Compagno Gattopardo
Confessatelo, vedete la parola “Gattopardo” e vi scappa da dire: “Diocenescampi, basta!”. Basta, è vero, basta più. Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa è ormai un automatismo e non c’è sussiego in tema di società, costume e politica che – con gli occhi al cielo – non concluda infine ogni blabla con la smorfia definitiva: “Proprio così, è gattopardesco tutto ciò”.
Confessatelo, vedete la parola “Gattopardo” e vi scappa da dire: “Diocenescampi, basta!”. Basta, è vero, basta più. Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa è ormai un automatismo e non c’è sussiego in tema di società, costume e politica che – con gli occhi al cielo – non concluda infine ogni blabla con la smorfia definitiva: “Proprio così, è gattopardesco tutto ciò”.
Abbiate pazienza, ancora un attimo: qui nessuno dirà che dopo i gattopardi verranno le jene, gli sciacalli e i cani di “mannara”. Siamo pur sempre vecchi, vecchissimi, tutto ciò che odora di morte ci appartiene ma non si ripeterà, con Tancredi, che tutto cambia per non cambiare, no.
Seguiteci ancora per qualche riga e capirete perché facciamo nostro il fasto sbrecciato di un mondo che non c’è più: per scoperchiare un capitolo della nostra identità e capire tutti insieme cosa fummo fino ad appena ieri quando di un romanzo di “destra”, qual è quello di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, grazie a Luchino Visconti, la macchina culturale nazionale poté ricavarne un successo di “sinistra”.
Ecco, fate mente locale sulle coppie che ancora ballano mentre l’orchestra è stanca, il pavimento è sporco e i capelli delle signore sono ormai in disordine. Osservate in dettaglio i boccolotti da cocker di Concetta, la figlia dolcissima del principe Salina, sfregiata dal rancore verso il cugino. Guardate adesso Angelica, ovvero Claudia Cardinale. Ha il suo broncio tutto velato di bianca biacca e il conte Visconti le insegna il modo migliore, in assenza di rossetto, per darsi un po’ di rosso intorno al sorriso: “Mordi le labbra, mordi…”.
Ci sarà da ragionare in questo articolo intorno alla destra e alla sinistra ma leggendo il libro di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice – “Operazione Gattopardo, come Visconti trasformò un romanzo di destra in un successo di sinistra” (edizioni Le Mani, euro 20) – un vero colpo di scena, lo ricaverete con una rivelazione di natura sentimentale: Tancredi, in realtà, pur sposando Angelica, Concetta non l’aveva mai dimenticata…
Perdonate la parentesi ma l’amore è tiranno, padrone d’infiniti capricci. Qui non si cede alle svenevolezze ma eros vince sempre, vince sempre chi fugge e così via e però è il cortocircuito destra-sinistra l’argomento più urgente da discutere perché poi, anche le “lucherinate” del grande Enrico Lucherini, intervistato dagli autori, tra le tante perle offerte (“arredatore”, così il press agent dei divi definisce Visconti), ce n’è una che proprio ci fa sobbalzare: “Trombadori non sapeva scrivere di cinema, però forse Visconti gli faceva leggere la prima stesura e lui gli dava dei cambiamenti: qui puoi mettere questa cosa, qui questa… Però proprio ‘Il Gattopardo’ era molto legato al romanzo. Che è anche un romanzo di rottura”.
Attenzione, adesso sobbalziamo: “Perché la parte di Serge Reggiani”, racconta ancora Lucherini ai due autori del saggio, “è la parte di un uomo di sinistra; anche quando arriva Chevalley lì secondo me è intervenuto Trombadori”.
