Nostalgie benedettine

Annalena Benini

Quando Joseph Ratzinger uscì a salutare il mondo, da Papa, nel 2005, il Maestro delle Cerimonie era disperato. Le maniche di un goffo maglione nero gli spuntavano dall’abito talare. Il vestito era troppo corto, non c’era stato il tempo di sistemarlo (anche se prima dell’elezione di un Papa il sarto prepara al buio tre abiti, piccolo, medio e grande) e quel Papa minuto e arrossito sembrava ancora più preda del vento e dell’umiltà. Da quel momento in poi, si preoccuparono tutti di proteggerne la fragilità con “pompa e circostanza”, come scrisse Shakespeare nell’“Otello”, con gli abiti grandiosi in filigrana dorata, il camauro e le preziose cose di un altro tempo.

Matzuzzi L’incontro tra i due Papi è un gioco di specchi, ecco le differenze - Milani Mi piace il Papa povero, ho deciso che lascio tutto al Vaticano

    Quando Joseph Ratzinger uscì a salutare il mondo, da Papa, nel 2005, il Maestro delle Cerimonie era disperato. Le maniche di un goffo maglione nero gli spuntavano dall’abito talare. Il vestito era troppo corto, non c’era stato il tempo di sistemarlo (anche se prima dell’elezione di un Papa il sarto prepara al buio tre abiti, piccolo, medio e grande) e quel Papa minuto e arrossito sembrava ancora più preda del vento e dell’umiltà. Da quel momento in poi, si preoccuparono tutti di proteggerne la fragilità con “pompa e circostanza”, come scrisse Shakespeare nell’“Otello”, con gli abiti grandiosi in filigrana dorata, il camauro e le preziose cose di un altro tempo: Ratzinger offriva la parola nuda, di professore tra le nuvole, ma si rivestiva di simboli e di tradizione, facendo scomparire ancora di più il corpo, mostrando a tutti che lui non apparteneva più a se stesso, né tantomeno al mondo, da cui lo hanno distanziato anche tutti quei pesanti strati di stoffe in cui spesso inciampava malamente, che lo affaticavano, quelle mantelline e i rocchetti e il fanone, il pallio (le persone di questo mondo leggono le descrizioni e si ritraggono impaurite: mozzetta, ermellini?), abiti che rivestivano il pudore monastico e forse già il senso immenso di una fatica, di un’impossibilità, la modernità più sconvolgente che batteva sotto un ermellino. Quando Papa Francesco invece ha conquistato il mondo con la faccia grande e sorridente di un uomo che ha vissuto fra la gente e inciampa sugli accenti in un modo follemente simpatico, romantico, e sta a suo agio nella folla e le augura buon pranzo, è stato subito chiaro a tutti che non gli spunteranno mai le maniche del maglione dall’abito talare. Perché Francesco ha un corpo, riempie gli abiti con spavalda energia, vuole stare al centro, mettersi un braccialetto di gomma giallo se glielo regalano, rinunciare all’anello d’oro, cambiare i simboli, scendere dal trono per esserci ancora di più, per non scomparire.

    Ratzinger stava su quel trono con l’infinita mitezza di chi si siede al posto che gli ha assegnato Cristo, e allora indossa anche le scarpe di pelle rossa, quelle del primo Papa martire nella storia della chiesa. Dentro lo stadio degli Yankees a New York, il massimo della modernità e dell’incontro dei corpi, teneva in mano il pastorale di Pio IX. Un altro mondo dentro il nostro, e allora non solo il camauro e tutti i paramenti tirati fuori da bauli impolverati e aggiustati dalle suore ricamatrici, ma anche i canti gregoriani, il rito in latino guardando l’altare, erano il modo per richiamare quell’altro mondo fra le braccia, per aggrapparsi a una certezza spirituale durante l’umano smarrimento e la paura di non farcela. Dentro quella “pompa e circostanza” che a molti sembrava anche, a volte, freddezza, distanza, sfarzo, Ratzinger ha messo tutta la sua volontà di vincere la paura, di mettere ordine nel disordine, di diventare soltanto la parola che resta. E di essere non più un uomo, un corpo, un carisma. “Non ho mai cercato di creare un mio sistema, una mia particolare teologia. Se proprio si vuol parlare di specificità, si tratta semplicemente del fatto che mi propongo di pensare insieme con la chiesa e ciò significa soprattutto con i grandi pensatori della fede”, disse quando era ancora un professore di teologia, sempre appartato anche durante le dispute. Il suo sistema è stato non mettersi al centro, come alle lezioni nelle università tedesche, a cui andava vestito modestamente, con un baschetto in testa. Ma un Papa deve sottomettersi alla circostanza, e Ratzinger voleva che sentissimo di entrare a contatto con qualcosa di grande, di molto più grande di lui, che si è sempre sentito piccolo, e da bambino in Baviera parlava con i gatti e da grande, da Papa, ha continuato a parlare con i gatti, a portare loro sempre qualcosa da mangiare, a dire loro parole in tedesco, a tirarseli dietro nel cortile della Congregazione per la Dottrina della fede, come hanno raccontato i cardinali. Lui si sentiva piccolo anche davanti agli altri uomini, all’umanità bisognosa, aveva paura di non fare, di non dire abbastanza, di non riuscire a mettere tutto in ordine. L’ordine della liturgia e della forma gli dava sollievo.

