Gli imprescindibili

Stefano Di Michele

Accorrete! Dai bar (ad happy hour avanzato e gradazione alcolica innalzata), li invocano. Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti. Dai tiggì e dalle pagine dei giornali. Dai boschi, dall’arse fucine stridenti. Dai dibattiti si levano appelli, dalle aule parlamentari sospiri, dai vicoli ciechi speranze – dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti incerti miraggi. Accorrete! A salvare la patria (salvare il salvabile)! A presiedere il decoro! A correggere le masse! Accorrete, voi che potete! Pensosi politologi, stimati editorialisti, ingarbugliati retroscenisti, tutto un grido e un allarme e una speranza: accorrete!

    “Canore moltitudini hanno tentato ogni mezzo / per adescarlo, rivolgendogli invocazioni rituali / profani appelli – nell’estasi, nell’angoscia, con o senza rispetto / le più clamorose rimangono inascoltate” (Carlo Emilio Gadda, “Poesie”, Einaudi)

    Accorrete! Dai bar (ad happy hour avanzato e gradazione alcolica innalzata), li invocano. Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti. Dai tiggì e dalle pagine dei giornali. Dai boschi, dall’arse fucine stridenti. Dai dibattiti si levano appelli, dalle aule parlamentari sospiri, dai vicoli ciechi speranze – dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti incerti miraggi. Accorrete! A salvare la patria (salvare il salvabile)! A presiedere il decoro! A correggere le masse! Accorrete, voi che potete! Pensosi politologi, stimati editorialisti, ingarbugliati retroscenisti, tutto un grido e un allarme e una speranza: accorrete! Come accorse il prof. Monti – adesso, manzonianamente e politicamente, ei fu: a valicar le Alpi, a pugnar per noi italici in terra d’Europa. Sono gli irrinunciabili, gli inderogabili, gli ineluttabili. Nebbia in Val Padana, scomparsa delle mezze stagioni, palla rotonda – e poi loro, marmorei e un filo già eterni, un principio di busto del Pincio incorporato: gli Imprescindibili. Non c’è conversazione su come andò che non li chiami a testimonianza; non c’è disputa sull’avvenire che non richieda una loro opinione. E nel caso, se possibile, se una degnazione si può suggerire, un loro interessamento benevolo alle tristi sorti nostre progressive. E’ un circolo esclusivo – altro che Caccia! altro che Scacchi! – scelte guardie nobili che spesso su un eremo alto sembrano voler poggiare le raccolte riflessioni, e dall’eremo, invece, il circondario scrutano attenti in attesa di spiccare il volo. E’ il più pregiato cenacolo d’Italia – blandito, venerabile, inespugnabile. Sempre il paese pare aspettarli, sempre al paese paiono voler parlare. Sono la cosa più vicina alla storia che si possa filtrare dalla cronaca.

    Ci sono politici, banchieri, giornalisti, storici, artisti. Blanditi a volte, a volte illusi. Condimento per lo scipito nostro quotidiano dibattere e incartarci. E’ la mossa del cavallo, la via di fuga, la strada inesplorata. Gli Imprescindibili – che spesso tali si ritengono, che a volte gli altri tali considerano: quando si è alla canna del gas, a un passo dal casareccio seppuku politico-economico-istituzionale, con i lanzichenecchi di Bruxelles alle porte. Persino per le eterne beghe radiotelevisive: luogo di costante nidificazione degli Imprescindibili è la Rai, dove periodicamente plana qualche esponente di quel magma indefinito e incorniciato che risponde al nome di società civile – senza, peraltro, che la stessa ne abbia sussulto o evidente mutamento: che padre Dante abbia a trionfare negli ascolti su “Lisa dagli occhi blu”, nonostante la caratura qualitativa e la montatura ottica della presidente Tarantola, in groppa all’indisciplinato cavallo direttamente catapultata dalla Banca d’Italia. Che risulta di gran lunga, il presidio di via Nazionale, la Casa Madre di tutti gli Imprescindibili nazionali, l’isola di Montecristo dove sempre spunta una cassa ricolma di preziose soluzioni alla condizione di dabbenaggine della ciarliera Babilonia nostra: dagli antichi Lamberto Dini e Carlo Azeglio Ciampi, al continentalmente lodato Mario Draghi, fino a Fabrizio Saccomanni, che Bersani avrebbe volentieri imbarcato nel suo governo – ne avesse avuto uno, di governo – fino al governatore attuale Ignazio Visco, che invocato si è garbatamente sottratto al gioco delle nomination: va a capire se con un riservato “non sum dignus” oppure un più accorto: non è aria. Perché sempre presenti, i più quotati tra gli Imprescindibili si fanno (finti) assenti – magari puntando a più acuta presenza, a generalizzata considerazione, come la gloriosa e operosa Mariarosa di un’antica pubblicità, “ogni cosa sai far tu / qui la vita è sempre rosa / solo quando ci sei tu”, e insieme solenni e posati come certi nobilissimi personaggi nei ritratti della pittura fiamminga: i nostri coniugi Arnolfini calati in una galleria degli specchi. Esiste una precisa graduatoria anche tra di loro – gli Imprescindibili certificati e quelli autonominati. Sul podio, per quanto riguarda la politica, c’è un terzetto che da decenni ciclicamente s’invoca, ci affligge e ci soccorre. Anche le condizioni pratiche (avendo l’imprescindibilità qualche problema con la realtà) rendono purtroppo spesso il loro approdo complicato: Giuliano Amato, Emma Bonino, Stefano Rodotà – che anche adesso largamente spaziano nelle pubbliche invocazioni come nelle più sognanti cronache.

