Inchiesta sull'inchiesta
Chi c'è dietro i giornalisti che hanno svelato la lista dei “peccatori fiscali”
La stampa l’ha definita la “Wikileaks dei paradisi fiscali”. Ma è un’espressione di comodo per descrivere l’inchiesta condotta dal network globale di giornalisti dell’International consortium of investigative journalists (Icij), con sede a Washington, che ha rivelato all’opinione pubblica i nomi di governanti, dittatori, ricchi ereditieri, dentisti, commercialisti, mercanti d’arte che custodiscono parte della loro ricchezza in 120 mila società offshore che, per loro natura, garantiscono l’anonimato (modello Cayman). Le differenze tra l’Icij e l’organizzazione di Julian Assange vanno dalla mole di dati selezionati alla preparazione delle inchieste, fino alle modalità di finanziamento del lavoro investigativo.
La stampa l’ha definita la “Wikileaks dei paradisi fiscali”. Ma è un’espressione di comodo per descrivere l’inchiesta condotta dal network globale di giornalisti dell’International consortium of investigative journalists (Icij), con sede a Washington, che ha rivelato all’opinione pubblica i nomi di governanti, dittatori, ricchi ereditieri, dentisti, commercialisti, mercanti d’arte che custodiscono parte della loro ricchezza in 120 mila società offshore che, per loro natura, garantiscono l’anonimato (modello Cayman). Le differenze tra l’Icij e l’organizzazione di Julian Assange vanno dalla mole di dati selezionati alla preparazione delle inchieste, fino alle modalità di finanziamento del lavoro investigativo. L’inchiesta “Secrecy for sale” nasce ufficialmente quando Gerard Ryle, direttore dell’Icij, riceve per posta un hard disk (una memoria elettronica) contenente circa 2,5 milioni di file da setacciare.
La genesi dell’inchiesta è stata “un po’ più delicata”, dice al Foglio chi ha seguito il caso. Nel giugno del 2012 una quindicina di giornalisti membri del consorzio, lo zoccolo duro, viene convocata a Washington. Il gruppo decide che la prossima investigazione si farà sui “paradisi fiscali”. Non è chiaro se all’Icij fossero già in possesso dei dati, ma “è molto probabile che sia così”, dice la stessa fonte. La macchina si mette in moto: vengono scelti i giornalisti con cui lavorare per posizione geografica e per competenza e, di conseguenza, i giornali cui affidare la pubblicazione dei leaks (le soffiate). Per l’Italia, il settimanale l’Espresso. L’archivio da scrutare è 160 volte più grande di quello ottenuto da Wikileaks: 260 gigabyte contro 1,64. E “diversamente da Wikileaks – si legge sul sito Icij – i dati degli offshore non sono organizzati o puliti”. Il dossier infatti contiene informazioni sotto diverse forme: fogli elettronici, lettere, mail, foto di documenti. Dati che sono poi stati trasferiti in un database per essere analizzati e incrociati al fine di ottenere una mappa complessiva di società anonime e di persone a esse riconducibili. Un lavoro da nerd davanti allo schermo del computer che in gergo si chiama “data journalism”. E’ durato più del solito, circa un anno (in media le inchieste collettive del consorzio durano dai tre ai cinque mesi), con diverse difficoltà nella verifica delle informazioni dal momento che i prestanome (spesso sempre gli stessi) sono la prassi quando si parla di “paradisi fiscali”. La durata e il numero dei giornalisti coinvolti, 86 da 46 paesi – mai così tanti –, ne fanno l’investigazione più grande della storia e anche la più costosa per il collettivo washingtoniano, che ufficialmente si descrive come “organizzazione no profit”. In alcuni casi le inchieste vengono finanziate da altre ong: l’operazione “Tonno rosso”, sulla scomparsa del prezioso pesce per via della pesca intensiva, è stata finanziata dall’associazione ambientalista olandese Adessium. L’International consortium of investigative journalists è in realtà un’emanazione del Center for public integrity, organizzazione che si batte per la trasparenza nella politica, nell’economia e nelle istituzioni. Il Centre for public integrity è l’associazione madre e viene sostenuta da fondazioni benefiche gestite da ricchi americani. Grazie a un regime fiscale agevolato (in codice: 501, c), la donazione all’associazione si traduce in molti casi in uno sgravio contributivo. Donare, insomma, conviene. L’ultimo bilancio disponibile (2011) del Center mostra però che le spese hanno superato le entrate, determinando un “buco” per l’anno fiscale di circa 4 milioni di dollari. Tra i finanziatori spiccano il magnate George Soros e il Rockefeller brothers fund (fondato dai figli di John Davison Rockefeller Jr., successore alla guida dell’impero del padre, lo storico petroliere americano). E’ singolare che la rivelazione dei paradisi fiscali di ricche famiglie straniere sia sostenuta da altrettanto ricche famiglie americane. Tra le tante, sono state toccate persone come Carmen Thyssen-Bornemisza, vedova del miliardario fondatore delle acciaierie Thyssen, oppure Ilham Aliyev, il potente oligarca presidente dell’Azerbaigian, paese che alla fine dell’Ottocento ha lottato con i Rockefeller per la spartizione del greggio del Caspio.
Il “paradiso” è in Asia
Dall’inchiesta emerge anche che i paradisi fiscali sono ormai “volati” in Asia. Ad esempio, nella lista del trust offshore Port Cullis, i clienti americani sono 4.000, quelli europei 1.300, quelli asiatici (Hong Kong, Singapore, Taiwan) sono “tra i 45 e i 77 mila”. Significa che la ricchezza si sta spostando in Asia. In ogni caso, la pubblicazione delle informazioni è appena all’inizio – solo il 2 per cento è stato reso noto – e continuerà nelle prossime settimane, secondo i ritmi decisi a Washington.
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