Come in una commedia di Aristofane? Magari.
I grillini al Parlamento
Neanche si può sperare in Aristofane, di fronte alla provvisoria e fallimentare conclusione della farsa (magari fosse commedia) dei “grillini al Parlamento”, entrati a Palazzo tre settimane orsono e immediatamente congelati dal Caro Leader: state fermi, non parlate, non mangiate, non bevete, non collaborate, basta che dite “no”, basta che non fate nomi, e se il nome lo fa Giorgio Napolitano decide la rete (cioè lui, Beppe Grillo) – e poi ci si meraviglia che Vito Crimi, nell’immobilità coatta, si addormenti. Ieri invece Crimi, uscito dal Quirinale, dopo aver riassunto l’ennesimo “o noi o niente” (senza nomi) poi rafforzato da Beppe Grillo in streaming, ha dato di “onorevole” alla collega Roberta Lombardi, e lei subito l’ha corretto: “Cittadina”, non onorevole (questa la dicitura a Cinque stelle, la casta si annida nei dettagli).
Neanche si può sperare in Aristofane, di fronte alla provvisoria e fallimentare conclusione della farsa (magari fosse commedia) dei “grillini al Parlamento”, entrati a Palazzo tre settimane orsono e immediatamente congelati dal Caro Leader: state fermi, non parlate, non mangiate, non bevete, non collaborate, basta che dite “no”, basta che non fate nomi, e se il nome lo fa Giorgio Napolitano decide la rete (cioè lui, Beppe Grillo) – e poi ci si meraviglia che Vito Crimi, nell’immobilità coatta, si addormenti. Ieri invece Crimi, uscito dal Quirinale, dopo aver riassunto l’ennesimo “o noi o niente” (senza nomi) poi rafforzato da Beppe Grillo in streaming, ha dato di “onorevole” alla collega Roberta Lombardi, e lei subito l’ha corretto: “Cittadina”, non onorevole (questa la dicitura a Cinque stelle, la casta si annida nei dettagli). “Siete delusi” dai Cinque stelle? “Avete sbagliato voto”, ha detto Grillo a chi, tra i suoi, chiedeva “perché no alla fiducia?”. E così, tanto per compattare il non-compattabile, ha raccomandato ai seguaci di “accompagnare con una carezza” i politici e i giornalisti da “mandare a casa” previo “accertamento fiscale” al prossimo giro (poi ha speso la buona parola per i precari della stampa che, “frustrati”, fanno la domanda sbagliata ai suoi portavoce). “Siamo la Rivoluzione francese senza ghigliottina”, è il grido di battaglia del Grillo giacobino. Ma il giacobinismo dei suoi si è già ridotto a forsennato (e silenziato) taglio di testa reciproco prima ancora di tagliare la testa al re.
Almeno Aristofane, per le sue “Donne al Parlamento”, prevedeva lo scivolamento finale dell’utopia grottesca in un banchetto, grande e liberatorio banchetto. Ma qui nemmeno il banchetto è possibile, ché nei ranghi grillini persino la joie de vivre è bandita – e come si fa, se la rete ti contesta financo il tramezzino, per non parlare del pranzo incauto del deputato Adriano Zaccagnini al ristorante della Camera (orrore, hanno detto i censori internettiani) e dei mille e passa euro di benzina rimborsata al vicepresidente grillino dell’Assemblea regionale siciliana Antonio Venturino, per una macchina fantasma: aveva detto “non ce l’ho”, dopo aver preannunciato spostamenti in autobus in perfetto stile “decrescita felice” – invece, altro orrore, dice prima di tutto il Web (ma Grillo dà la colpa ai giornali), Venturino ha preso l’auto blu, e peggio per lui se ha ritenuto che con mezzi propri fosse impraticabile la strada per le Americhe, e cioè per l’ufficio del console americano dove andava a discutere la storia del sistema radar militare bloccato dai “niet” grillini (tre ferrovie?, a piedi? come faceva? ha solo preso l’auto di servizio, ha detto Grillo per difenderlo, con il buonsenso che in bocca agli altri diventa subito “inciucio”).