    Amato è Imprescindibile da sempre, fin dai giorni della decadenza politica di Craxi, che a Oscar Luigi Scalfaro, propose per la sua successione: “Amato o De Michelis o Martelli, non solo per motivi di ordine alfabetico”. Quando la patria trema, quando la Borsa annaspa, quando i conti non tornano, Amato è la soluzione (ché una soluzione, comunque, Amato ha sempre): magari presunta, a volte reale. E così è perennemente sull’orlo di Palazzo Chigi, perennemente sull’orlo del Quirinale, e sul Corriere Galli della Loggia tra “i notabili a disposizione” lo pose. E intanto rivendica di non essere casta, tempesta di precisazioni i giornali che gli rinfacciano l’elevata sua pensione, precisa che il vitalizio parlamentare va in beneficenza (a farla corta, al netto delle maldicenze: circa 11 mila euro) – e  il mondo osserva, tra la sapienza dell’Enciclopedia Treccani e la benemerita “Fondazione Ildebrando Imberciadori”, mentre giustamente rivendica l’elezione alla “America Academy of Arts and Sciences”, di cui, per inciso, “pochissimi professori italiani fanno parte”. “Io, per cominciare, nella vita mi sono fatto largo con le mie forze e con le mie qualità”. E anche: “Non aspiro né a governi né a governissimi”. Ma intanto, ovunque uno schema si fa (e non c’è giornale che non ne faccia uno, anche se più o meno funzionano come le previsioni per il Conclave: un Bergoglio non lo becca nessuno), Amato fa capolino: di sinistra ma andrebbe bene pure al Cavaliere, sperimentato nel governare, persino nei programmi televisivi – pur se di molto ingegno e non troppa elevata audience. Enciclopedico – non solo in senso metaforico. Ad Amato l’affollamento negli schemini viene gagliardamente conteso da Emma Bonino – che nel suo sito esibisce una biografia sterminata, che abbraccia l’est e l’ovest, il sud e il nord, praticamente l’intero globo terracqueo. Emma piace, palesemente si piace; è molto considerata, opportunamente si considera. Se da un sondaggio fa capolino, ecco che il tormentone riparte, come fu per “Emma for President” (classico del ’99, con la singolare curiosità di una candidata al Quirinale che si presenta con uno slogan buono per la candidatura oltreoceano). Già l’anno scorso, portandosi avanti con il lavoro, dieci attori dieci firmarono un appello sul Corriere a sostegno per il Quirinale futuro, si è lasciato scappare qualcosina Monti in campagna elettorale, si passa quindi al solito setaccio e attruppamento di firme e dichiarazioni: la vuole il professor Pasquino, la intronizza Paolo Mieli su Sky, “la prediletta di Sandro Pertini”, c’è chi rievoca un Grillo di oltre quindici anni fa, “l’ultima romantica della politica”, a Radio Radicale figurarsi: tutto un coro e tutta una lamentazione sull’accoppamento della volontà popolare che il regime farà, se sulle indicazioni della Swg il Parlamento partitocratico non si instraderà… Emma è il condimento di tutto, il sale e il pepe e l’oliera, la sapienza e il merito, l’Urbe e l’Orbi, l’onestà e la capacità, l’invocazione costante: la donna, ah, meglio una donna al Quirinale!, e magari pure al centrodestra piacerebbe, magari il centrosinistra se la farà piacere, magari i grillini visto mai… E  terzo sul podio, matricola di fronte allo storico accamparsi degli altri due, il professor Stefano Rodotà. E’ il contingente che lo invoca, è Michele Santoro che lo issa a capo del governo, sono quelli di Articolo 21 che chiamati a sondaggio gli spalancano le porte del Colle – seguito da Gustavo Zagrebelsky (ché pure la Consulta comincia a farsi fama di enclave di Imprescindibili quale e come la Banca d’Italia, e qua e là s’intravedono nelle parate giornalistiche il professor Onida, perfetta istituzione per i pensosi programmi di Gad Lerner, e persino il più illustre di tutti, l’attuale presidente Franco Gallo); terzo, rieccola, Emma – con motivazioni che lo vedono “uno dei più acuti studiosi e interpreti della rete, dei suoi possibili utilizzi, della democrazia civica, della società aperta, capace di opporsi a censure, integralismi e oscurantismi di ogni natura e colore”. Rodotà, ovviamente, con garbo si sottrae, si scansa, si defila, “periodo ipotetico dell’irrealtà”, ma pure Prodi una volta lo voleva nientemeno che alla Federcalcio, e Scalfari lo vedeva candidato con l’ipotetica Lista Saviano, e comunque “alla mia età mi fa sinceramente piacere che qualcuno si ricordi di me” – che per inciso la sua età è ottant’anni esatti: perfetti per il Quirinale.