    Invece Francesco può permettersi di stare descamisado, di rifiutare l’oro, di scrollarsi dal capo la mitra, perché, come ha detto lui stesso a S. Maria Maggiore: “Non sono un indifeso”. Non è un indifeso, Francesco, e quando nella stanza delle Lacrime, il luogo della vestizione, il Maestro di cerimonie voleva che indossasse una mozzetta rossa di velluto bordata d’ermellino, tutte cose che non si vedevano da cinquant’anni, ma che erano state ripristinate, restaurate, rivitalizzante dai consiglieri di Joseph Ratzinger, e accettate da Benedetto XVI come un ulteriore aiuto per scomparirvi dentro, per potersi servire soltanto della parola, per restare tra le nuvole e piantato in terra soltanto da quintali di paramenti, alla richiesta di scomparire, insomma, Papa Francesco, figlio di un ferroviere astigiano, abituato a Buenos Aires a difendersi e a difendere, con il suo largo sorriso impetuoso ha risposto: “Questa se la metta lei”. A parte che una mantellina rossa di velluto bordata di ermellino non è l’accessorio più adatto a un omone, seppur Papa, perché anche per potere scomparire bisogna avere il fisico da sparizione, il nuovo Papa ha una presenza piuttosto travolgente, a cui non intende rinunciare. Vuole luccicare per contrasto, con le sue scarpacce da prete dei poveri. Anche Giovanni Paolo II aveva orribili scarpe nere, probabilmente polacche, da cui non voleva separarsi mai, e a un certo punto le suore, che volevano a ogni costo buttarle via, raccontarono una bugia al Papa: finsero di averle perdute durante un viaggio, nella valigia sbagliata. “Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma, sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”, ha detto Jorge Mario Bergoglio, fiero e sereno dentro il suo abito bianco senza mozzetta e senza rocchetto, certo di essere al posto giusto e di volere offrire anche il suo corpo e il suo francescanesimo. Desideroso di diventare protagonista anche dando un calcio alle scarpette rosse e all’anello d’oro.

    Dopo gli anni silenziosi e liturgici di Ratzinger, doveva essere così. Ci voleva il bagno di folla, l’insofferenza alle regole, l’autobus, la mensa in cui ha fatto pranzare la sua detestata Cristina Kirchner, presidente dell’Argentina. Lui entra alla mensa e si siede dove capita, non nel posto del Papa. Ha bisogno di stare in mezzo alla gente, di salire su un autobus, di esserci, di sbuffare davanti alle restrizioni per la sua sicurezza. “Non sono un indifeso”, e vuole tutte le porte aperte, niente divisori, niente corde tra lui e i fedeli. All’occorrenza, saprebbe anche menare. Impossibile non venire conquistati dallo sfarzo della semplicità. Il primo Papa che ha rinunciato, nella sua prima apparizione pubblica, alla stola papale, il primo Papa sudamericano, il primo Papa gesuita, il primo Papa che si chiama Francesco, e ha per fratello il Sole e per sorella la Luna, il futuro Papa che già una volta si tirò indietro, perché non era il momento giusto, e risultò il cardinale più votato dopo Ratzinger. Ma questa volta, quando gli hanno chiesto, ed era l’unico cardinale entrato alla Congregazione per la Dottrina della fede senza papalina in testa, come intendeva chiamarsi, ha risposto senza esitare: Francesco. Significa ribaltare tutto, riprendere il corpo, tornare protagonista, come del resto è sempre stato. Mentre battagliava con i coniugi Kirchner a Buenos Aires sulle nozze gay e sulla corruzione, sulla povertà, mentre visitava gli ospedali dei malati di Aids e si inginocchiava piangendo e baciando povere gambe malate, mentre vietava ai fedeli argentini di andare a omaggiarlo a Roma, nel 2001, quando venne creato cardinale, e ordinò di distribuire i soldi fra la povera gente. “Il cardinale dei poveri”, come lo chiamavano a Buenos Aires, è abituato a stare al centro, ad agire, a fare a botte, come un prete di campagna, come un uomo del popolo che ha bisogno del corpo. Che prende in mano il telefono e chiama il centralino del Vaticano: “Pronto, sono il Papa”, “Certo, e io sono Napoleone”. Nessun Papa aveva mai chiamato il centralino. C’è un funzionario, c’è la segreteria, ci sono i mille filtri che chiedono al Papa di non essere un uomo, di non appartenere nemmeno a se stesso. Il vestito, del resto, è il simbolo di questa consacrazione, dell’abbandono totale di sé.