“A un certo punto”, racconta Mino Argentieri, “nei film di Visconti ci sono battute che si capisce sono scritte da Trombadori”. Argentieri fu il primo recensore del film “Il Gattopardo”. Ma fu una recensione particolare. La fece sulla base della sceneggiatura, ancora prima che iniziassero le riprese. Uscì su Rinascita, la rivista del Partito comunista, dunque fu un esempio di embedded journalism ma con rispetto parlando, al netto delle operazioni di editing apportate da Antonello Trombadori, proprio il personaggio di Ciccio Tumeo, il guardiacaccia e organista dei Salina, interpretato da Serge Reggiani, sembra più Julius Evola che un “uomo di sinistra”. Ed è un dio reazionario quel Tumeo, non c’è dubbio alcuno, ma se l’armonia di pubblico e di critica lo certifica “di sinistra” vuol dire che l’operazione di trasformazione è più che riuscita.
Un calcolo giunto a buon fine. Merito anche alla grazia giocherellona dell’autore del romanzo, Tomasi di Lampedusa, che diede il meglio di sé nelle lezioni di letteratura francese e inglese, nei racconti e nelle lettere ai cugini Piccolo di Calanovella (meritatamente portate alla luce da Marcello Dell’Utri). Unico, poi, il principe, nel suo profondere cinismo e malia alle signore. Tutte donne da “pane bianco”. Ma è il Gattopardo in sé una sorta d’essenza alchemica solidificatasi tra le croste delle ideologie morte appena ieri. Il libro, infatti, è proprio un gioco costruito intorno al capriccio di Tomasi di Lampedusa: quello di mettersi in gara con Lucio Piccolo, il poeta della luna affacciata su Capo d’Orlando. Leggenda vuole che la voglia gli sia venuta nel 1954, a un incontro di poesia organizzato dalla Mondadori a San Pellegrino dove si recò come accompagnatore del cugino, e questa storia di sovrapporre tra libro e sceneggiatura, memorie e allusioni, Risorgimento e Resistenza, Aristocrazia e Lotta di Classe, la fedeltà a Sua Maestà il Re Ferdinando (dettata dalla decenza se non proprio dall’affetto) e l’obbedienza al Partito comunista, altro non è che un groviglio risoltosi nella semplicità di due vasi comunicanti.
L’oro che si fa piombo. E viceversa. Un’operazione impossibile con “Contro-passato prossimo” di Guido Morselli, con “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, con “I Viceré” di Federico De Roberto; un’operazione riuscita, invece, con il libro del principe palermitano, grazie al genio di uno stalinista milanese, già forgiato dall’educazione d’antica nobiltà, obbligatoriamente cattolico, abituato ad avere il gesuita in casa, capace di fermare le macchine da presa solo per riempire di ventagli, tovaglie di lino e posate i cassetti dei mobili che non sarebbero mai stati aperti durante le riprese e per sistemare personalmente la piega dell’abito di Angelica.
Il piombo che si fa oro. E viceversa. Come per sporcare coi segni della notte inoltrata (memore di ciò cui s’era abituato da bambino osservando gli ospiti) la celebre scena del ballo, con tutti i segni sul pavimento, le colature della cosmesi, gli strass per terra, gli scialli impiastricciati di stanchezza e le sensualità disperate, svelate negli sguardi, al colmo di solitudine e disillusione. Come quando a Concetta, interpretata da una struggente Lucilla Morlacchi, suggerisce un muto guardare in su, un sottinteso per dire: “Chissà cosa stanno facendo adesso Tancredi e Angelica?, scruta il soffitto…”. E quel musetto ferito di Concetta, rivolto verso tutto quel vuoto, quell’ansia, quella disfatta d’amore che è già presagio della rovina di un casato, di un censo e della storia…
Il cinema, e non solo il cinema di Visconti, per mano di Trombadori, è il grande romanzo dell’Ottocento, l’affresco trasposto nella pellicola è il racconto dell’epoca. “La cinematografia è l’arma più forte”, per dirla con Benito Mussolini (e tutti questi protagonisti del cinema, e Citto Maselli lo riconosce dialogando con i due autori, sono tutti debitori di Cinema, la rivista del regime), tutto ciò che il fascismo non poté portare a compimento viene risolto – vasi comunicanti? – dal fascismo. E il cinema nella stagione di Luchino Visconti è l’industria che sovrintende all’egemonia culturale, l’ortodossia e la fabbrica del successo a cui rivolge un altolà di protezione e di ferreo controllo Palmiro Togliatti, sempre attento ai dettagli, alle sfumature e alle sceneggiature, anche per tramite di Trombadori e di Pietro Notarianni. A Visconti, “che gli piaceva dire che era di sinistra”, ricorda Lucherini, “mentre versava uno champagne”, Togliatti offre una totale protezione già nel 1948 quando Rinascita sta per pubblicare una stroncatura di un allestimento teatrale. C’è sempre il fatto di tutto quel cachemire, di tutta quella seta e quei cappotti di casentino in contrasto con la nazione proletaria, Togliatti però parla chiaro: “Sono contrario che, per un dissenso sulla rappresentazione di una commedia di Shakespeare – tema opinabile, in sostanza – noi accusiamo un intellettuale nostro amico e di tendenze progressive di essere niente meno che a capo della reazione. Scrivendo così, ci facciamo ridere dietro e facciamo ridere dietro al marxismo”.