Il sonno della ragione, il virtuosismo dell’inconcludenza corrucciata, il Movimento imprigionato come la principessa nella torre dove si ripete “o tutto o niente”, il collettivo universitario elevato a modello di gestione dello stato, con deputati e senatori che, come si legge sul “diario di un grillino” pubblicato ieri dall’Espresso, ogni volta che aprono Twitter devono rispondere immediatamente, in cinque minuti, anche nottetempo, altrimenti qualcuno dal pubblico subito scrive vergogna, “sei come loro”: su questo clic parossistico si regge la rappresentazione plastica di un’utopia che vira in paranoia del “no” (e se poi arrivano gli pseudo-tecnici?, si chiedevano ieri i grillini, prima di salire al Quirinale, anche se poi Grillo, alla parola “pseudo-tecnico”, invocava “cure neurologiche”). Hai voglia a dire compatti: ci si rinserra in gruppi ermetici dove qualcuno, per tirare su il morale delle truppe, gira video volenterosi per il presidente della Repubblica (“mettici alla prova”, dicono gli aspiranti a Palazzo Chigi, come fosse la vigilia del saggio di fine anno, e invece chiedono di “governare”. Solo che c’era chi voleva governare pure con gli altri).
Regna sovrana, su deputati e senatori sempre in bilico tra il “facciamo noi” e il “fate voi così vi mandiamo a casa”, l’assemblea permanente che decide quello che è già stato deciso ai vertici. Domina il ritornello dell’“ognuno vale uno” valido soltanto per due, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, e per i loro emissari-capigruppo. Nel dubbio, si può sempre cacciare. Ed ecco che in molti vorrebbero cacciare chi, al Senato, ha votato Pietro Grasso (anche se si è deciso, per stavolta, di perdonare), e cacciare la senatrice toscana Alessandra Bencini perché ha detto al Corriere che Pier Luigi Bersani non è poi così invotabile, e cacciare la capogruppo Roberta Lombardi per eccesso di dispotismo nel regno dell’orizzontalità, e cacciare (ancora prima che arrivi) il cameraman Nick il Nero, troppo casaleggiano per i non casaleggiani, e cacciare il senatore Marino Mastrangeli, quello che è andato da Barbara D’Urso, ma non tanto per la trasgressione alla regola aurea del “no ai talk-show”, quanto perché, sospettano il Web e l’indistinto mare di colleghi, vuole avere “l’alibi” per farsi espellere e andare così nel gruppo misto, a intascare per intero lo stipendio decurtato – che poi Mastrangeli dalla D’Urso è apparso, sì, ma con un piede mezzo fuori, accettando di rispondere solo alla conduttrice (se uno dallo studio fa una domanda è già talk-show).
Li ha pensati come niente e nulla, i suoi attivisti, Grillo, intercambiabili, e ora che pure il nulla si sgretola l’assurdo dilaga nel corpaccione del Movimento che il pensoso e rarefatto Gustavo Zagrebelsky, nome caro ai Cinque stelle per qualsiasi carica, vorrebbe studiare con gran distacco, tra l’11 e il 14 aprile, dalla Biennale della Democrazia, in quel di Torino: “L’idea della sovranità immediata e individuale del singolo distruggerà la politica a favore di qualcosa che per ora non si sa cosa sia? Oppure questi strumenti possono essere usati per rinvigorirla, renderla più responsabile e consapevole?”. Solo che di “responsabile” e “consapevole” c’è poco, nell’insistenza delle matricole sul “noi siamo lo stato, noi siamo le parti sociali, noi siamo la stampa” (Beppe Grillo intanto vuole chiudere l’Unità per i titoli di “propaganda”, e per molto meno, da piazza San Giovanni, gridava di voler tagliare pure il Foglio: “Zac!”). Poi però gli autarchici escono dal Web e cenano da Giggetto, e lo trovano anche abbordabile. Quanto sei bella Roma, pensano, mentre partono per Pasqua (la rivoluzione può attendere) e si chiedono perché mai le schede bianche “facciano schifo quando le vota il Pd ma siano fighe quando le votiamo noi” (sempre dal diario di un grillino anonimo sull’Espresso).
Sarà pure l’età dei neoeletti, troppo omogenea – quasi tutti trentenni e quarantenni – a spalancare davanti alle pattuglie grilline il buco nero dell’autosufficienza, e onnipotenza, come unica soluzione ai mali del mondo (Roberto Volpi, su questo giornale, ha scritto: “C’è da chiedersi come possa una tale uniformità di segno giovanilistico intepretare in qualunque modo l’insieme della popolazione italiana che, come tutti sanno, è una popolazione vecchia”). Ma non basta la giovane età a spiegare il delirio del quotidiano disgregarsi del modello d’impresa politica sognato da Grillo e Casaleggio, puristi del “noi buoni, voi casta” a dispetto dei parlamentari grillini visibilmente lusingati dall’incarico nel Palazzo della casta e dalle lodi della presidente della Camera Laura Boldrini (come il deputato Alessandro Di Battista dopo l’intervento sui Marò).
