La grande riforma della curia à la gesuita nei pensieri di Papa Bergoglio
Riformare la curia romana sarà “un compito difficile”, diceva qualche giorno fa il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, già arcivescovo di San Paolo e prefetto emerito della congregazione per il Clero. La necessità di una “riforma strutturale” si era già avvertita nei giorni immediatamente precedenti il Conclave, quando più di un cardinale era intervenuto in riferimento alla gestione della curia negli anni in cui questa era guidata da Tarcisio Bertone, segretario di stato scelto da Benedetto XVI e confermato da Francesco “donec aliter provideatur”, finché non si provveda altrimenti.
de Mattei Re per diritto divino
Riformare la curia romana sarà “un compito difficile”, diceva qualche giorno fa il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, già arcivescovo di San Paolo e prefetto emerito della congregazione per il Clero. La necessità di una “riforma strutturale” si era già avvertita nei giorni immediatamente precedenti il Conclave, quando più di un cardinale era intervenuto in riferimento alla gestione della curia negli anni in cui questa era guidata da Tarcisio Bertone, segretario di stato scelto da Benedetto XVI e confermato da Francesco “donec aliter provideatur”, finché non si provveda altrimenti. Presero la parola in molti, chi per accusare l’ex arcivescovo di Genova di aver accentrato nelle sue mani troppo potere (come il prefetto per i Religiosi, il brasiliano Joao Braz de Aviz), chi per difendere i vertici della Santa Sede (come l’arcivescovo di San Paolo, Odilo Pedro Scherer, pastore con un passato di funzionario curiale alla congregazione per i Vescovi). Per cambiare ci vuole tempo, e per prima cosa il nuovo Pontefice “dovrà scegliere le persone adatte all’orientamento di una chiesa che sia quella che il Papa desidera, una chiesa missionaria, con più dialogo”, aggiungeva Hummes. Una chiesa che, come ha chiarito Francesco nell’udienza generale di ieri in piazza San Pietro, “vada a cercare la pecorella smarrita nelle periferie dell’esistenza”.
Jorge Mario Bergoglio, in questi giorni, studia le bozze che a suo tempo avevano preparato il cardinale Francesco Coccopalmerio, apprezzato canonista e presidente del Pontificio consiglio per i Testi legislativi, e il cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Autorità di informazione finanziaria. Un piano volto a razionalizzare la burocrazia vaticana, accorpando alcuni dicasteri e migliorando la cooperazione tra congregazioni e pontifici consigli. Al centro di tutto, il proposito di dare maggior peso alle conferenze episcopali locali “per uscire dalle secche del centralismo romano”, come più volte auspicato dall’ala del collegio cardinalizio riconducibile a Walter Kasper e Karl Lehmann. Francesco sa che la riforma della curia è una priorità, e nei suoi colloqui riservati tra Santa Marta e il piano nobile del Palazzo apostolico vaticano con i vari porporati prende nota delle esigenze e dei suggerimenti che gli vengono dati. Poi, però, decide in completa autonomia. E si starebbe convincendo che la bozza Coccopalmerio-Nicora non sia sufficiente: va approfondita e può essere solo la base su cui imbastire un più profondo ripensamento dell’organizzazione dell’intera macchina vaticana.
A quanto apprende il Foglio, il Papa vaglierebbe in questi giorni l’ipotesi di una riforma che ricalchi il modello organizzativo della Compagnia di Gesù: accanto al Preposito (la massima autorità della Compagnia) ci sono dieci assistenti nominati dalla Congregazione generale che coordinano gruppi di province omogenee per lingua e nazionalità. Seguendo questo schema, Francesco ridimensionerebbe la curia dando più peso agli arcivescovi residenziali. La macchina operativa vaticana, coordinata dalla segreteria di stato, rimarrebbe come struttura tecnica di raccordo tra i dicasteri e gli episcopati locali.
Non a caso, tra i progetti del Papa ci sarebbe anche il rafforzamento del ruolo del presidente del Governatorato della Città del Vaticano, carica oggi ricoperta dal cardinale Giuseppe Bertello, in prima fila per succedere a Tarcisio Bertone come segretario di stato. Oltre a ottenere quello snellimento della burocrazia su cui punta il Pontefice, si renderebbe di fatto permanente il Sinodo dei vescovi, come richiesto da ampi settori soprattutto non europei della chiesa fin dai tempi del Concilio Vaticano II, e che trovò nel cardinale Giuseppe Siri il più tenace oppositore (“Non so neppure cosa voglia dire lo sviluppo della collegialità episcopale. Il Sinodo non potrà mai diventare istituto deliberativo nella chiesa perché non è contemplato nella costituzione divina della chiesa”, diceva in un’intervista alla vigilia del secondo Conclave del 1978 che elesse Giovanni Paolo II).
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