    Ovunque l’Imprescindibile si aggira, non solo nell’universo della politica – pur se è lì che il reputato servizio allo stato più chiaramente si palesa, che l’invocazione più alta si leva: è, il caos politico, condizione perfetta per la nidificazione e la moltiplicazione dell’Imprescindibile, è per quelle lande che la testa trasporta, quando addosso a tutti i muri è andata a sbattere e  tra le mani resta, dolente e vacante. Le consultazioni alla moviola di Bersani – tra cardinali e scrittori, preti e sociologi – sono state un grande saggio in diretta dell’ascesa, dentro il gran disordine, dell’Imprescindibile. A parte il clero in ogni forma e formato, dal cardinale Bagnasco a don Ciotti,  il segretario incaricato si è concesso due faccia a faccia con due personaggi che, sui giornali di questi giorni, come Imprescindibili di rango sono emersi: Roberto Saviano e Giuseppe De Rita. Il professore è, nel crogiolo dove l’imprescindibilità si agita e si mischia e si sottrae, quello che mostra maggior distacco e una certa ironia (sul Messaggero): “Vedo tutta questa galleria di faccine sui giornali e ci sta anche la mia tra i potenziali titolari di un dicastero. Un po’ mi vergogno. Mi fa impressione finire in quel pantheon”. E si sottrae, e la stessa imprescindibilità degli Imprescindibili mette così in discussione, ché il nuovo governo “non dev’essere composto da star della società civile, come quelle che vedo nelle strisce fotografiche… Adesso ci vogliono i manovali”. Ha una sua saggezza, l’uomo del Censis – sarà che a forza di transitare tra ciclo molecolare e società mucillagine e verticalità e pulsioni di massa ha visto abbastanza – e il pelo poco liscia all’onda attuale, perché “in fondo il popolo italiano non è un popolo meraviglio”, altro che l’infornata di generalizzata cittadinanza ove ogni coglione rischia di farsi genio o profeta, e anzi “è un popolo che tende a radunarsi nella piazza più stupida”. E che faceva, allora, con l’incaricato Bersani? “Un colloquio tra amici…” – e non bastava una birretta, di quelle che mestamente Pier Luigi si fa in solitudine? C’è da capire la diversa situazione di Saviano, che la gloria di “Gomorra” e il sostegno di Fabio Fazio hanno spinto nell’iperspazio a tre dimensioni: lo scrittore, il monologhista televisivo (piuttosto sotto, però,  la grandezza di Marco Paolini), il possibile politico. Pure lui Bersani ha visionato, nel più esclusivo casting d’inizio millennio, “un incontro prezioso”, beninteso, essendo Saviano ormai icona e planetario, il bravo e coraggioso e fascinoso ragazzo,  tutt’uno nella denuncia della ferocia oscena dei camorristi e nell’inebriarsi con i versi della grande Szymborska, “ascolta / come mi batte forte il tuo cuore” – e del cuor di Saviano non si sa, ma alle parole sue ascolto danno: quale certificazione di retto sentire sociale, quale sprono a far proprio il suo ardimento. Anche se con Fazio il rischio “Anima mia” un po’ incombe.