    Joseph Ratzinger si era docilmente sottomesso a questa tradizione, grato di non dovere esercitare fascino corporale, felice di non dovere cercare il consenso, e anzi aveva restaurato molte altre cose perdute: la debolezza messa a nudo, lo sguardo all’altare e a oriente. Un eccesso di senso che preparava, dentro pompa e circostanza, il gesto più assoluto e disadorno mai compiuto: la rinuncia. E dopo questo gesto, il Papa emerito ha chiesto umilmente di potere fare il bibliotecario: “C’è posto per me”, ha chiesto con la naturalezza di chi considera i libri una delle più grandi manifestazioni di senso. Difficile che permetteranno a un Papa emerito di fare il bibliotecario e lui si sottometterà anche a questa impossibilità, con la consapevolezza di avere però dimostrato la propria capacità di andare talmente oltre la forma da distruggerla per crearne una nuova: il Papa che scende dalla croce, e che va a passeggiare a Castel Gandolfo con addosso una giacca a vento troppo grande, incorporeo come era sempre stato, e aspetta (oggi) la visita del suo successore, del suo amico, dell’uomo non più uomo che avrà il compito, come san Francesco (che Ratzinger definì “un gigante della santità”) di ricostruire a mani nude. E allora servono mani grosse, abiti comodi, scarpacce da lavoro, e la pompa e la circostanza possono essere accantonate: il corpo torna protagonista perché, anche simbolicamente, questo Papa ha bisogno che lo si ami e che lo si aiuti, che si preghi per lui, come chiede spesso. Ha bisogno del consenso, dell’affetto fisico, dei bambini che gli sorridono, della tenerezza di cui parla, di un’ondata d’amore e di simpatia che gli permettano di percorrere una strada non facile senza vacillare. Ratzinger non ha mai cercato il consenso, perché rifuggiva l’io. Anche quando scriveva le sue riflessioni teologiche, metteva una postilla: queste sono le mie opinioni da studioso, non da Papa. E mentre studiava, non teneva indosso l’abito talare bianco, ma restava vestito da prete, perché solo in quel momento aveva un io, e poteva abbandonare la forma. In fondo, l’addio di Joseph Ratzinger, che voleva scomparire sotto il camauro per farsi soltanto verbo, è la riappropriazione di tutto ciò a cui aveva abdicato.

    Oggi, quando si incontreranno, Joseph Ratzinger e Papa Francesco potrebbero essere perfino vestiti entrambi di bianco, per la prima volta nella storia ci potrebbero essere due papi l’uno di fronte all’altro, mani nelle mani, un po’ buffi perfino nella loro totale e gentile diversità: un Papa che disse: “Me gusta el tango, è qualcosa che mi viene da dentro”, e un Papa che parla sottovoce con i gatti e vuole scomparire dentro i libri con il suo talento intellettuale. Un Papa che usa il trono per manifestare la trasformazione in altro da sé e anche la nostalgia di quando era bambino e sognava nelle chiese bavaresi, e un Papa che vuole “aprire le braccia per accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità”, e non ha intenzione di cambiare nulla di sé, nemmeno le scarpe, nulla del suo essere uomo fra gli uomini. Soprattutto i più poveri, indifesi, piccoli e deboli. Quelli che hanno un gran bisogno di qualcuno che faccia a botte per loro. Ratzinger lo faceva con la mente, con lo spirito, con la riflessione, e a un certo punto non ce l’ha fatta più e ha trovato il grande, umano coraggio di dire basta. Ma Papa Francesco è pronto a usare anche le mani.

    Matzuzzi L’incontro tra i due Papi è un gioco di specchi, ecco le differenze - Milani Mi piace il Papa povero, ho deciso che lascio tutto al Vaticano

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.