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E venne un Papa a san Giovanni
“Io mi ricordo che la prima volta che venni a Roma si fece con la mia famiglia una escursione fino a San Giovanni in Laterano; ricordo ancora benissimo il senso di desolazione che mi sorprese in quella grande casa, tetra, chiusa, abbandonata d’intorno, senza nessuna circolazione perché non c’erano i tram, né altro in quel momento”. Era il 1975 e a parlare così di San Giovanni era Paolo VI, Papa della chiesa cattolica da dodici anni.
Leggi Francesco In Laterano di Giuliano Ferrara
“Io mi ricordo che la prima volta che venni a Roma si fece con la mia famiglia una escursione fino a San Giovanni in Laterano; ricordo ancora benissimo il senso di desolazione che mi sorprese in quella grande casa, tetra, chiusa, abbandonata d’intorno, senza nessuna circolazione perché non c’erano i tram, né altro in quel momento”. Era il 1975 e a parlare così di San Giovanni era Paolo VI, Papa della chiesa cattolica da dodici anni. Raccontava, Giovanni Battista Montini, il turbamento che gli dava quel luogo allora isolato – era il primo Novecento – e separato dal resto della città. La Sacrosancta Papalis Archibasilica Maior Sanctissimi Salvatoris et Sanctorum Iohannis Baptistae et Evangelistae apud Lateranum, omnium Urbis et orbis ecclesiarum Mater et Caput, più nota come San Giovanni in Laterano, era bellissima. Come pure bello era il palazzo pontificio, a essa affiancato. Edificio “bello ma cadente”, lo giudicava ancora Montini. “Lo si vedeva dalle finestre e dalle porte chiuse, dall’impossibilità di entrare”.
Un disagio che il coltissimo Papa del Concilio avvertiva anche entrando nella Basilica: “La sera era come penetrare in una caverna, senza luce; cinque navate buie e paurose a chi osava inoltrarsi”. Ma è da questa oscurità, davanti alla Scala Santa che la tradizione vuole sia la stessa salita dal Cristo e portata a Roma da Elena, madre di Costantino, che “bisogna ridare la vita alla chiesa romana”, aggiungeva Paolo VI. Oggi, a quasi quarant’anni da quelle parole, uno dei successori di Montini potrebbe ridare vita alla cattolicità romana proprio ripartendo da lì, da quegli spazi che per secoli hanno rappresentato il centro indiscusso dell’autorità papale e che solo dal Cinquecento sono stati trascurati a vantaggio del Vaticano e del Quirinale, edificio del tutto laico, prima residenza del Papa a non essere edificata attorno a una chiesa e pochi erano i simboli che la identificavano come complesso pontificio: solo le statue dei santi Pietro e Paolo della Madonna col bambino sul portone d’ingresso.
Francesco, il primo latinoamericano a essere chiamato a succedere all’apostolo Pietro, ha esordito davanti alla folla che lo acclamava, mercoledì scorso dalla Loggia delle Benedizioni, definendosi vescovo di Roma. Non una, ma due tre quattro, cinque volte tra quella sera e i giorni successivi, dalla messa con i cardinali elettori in Sistina alle udienze tenute nella Clementina prima e nell’aula Nervi dopo. Il Papa, in effetti, è Papa solo perché vescovo di Roma. La chiesa romana che, come diceva Ignazio di Antiochia, l’Illuminatore, “presiede in carità tutte le chiese”. Un’idea di comunità, di fratellanza tra chiese intesa in senso orizzontale e non più, come è stato per centinaia di anni, verticale. Nessuna volontà di rinnegare il primato petrino, nessun disegno di ridurre la figura del Pontefice a quella di primo fa pari. Dopotutto, oggi in piazza, mentre Francesco effettuerà il consueto e rituale giro tra i fedeli “in jeep o in papamobile, ancora non si sa”, ha detto padre Lombardi, risuoneranno gli squilli di trombe d’argento e poi, l’uno dopo l’altro, il Tu es Petrus e le Laudes Regiae. Piuttosto, un segnale a quelle comunità, specie ortodosse che vedono nella rivendicazione del primato petrino l’ostacolo maggiore all’apertura di un confronto e di un dialogo con i cattolici. Non è una novità, l’accenno di Francesco alla chiesa romana come a quella che presiede nella carità tutte le altre. Già nel 2007 Papa Ratzinger parlò di Ignazio d’Antiochia.
Il Papa tedesco disse, in quella circostanza, che “nel servizio di unità della chiesa cattolica, la comunità cristiana di Roma esercita una sorta di primato nell’amore: in Roma essa presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata. Presiede alla carità, che ha la legge di Cristo e porta il nome del Padre”. Ignazio, aggiunse Benedetto XVI, “è veramente il dottore dell’unità”. Ancora prima, nel 1963, fu Paolo VI a recuperare nella sua omelia durante la messa di intronizzazione (allora si chiamava così, e al Pontefice veniva posta sul capo la tiara, mentre un batuffolo di stoppa veniva dato alle fiamme, a monito perpetuo, Sic transit gloria mundi) il senso profondo della massima di Ignazio: “Si allarghino i confini della carità, dell’amore”, disse Montini citando sant’Agostino. “Non sia il vostro cuore chiuso ed esclusivo, quasi campanilistico, ma si comporti, in ogni circostanza, con il sensus ecclesiae. Occorre, cioè, che anche voi amiate chi vi è stato fratello, compagno, condiscepolo, chi è stato il vostro vescovo, alimentando un amore più vasto, tale da abbracciare la chiesa, e i buoni rapporti derivanti dalla fede e dalla carità”. Due anni più tardi, incontrando Atenagora, fu abrogata la scomunica reciproca del 1504 seguita allo scisma d’oriente. Le immagini dell’abbraccio tra il Papa della chiesa di Roma e il patriarca di Costantinopoli sono passate alla storia. E oggi, a San Pietro, il Vangelo secondo Matteo sarà cantato in greco, “a testimonianza dell’unità della chiesa d’occidente con quella d’oriente”, ha detto padre Lombardi nel briefing quotidiano con i giornalisti.