    Del “supermondo” che il professor Zichichi si affanna a cercare, sembrano gli Imprescindibili opportuni abitatori – creature che mai lo sguardo alzano, casomai benevolo a volte abbassano (sul circondario). E se forse c’è sempre un banchiere Passera nel nostro futuro – che pure l’imprescindibilità bancaria ha una sua costanza e un suo riproporsi – nel nostro presente c’è sempre un artista che alla causa altrui generosamente si presta. Tra tutti, negli ultimi mesi, ha fatto scuola e ha segnato il solco Adriano Celentano – da “Re degli Ignoranti” a “Sovrano degli Imprescindibili”, lui che quando cantava che “Chi non lavora non fa l’amore” di reazione, massima reazione!, fu accusato, per la trombata casalinga solo al volenteroso crumiro ingenerosamente riservata, e che ora tiene in palmo di mano ognuno che al cambiamento mira, e ogni suo proclama è come il rock, rombante e insigne, così che Repubblica un’intera paginata gli riserva, una distesa scalfarina di righe e ammonimenti – al coccolato Grillo, stavolta, restio a Bersani, e all’intero universo santoriano-travagliano-floresd’arcaiano (però, però…), con un paio di pugni in una carezza, da “cazzata” a “stronzata”, e con il meditativo levarsi su “una terra arida dal respiro ormai flebile”. Ma, oramai uscito dalla categoria degli Imprescindibili Franco Battiato – visto danzare dentro un eccessivo avvistamento di “troie” istituzionali fuori luogo e a legislatura sbagliata – c’è da dire di quello che è (che fu?, altro manzoniano dubbio) l’Imprescindibile massimo del nostro immaginario: Roberto Benigni da Vergaio: il premio Oscar, il poeta del corpo sciolto, il sollevatore di Berlinguer, il cantore-spiegatore dell’inno di Mameli, il lettore-spiegatore della Costituzione nostra – la più bella e la più lustra fra tutte – il recitatore-spiegatore della “Divina Commedia”, che proprio in queste sere disgraziatamente frana in televisione; ché a forza di sentirlo evocare, magari pure il “nervo teso male” di Brunetto Latini a un certo punto meno virilmente si erge. Ma di patrie virtù, pure all’estero esportate, è certo il Benigni esegeta e cantore e dicitore – tra presidenziali applausi e commossi tributi, non essendo certo, mediaticamente e quale Imprescindibile tra i più eletti, “di quella razza che tromba tanto poco”.

    Sul proscenio degli Imprescindibili,  una nuova figura s’avanza e una – a saggezza testata, a memorie scavate, a profonde considerazioni dedita – baldanzosamente resiste. La prima è quella di Fabrizio Barca, di cui ognuno loda scienza,  presenza e bella modestia. Pur senza troppo apparire – anzi: pur accortamente apparire – dedicandosi ministerialmente a faccende di assoluta necessità e lo stesso di riprovevole barbosità, è diventato l’hombre vertical che ognun brama, che tutto potrebbe fare tra gli optimates di sinistra, che a ogni appello e a ogni nobile opera saprebbe con ingegno presiedere. Così un giorno è ministro eccellente, un giorno sarebbe capo di governo esemplare, il dì appresso segretario democratico coi controcazzi, persino come sindaco della capitale di meraviglia far traboccare  l’intero Colosseo. E tutto insieme “empiendo l’universo di stupore”, come Leonardo quando progettava il volo. Uno che ha Cambridge nel passato, la storia del Pci nel passato ancora più remoto, che con dalemiamo coraggio pur senza dalemiano sussiego si definisce “comunista impenitente” – ha degli Imprescindibili una delle più pregevoli e richieste qualità: quella di non dover nulla dimostrare, avendo dimostrato di poter fare e sostenere quasi tutto. Tra tutti gli Imprescindibili, è Barca l’Imprescindibile teorico che forse più Imprescindibile reale si farà.

    E c’è Paolo Mieli – che mentre incrocia le mani e ascolta paziente, ha già l’occhio puntato su un preciso paragone tra la situazione in discussione e un evento che ebbe a verificarsi decenni fa: e con precisione ne spiega il contesto e con razionalità ne svela il rapporto. E’ l’Imprescindibile Mieli simile alla Miss Marple di Agatha Christie, l’arguta vecchina investigatrice che per ogni caso criminoso che si trova davanti scova esattissimo parallelo con un carattere umano del suo paesino di St. Mary Mead: fosse uno strangolatore da appaiare con il figlio del lattaio innamorato, fosse un avvelenatore da abbinare a un distratto vicario. Il radar di Mieli riporta a riva, come pezzi di un Titanic, una volta l’esecutivo Pella (mica a caso adesso di “soluzione Pella” si dibatte), un’altra il ministero Togni, un’altra ancora la presidenza Merzagora – così che sul buio dei giorni nostri cala l’alba dell’èra Rumor, e si capisce benissimo che, se solo volesse, Mieli potrebbe con vasto stupore appaiare l’attuale penare bersaniano a qualche evento dell’epica di Gilgamesh o la sorte di Anchise a quella della legislatura. Ha perfetta espressione dell’Imprescindibile saggio, di chi sa e sapienza conserva, dello scrutatore di arcani dimenticati. Persino fisiognomicamente evocativo, Mieli è l’Imprescindibile che a perfezione s’incarna nel pensiero di Confucio: “Studia il passato se vuoi prevedere il futuro”. Perché può dare una mano, all’occorrenza, persino l’esperienza di Guido Gonella e di Aldo Bozzi. Ché a prescindere, come sempre, sempre qualcosa di più l’Imprescindibile sa.