Tutto un viceversa di “cause ed idee” in Visconti. Suso Cecchi d’Amico, a suo tempo interpellata, a proposito dell’amico raccontava “di cause e idee che non gli venivano dal cuore, ma dalla ragione”. Un “comunista”, scrivono oggi Anile e Giannice di Visconti, “talmente allineato da non sentirsi degno neanche di chiedere la tessera”. A quel tempo, come si legge nel testo in appendice al libro di Anile e Giannice, l’omosessualità era un problema per il Pci, erano solo dei “pederasti”. I comunisti si distinguevano per il decoro, le loro ragazze non fumavano in pubblico e non calzavano i pantaloni. Nel dicembre del 1945 Luigi Longo, al congresso provinciale romano, si raccomanda: “Non indossate maglioni, meglio la cravatta”. Quando si racconterà la storia d’Italia, quella a noi più vicina, quella di ieri, ci sarà questo libro assai più utile di tutti i resoconti parlamentari per capire un passaggio politico-culturale. E sarà il capitolo del viceversa.
Il viceversa di “cause ed idee” porta il Pci ad adottare “Il Gattopardo” per tramite di Visconti. Visconti, nella sua natura anfibia di aristocratico e, al contempo, obbediente al partito dei contadini e degli operai, riesce in virtù di un ribaltamento esistenziale. Mostrandosi comunista fece qualcosa “sull’onda di una voga”, questo è certo, ma siccome troppo sfacciati sono i suoi lapsus rivelatori – l’apoteosi sarà in uno dei suoi film successivi, “La caduta degli dei”, che lo restituirà all’estetica nazionalsocialista – perfino nella sua dimensione interiore, dunque erotica, non possiamo non sottolineare questa battuta, felicissima di Lucilla Morlacchi: “Giorgio Strehler era un omosessuale convinto di essere un uomo, Visconti era un uomo convinto di essere un omosessuale”. Tutto ciò accade immediatamente dopo la scomunica del “Dottor Zivago”, quando perfino il Pcus di Mosca decide di commissionare la traduzione in russo del romanzo di Tomasi di Lampedusa e tutta la documentazione e il racconto di “Operazione Gattopardo” conferma quanto fosse urgente per il partito di Togliatti affidare a Visconti il delicatissimo passaggio, da destra a sinistra, di un libro ormai dilagato nel mondo intero.
Tutta colpa della notte in cui Giorgio Bassani e Mario Soldati si misero a leggere insieme il dattiloscritto del “Gattopardo” passato loro da Elena Croce (che lo lasciò nella portineria del Partito d’azione o forse di quello Repubblicano), “e decidemmo che era un capolavoro”. Decisero come si fa con i sindaci scelti dai vertici di partito a tavolino e di notte, che poi distruggono le città.
