Assedio a Bersani

Claudio Cerasa

Ampie intese, già, ma con chi? Le parole offerte ieri da Bersani durante la prima uscita da presidente del Consiglio incaricato non risolutivo e dunque commissariato hanno confermato che da qui alla prossima elezione del capo dello stato la linea del centrosinistra rimarrà identica a quella illustrata tre settimane fa durante la direzione del Pd: niente inciuci con il centrodestra, niente patti con il Caimano, niente scambio Palazzo Chigi-Quirinale, niente governissimo, niente larghe intese, sì al governo del cambiamento e sì al tentativo di trovare un canale estremo per dialogare con i grillini.

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    Ampie intese, già, ma con chi? Le parole offerte ieri da Bersani durante la prima uscita da presidente del Consiglio incaricato non risolutivo e dunque commissariato hanno confermato che da qui alla prossima elezione del capo dello stato la linea del centrosinistra rimarrà identica a quella illustrata tre settimane fa durante la direzione del Pd: niente inciuci con il centrodestra, niente patti con il Caimano, niente scambio Palazzo Chigi-Quirinale, niente governissimo, niente larghe intese, sì al governo del cambiamento e sì al tentativo di trovare un canale estremo per dialogare con i grillini (che anche ieri, rispetto all’ipotesi fiducia a un governo Bersani, hanno mandato a quel paese il Pd). Risultato: le uniche novità messe sul piatto ieri da Bersani riguardano l’aggettivo “disastroso” usato per inquadrare lo scenario delle elezioni subito e la necessità di trovare “ampie intese” per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Già, ma con chi? Il tema non è secondario perché l’elezione del capo dello stato sarà decisiva per capire quante sono le possibilità che nasca un nuovo governo e che si evitino elezioni nel breve periodo. Bersani ieri, pur ribadendo che la Costituzione ci impone di cercare grandi convergenze per le prime tre votazioni per il Quirinale (dalla quarta invece occorre la maggioranza relativa), ha detto di essere disposto a un atto di “corresponsabilità”. Ma nel Pd l’impressione condivisa da un largo fronte del partito è che la linea del segretario sia in realtà la strada più rapida per arrivare a quelle elezioni minacciosamente evocate dallo stesso Bersani. “Il punto – spiega un parlamentare lettiano – è che se Pier Luigi continua su questa linea rischiamo di rincorrere ancora Grillo e di scegliere un presidente che ci permetterà non di far partire un governo ma di andare con la coscienza pulita alle elezioni”. Tutto già scritto dunque? La posizione di Bersani è questa. Ma dietro questa posizione sta emergendo una nuova linea, non minoritaria, che sta trasformando il Pd in una pentola a pressione.

    Dal preciso momento in cui venerdì sera Enrico Letta è uscito dalle consultazioni al Quirinale con quel suo “non mancherà il nostro appoggio alle decisioni del presidente della Repubblica” nel centrosinistra sono infatti cambiati gli equilibri e all’interno di quella pentola a pressione chiamata Pd si è indebolito il fronte “o Bersani o morte”. E in un certo modo anche il segretario – che ieri per la prima volta ha detto di essere pronto a farsi da parte se dovesse rendersi conto di essere l’ostacolo alla formazione di un governo – negli ultimi giorni ha capito che sotto il coperchio del Pd c’è una bomba pronta a esplodere. “L’elezione del presidente della Repubblica – dice al Foglio il deputato renziano Matteo Richetti – sarà lo spartiacque per capire che fine farà la legislatura. Se ci saranno prove di forza, le elezioni saranno più vicine. Se ci saranno prove di dialogo, un governo sarà possibile. E in questo senso non ho difficoltà a dire che se la candidatura di Prodi verrà utilizzata come una clava per certificare l’incomunicabilità col centrodestra significherà una cosa: che non si vuole un governo e si vogliono le elezioni”.

    Nelle prossime ore il partito del dialogo (Letta, Franceschini, Renzi, D’Alema, Veltroni, Fioroni, Bindi) difficilmente romperà con il segretario – e se lo farà, lo farà in modo soft, magari suggerendo il nome di Bersani per la presidenza della Repubblica, ipotesi indicata ieri persino dall’Unità – ma cercherà più che altro di agire seguendo un doppio binario. Da un lato provando a convincere Bersani che l’unico modo per far partire il famoso “governo del cambiamento” è imporre un cambiamento di rotta alla strategia del Pd. Dall’altro tentando di mettere insieme le forze alternative a Bersani per “scongiurare” la ricandidatura del segretario e garantire una sicura e condivisa alternativa nel caso in cui la situazione dovesse precipitare verso il voto (il nome è quello di Renzi). Difficile dire se il partito del dialogo riuscirà a convincere Bersani a trattare col centrodestra. Impossibile invece non registrare come ieri all’interno del partito del dialogo qualcuno abbia considerato un successo l’aver costretto il segretario a promettere un incontro con Berlusconi. “Ci mancherebbe – dice al Foglio un importante esponente Pd non bersaniano – non è un trionfo, è solo un piiiiccolissimo passo. D’altronde un governo serve, e non possiamo dimenticare che basta un fiammifero sui mercati per incendiare l’Italia. La strada giusta è questa. E chissà che anche Pier Luigi non capisca quanto sia rischiso continuare a perdere tempo e mettere a rischio non solo il Pd ma anche l’intero paese”.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.