A San Giovanni in Laterano ancora oggi c’è la cattedra del vescovo di Roma, la santa sede, la cui presa di possesso da parte di Jorge Mario Bergoglio avverrà dopo Pasqua – ragione per cui la messa in Coena Domini del Giovedì santo quest’anno avrà luogo a San Pietro. Se Papa Francesco intende mettere tra i punti qualificanti della sua agenda l’unità dei cristiani, allora abbandoni il palazzo apostolico vaticano progettato alla fine del Cinquecento dall’architetto Domenico Fontana, attraversi le mura leonine e vada dall’altra parte della città, sul Celio, dove da più di un millennio sorge la Basilica che è mater et caput di tutte le chiese di Roma e del mondo. Anche più di San Pietro, sorta laddove la tradizione vuole si trovi la tomba del principe degli apostoli, del primo Papa, del pescatore Simone cui Gesù affidò la chiesa e le chiavi del Regno dei cieli. San Giovanni, poi, ha ospitato cinque concili ecumenici nel corso della storia.
Dopo aver scelto di tenere la croce pettorale episcopale, quella di ferro, e aver deciso di tenere (almeno per ora) le grosse scarpe nere anziché quelle rosse che il suo predecessore (che aveva recuperato una tradizione caduta in disuso con il Pontefice precedente) Francesco potrebbe stupire rinunciando ad abitare nello sfarzo del Palazzo sistino, tra le stanze affrescate per volere di Giulio II da Raffaello Sanzio e lo splendore della Sistina e della Paolina. Nella sua semplicità, il Papa argentino ha già mostrato di nutrire qualche dubbio sull’appartamento papale. Bastava guardarlo giovedì scorso, mentre dopo la celebrazione con i “fratelli cardinali” rimuoveva i sigilli apposti dal Camerlengo Bertone la sera in cui Benedetto XVI partì per Castel Gandolfo. Mentre il prefetto della Casa pontificia, Georg Gänswein, accendeva la luce, Bergoglio si aggirava pensieroso in quegli ambienti. Sale e salette, anditi e biblioteche, enormi finestre e immensi tavoli lignei. Stile austero, fin troppo per un uomo che a Buenos Aires aveva preferito rimanere ad abitare in un modesto appartamento per prendersi cura di un vecchio gesuita. Troppo grande, avrebbe giudicato Francesco la residenza papale, secondo quanto ha riferito chi a quel tour attraverso le stanze della Terza Loggia era presente. Molto più adatte alle sue esigenze (e al suo programma) gli sono sembrate le stanzette al piano superiore, quelle piccole riservate al personale di servizio. Un imbarazzo palese anche domenica scorsa, al suo primo Angelus. Rivolto a quella piazza che “grazie ai media ha le dimensioni del mondo”, Francesco parlava al popolo di Dio accorso in quantità enorme per salutarlo. E lui ha ricambiato, dalla finestra del suo studio privato così lontana dal sagrato. Il Papa in alto, con il drappo pendente sul muro esterno del palazzo e il popolo in basso, con lo sguardo rivolto all’insù. In Laterano la distanza sarebbe meno evidente e il vescovo di Roma si sentirebbe più in mezzo ai fedeli. Un po’ come ha fatto con i parrocchiani di Sant’Anna, salutati uno a uno all’uscita dalla chiesa al termine della messa. Francesco che correva incontro alla folla assiepata dietro le transenne che agitava bandierine bianco-gialle e che lo acclamava. E lui, con la casula violacea quaresimala ancora addosso, correva da una parte all’altra mandando in panico i funzionari della gendarmeria pontificia.
Per secoli i pontefici scelsero di abitare sul Celio, almeno dalla prima metà del IV secolo, quando decisero di stabilirsi in una sede urbana abbandonando la serie di residenze anche improvvisate che avevano contraddistinto la prima fase della chiesa cattolica romana. Non era raro che i papi abitassero anche all’interno di cimiteri, come è documentato nel caso di Liberio, Pontefice dal 352 al 366, che si stabilirà nel cimitero di Sant’Agnese nei dintorni di via Nomentana. Fu Innocenzo III, a cavallo del 1300, a spostarsi a occidente del Tevere, in Vaticano. Il suo obiettivo era quello di affermare e imporre la superiorità del papato su ogni altro potere civile e religioso che potesse confliggere con il suo. Dalla “santa sede” in Laterano si passò alla “sede nostra” vaticana. I suoi successori proseguirono su questa strada, ampliando la cittadela e trascurando la cattedrale propria dei vescovi di Roma. Fino alla cattività avignonese del Trecento. Quando poi i papi tornarono a Roma, al complesso del Laterano ormai in decadenza e in stato di totale abbandono, preferirono il Vaticano prima e il Quirinale poi, senza dimenticare che per qualche decennio tra il tardo Quattrocento e il Cinquecento più di un Pontefice scelse di risiedere a Palazzo Venezia.
Oggi, con il primo Papa gesuita che ha scelto il nome di Francesco per riscoprire l’essenzialità dell’essere cristiani e per “far rinascere il cristianesimo”, come disse Giovanni Paolo II in visita al santuario francescano della Verna, il trasferimento al Laterano, alla sua cattedra, potrebbe diventare realtà. Proprio per tornare a quelle origini semplici che Bergoglio ha richiamato più volte nei suoi primi giorni da vescovo di Roma.
Leggi Francesco In Laterano di Giuliano Ferrara
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