suo posto arriva Perricone dalla Stampa. Cugino in secondo grado di Francesco Rutelli, sposato a una ex campionessa di nuoto (Chicca Stabilini), amico fin dalla giovinezza di Luca di Montezemolo che accompagnerà in gran parte della sua carriera: da Publikompass alla Cinzano fino alla Maserati. Ma in mezzo c’è anche Publitalia, Sipra, cioè Rai. Insomma non si può dire che non s’intenda di pubblicità che è il sale dell’editoria. E Perricone nel febbraio 2007 compera Recoletos.
    L’inchiesta collettiva del cdr (composto da Giuseppe Sarcina, Alfio Sciacca e Biagio Marsiglia a Milano e da Andrea Garibaldi e Lavinia Di Gianvito a Roma) mette in risalto l’intreccio di relazioni che accompagnano l’operazione. Gli advisor sono: di nuovo Gerardo Braggiotti (che nel frattempo guida la Banca Leonardo) e Mediobanca principale socio di Rcs (per i loro servigi intascano 4 milioni a testa). Ivo Caizzi nella terza puntata della propria rubrica Offshore (uscita in parallelo alla controinchiesta del cdr), ricorda che John Elkann, presidente della Fiat e secondo azionista Rcs, è anche socio e consigliere di Banca Leonardo. Mentre Perricone ammette che il parere determinante fu quello di Mediobanca. Insomma, il capitalismo relazionale nella sua massima espressione.

    “Rcs paga a Castellanos 1,1 miliardi nonostante Recoletos abbia fatturato solo 304 milioni nel 2006”, scrive il cdr. La società non ha né immobili né gioielli di famiglia. Come fa a valere tanto? Dietro incombe l’ombra di don Emilio la cui figlia Ana Patricia Botín presiede la banca Banesto, azionista di Recoletos e, a quel tempo, è amministratrice delle Assicurazioni Generali a loro volta azioniste di Rcs. Lo stesso Botín in quel famigerato 2007 aveva venduto Antonveneta al Monte dei Paschi di Siena per dieci miliardi, con un guadagno di ben tre miliardi tondi tondi. E’ la plusvalenza sulla quale indagano (finora senza frutto) i magistrati di Siena.
    “Attenti ai polveroni, chi non ha preso un bagno in Spagna?”, dicono alcuni giornalisti dello stesso Corriere che conoscono bene le materie economiche. D’altra parte, le difficoltà della Rcs fanno parte di una crisi strutturale. La stampa (ma si può dire il giornalismo nel suo insieme) è colpita dal salto tecnologico, dal cambiamento generazionale, dalla competizione di nuovi media su un mercato più aperto e non più solo nazionale. Editori e giornalisti, particolarmente in Italia, lo hanno capito troppo tardi e stentano a trovare un nuovo paradigma produttivo e culturale. Il cdr del Corsera non è che non sappia tutto questo, tuttavia vuole veder chiaro in casa propria e ricorda che il gruppo Recoletos venne rivalutato a ogni passaggio di mano e Castellanos lo aveva comperato da Pearson solo per rivenderlo.
    “Due anni per un pelotazo (una pallonata alla lettera, un colpaccio diremmo noi). Castellanos incassa una plusvalenza di 350 milioni”, scrisse nel 2007 la stampa spagnola. Ma allora il mercato era in crescita. E Rcs, già ben piazzata con il Mundo, aveva scelto di giocare un ruolo di primo piano in Spagna. Un errore? Sì, col senno di poi. Replica Perricone: “Il miglior posizionamento sul mercato a seguito dell’acquisizione ha permesso di affrontare meglio la crisi”. Lo dice a Caizzi nel 2011. Poi lo ripete all’assemblea del 2 maggio 2012. Se la prima volta poteva peccare di ottimismo, la seconda volta è quanto meno incauto, insiste il cdr, perché i debiti e i buchi erano già venuti fuori. Tanto che Perricone si dimette (con una buona uscita di “circa tre milioni di euro in aggiunta alle normali competenze di fine rapporto”) e va a presiedere Italo, la compagnia ferroviaria di Montezemolo. Il quale nel frattempo ha lasciato la presidenza della Confindustria e anche quella della Fiat. Al suo posto, Elkann porta Pietro Scott Jovane, un manager preso da Microsoft Italia, il quale mette al primo posto della sua strategia ridurre i debiti e tagliare, facendo economie fino all’osso.

    Le vendite cominciano nel settembre 2012 con la casa editrice Flammarion: entrano in cassa 239 milioni. Ma non basta. Rcs deve avviare un aumento di capitale (stimato in una forchetta tra 400 e addirittura 800 milioni), mentre i soci sono in fibrillazione. Diego Della Valle sfida Elkann e si dice pronto a comprare il comprabile (non c’è molto fuori dal sindacato di blocco). Giuseppe Rotelli, primo azionista fuori dal patto, sostiene Giovanni Bazoli, al quale l’Avvocato sul letto di morte chiese di vegliare sul giornale. Il presidente di Intesa è l’unico ad aver dato ascolto al grido di dolore che s’è alzato dai giornalisti e si è dichiarato contro la vendita della sede di via Solferino.
    Il duello finanziario, professionale (e politico) si svolge sulle colonne del giornale. E questa è un’altra peculiarità. Non in prima, a pagina 19. Ma tant’è. De Bortoli ha accettato di dare il debito spazio alla singolare iniziativa, con gran fair play. Ed è stato interpretato dalla redazione come un ramoscello d’ulivo, una prova di sensibilità da parte di un direttore che ha cominciato la sua carriera al Corriere dei Ragazzi e quindi si sente un primus inter pares, anzi un capitano in mezzo alla ciurma. Il momento è difficile per quello che in molti, compreso Romiti, giudicano il miglior direttore degli ultimi tempi. Viene fatto filtrare che sia in uscita per far posto a Mario Calabresi il quale porterebbe in dote la Stampa, non solo la società di pubblicità ma il quotidiano della Fiat da integrare nel gruppo, così come oggi la Gazzetta dello Sport. Grandi rumors per grandi manovre. Il cdr su questo non entra. Per il momento gli basta aver messo in piazza i conflitti di interesse. E intende distinguere il destino del Corriere. La testata soffre come gli altri quotidiani, dicono, ma resta il gioiello della corona. Perché gettare la perla nel truogolo? Alcuni accarezzano di nuovo l’ipotesi cara a Bazoli: mettere il giornale della borghesia al sicuro in una fondazione. In mancanza di capitalisti che vogliano fare gli editori, come nel mondo anglosassone. Purché non sia una fondazione in salsa senese.