Caro Grillo, se ti inalberi addio tsunami, dicono sconsolati Fiorella Mannoia, don Gallo, Paolo Flores d’Arcais, Adriano Celentano e persino Antonio Di Pietro, dall’alto del suo partito ormai sciolto ma comunque sopravvissuto per quattordici anni tra proverbi, trattori e slogan manettari – sopravvissuto per uso di mondo e per ambizione del magistrato contadino, e chissà se Grillo e Casaleggio si ispireranno a lui, ora che l’esercito di Visitors che hanno spedito in Parlamento perde le squame a velocità supersonica.
L’orgoglio del ruolo e il normale buonsenso hanno già minato le fondamenta del castello a Cinque stelle: qualcuno si è stufato di pensare con la testa altrui (quella che manifesta i suoi pensieri con rabbia oracolare dal blog); qualcuno non ne può più di chiudersi in ascensore quando passano i giornalisti; qualcuno vorrebbe uscire dal perenne “no comment” che copre l’attesa di nuove istruzioni; qualcuno, magari, vorrebbe pure cazzeggiare. E invece il parlamentare a Cinque stelle, nella sua camicia di forza, neppure deposita proposte di legge (problemi tecnici, dicono) mentre Grillo dice che il Parlamento deve legiferare acefalo, senza governo o con Monti in “prorogatio”, come consiglia l’intellò di riferimento, il professor Paolo Becchi da Genova. Il paese va a scatafascio, il paese si salva, che importa? Grillo gioca a nascondino con l’autista mascherato al posto suo, fa finta di scappare dalla casa al mare, si diverte a parlare di politica in crisi “da psichiatria” e se ne resta ben avviluppato nella sua hybris: “Ma come, siamo qui e non facciamo nulla, non sarà superbia?”, gli dicono i gentili oppositori che lui chiama “trolls” ma che si materializzano ormai anche con lettere aperte (tipo quella segnalata dall’Huffington Post e firmata dal consigliere comunale veneziano Gian Luigi Placella, grillino dubbioso che scrive: caro Beppe, “abbiamo creduto alla democrazia diretta”, ma la voce del Web “non arriva” ai nostri eletti, non è “tempo di proclami e dogmi”, “tendiamo la mano a chi la tende a noi”. Solo che se Grillo tende la mano è finito, e con lui tutto l’esperimento di democrazia diretta che più eterodiretta non si può, con i suoi ragazzi già illanguiditi dalla prospettiva di “far qualcosa per il paese” in Parlamento (i parenti e gli amici a casa guardano e non capiscono il perché di quei “no” a tutto). Ma far qualcosa ora non si può, neanche da soli, quasi quasi, perché appena muovi una pedina frana tutto il Movimento, con le sue parlamentarie tra pochi intimi (eletti con cento clic), da replicare ora per i nomi da lanciare verso la presidenza della Repubblica, e la paura di deragliare dal solco disegnato dal monarca assoluto (altro che giacobino) che un giorno fa il turista al Quirinale mentre dice “mi è piaciuto Napolitano” e il giorno dopo, per compattare, detta il verbo del “governiamo da soli”, poi ripetuto a Bersani dai capigruppo sotto streaming. Ma è come nella vecchia pubblicità dell’idraulico che appena tappa un buco ne vede altri centomila aprirsi sulla parete: pure lo streaming, specchio di non-verità, si ritorce contro, mostrando improvvisamente l’anima compiaciuta del nuovo narcisismo grillino. E siccome gli attivisti a Cinque stelle delusi (sempre “trolls”, per Grillo) sono andati all’arrembaggio del blog unico delle coscienze, l’ex comico, al livello minimo di autoironia, per tenere uniti i suoi se l’è presa con i “padri puttanieri” (i partiti). E però a questo punto, con permesso, di fronte alla scena dei portavoce teleguidati fin sulla soglia del Quirinale, con l’ennesima assemblea dove si ratificano preventivamente linee ipotetiche, Grillo dovrà guardarsi anche un po’ dallo sputtanamento del suo, di partito. Anzi “non partito”, con “non statuto”; non-partito e non-azienda, e pazienza se tutto ricade sotto l’occhio di una fiorente azienda di e-commerce.
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