Ci sono libri molto più robusti, è vero. I “Viceré” di De Roberto e “I vecchi e i giovani” di Pirandello, ma il romanzo del capriccio pensato in una serata a San Pellegrino prese subito la corsa giusta per diventare un caso editoriale. Ebbe l’esca dell’endorsement di Bassani e Soldati e poi il gran rifiuto di Elio Vittorini che procurò tanta pubblicità postuma, utile all’epica del capolavoro contrastato. Vittorini, tuttavia, a differenza di quanto si racconta comunemente, non sbagliò il giudizio sul libro. Lo rifiutò semmai per la sua collana einaudiana “I Gettoni” e avendone fiutato le potenzialità commerciali lo consigliò, ma inascoltato, a Mondadori. A lanciare definitivamente il romanzo fu, per interessamento di Bassani, Giangiacomo Feltrinelli che ne piegò il senso a qualunque interpretazione: libro di destra o di sinistra, brutto o bello, conservatore o reazionario, da leggere o da buttare. Il risultato è che se ne parla da cinquant’anni. Lo avesse pubblicato il generalista e operoso Mondadori padre, sarebbe già stato dimenticato mentre l’abbrivo feltrinelliano fu fatale. Da lì alle scrivanie degli intellettuali organici e disorganici il passo fu breve e brevissimo quello verso i tinelli libreria degli italiani che tutti conservano e hanno perfino letto “Il Gattopardo”, se non altro per citare di prima mano la massima più insignificante e abusata di Sicilia e forse d’Italia: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi“. Ecco, proprio quella frase, quella che – sempre che siate arrivati fino a queste righe – ogni volta che vi trovate davanti la parola “Gattopardo”, vi fa dire: “Diocenescampi, basta!”.
Ancora qualche rigo e poi basta davvero perché tutto cambia e stiamo ancora qui a ripeterci che è tutto uguale a prima. Ma le sicure intelligenze dell’intellighenzia furono subito divise sul giudizio. Leonardo Sciascia non lo amò anche se poi ha un po’ cambiato idea. Carlo Muscetta conservava tra le sue carte il dattiloscritto di proprietà di Bassani e fece leggere “Il Gattopardo” nei dipartimenti di letteratura delle università dove andava insegnando. Quelle scuole di italianistica, tipo quella catanese diretta da Muscetta, funzionavano come cellule di partito, e se a dirigerle era un dissidente del partito, si arrivava al paradosso che uno uscito dal Pci dopo i fatti d’Ungheria, amasse un libro da aristocratici decaduti. I reazionari risolti – questo per dire che Visconti e Togliatti altro non erano che reazionari irrisolti – al “Gattopardo” preferivano “La Casa della vita” di Mario Praz ma i comunisti, si sa, anche quelli di oggi non necessariamente alloggiati nel Pd o in Sel, amano sedere accanto ai titolati, ai duchi, ai principi, ai conti e si fidanzano sempre con ragazze dai molti cognomi. Ai professori di liceo è sempre piaciuto, “Il Gattopardo”, perché sono quelli che hanno studiato con velleità da letterati nei dipartimenti dei Muscetta e piace perfino al contemporaneo ipercritico Andrea Cortellessa ma se Carmelo Bene non ne ha mai fatto un lavoro teatrale, un dubbio deve pur venire? E’ un po’ come il ragionamento intorno al Ponte di Messina. Se non lo fece Benito Mussolini vuol dire che non ha senso farlo.
Ci fu dunque l’Operazione Gattopardo. E ci sono il film di Visconti, i disegni acquerellati di Bruno Caruso e “Il Principe fulvo” di Salvatore Silvano Nigro, il libro sul “Gattopardo” che riesce a essere ancora più bello del “Gattopardo” con quel Bendicò, il cane impagliato, che mentre se ne cade – scagliato via dal balcone da una furibonda Concetta – “fa le fiche” con le sue importanti zampette. Nella pagina del libro non c’è scritto ma come Visconti suggerì la scena muta del soffitto a Concetta, secondo dottrina di Silvano Nigro, l’adorata e tristissima figlia di don Fabrizio, buttando la carcassa fuori da casa volle proprio dire: “Diocenescampi, basta”.
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