Primarie de che?
Reale, ma anche surreale, il volantino se ne sta lì, nel bar di Trastevere, in bella vista, tra i tovaglioli e il cornetto: “Domenica 7 aprile scegli il tuo candidato presidente di municipio”. “Addirittura il municipio?”, dice il primo avventore, incredulo. “Ma il foglietto per il sindaco ’ndo sta? Me so’ perso qualcuno”, dice il secondo avventore, improvvisamente consapevole dell’imminenza delle primarie a Roma in un quadro in cui tutti pensano a tutt’altro. Perché le primarie ci sono, ma è come se non ci fossero. Sono domani, ma è come se appartenessero a un altro secolo.
“Io, se ci credo, sono pronto a tutto, ma devo credere nella causa!” (Ryan Gosling, nei panni di Stephen Meyers, nel film “Le idi di marzo”).
Reale, ma anche surreale, il volantino se ne sta lì, nel bar di Trastevere, in bella vista, tra i tovaglioli e il cornetto: “Domenica 7 aprile scegli il tuo candidato presidente di municipio”. “Addirittura il municipio?”, dice il primo avventore, incredulo. “Ma il foglietto per il sindaco ’ndo sta? Me so’ perso qualcuno”, dice il secondo avventore, improvvisamente consapevole dell’imminenza delle primarie a Roma in un quadro in cui tutti pensano a tutt’altro. Perché le primarie ci sono, ma è come se non ci fossero. Sono domani, ma è come se appartenessero a un altro secolo: i candidati girano e girano (non visti dai più), fanno civili dibattiti all’americana su YouDem e su Sky, fanno cerimonie di chiusura al Lanificio, a San Lorenzo o al teatro Colosseo (Ignazio Marino e Paolo Gentiloni), fanno incontri al pub e all’Auditorium (David Sassoli) e consultazioni con i cittadini all’aria aperta (tutti), si combattono e si sorridono, parlano di cani, start-up e biciclette, testamenti biologici e appartamenti, ma è come se, loro malgrado, fischiettassero guardando in alto mentre tutto attorno crolla il mondo in cui ci si muoveva fino all’altro ieri. Non possono fare che questo, e però le loro primarie sono un “evento” in controtempo, affossato anche psicologicamente dall’effetto depressivo della botta elettorale.
Doveva essere tutto diverso, è chiaro: doveva esserci il traino (a sinistra) di elezioni nazionali che si pensavano più o meno vittoriose per l’ala maggioritaria del Pd. Doveva essere l’ultimo atto della Reconquista (dopo Silvio Berlusconi, dopo Gianni Alemanno, dopo la battaglia contro Matteo Renzi, prima del ritorno di Matteo Renzi). E invece arrivano proprio ora, le primarie, nel bel mezzo dell’intoppo politico e istituzionale, a incertezza raddoppiata – e non importa che pure la destra sia messa male (peggio?), con il sindaco uscente e ricandidato Gianni Alemanno che avvia la campagna elettorale mentre sull’ex amministratore di Eur Spa Riccardo Mancini, considerato suo fedelissimo, pende l’accusa di corruzione e concussione per il pasticciaccio delle presunte tangenti sull’appalto dei filobus (anche in questo caso effetto depressivo, ma non solo a destra, tanto che ogni volta che qualcuno, in comune, nomina il caso Mancini, qualcun altro si chiede: “Ma non è che poi questi, alla fine, candidano davvero Giorgia Meloni?”). Persino il nemico è in via di definizione: destra, Cinque stelle, coazione ad autodistruggersi?
Arrivano ora, le primarie del centrosinistra, con i “beautiful” in sordina: Alessandro Gassman, Marco Bellocchio, Dacia Maraini, Ennio Morricone per Ignazio Marino; varie “personalità della cultura” per Paolo Gentiloni; Andrea Rivera per David Sassoli. Arrivano senza grandeur. Persino i candidati, appena possono, preferiscono parlare d’altro – governo, presidente della Repubblica, terrore e psicodramma a Cinque stelle – pur consapevoli dei sondaggi e della profezia che la Cassandra improvvisata Walter Tocci, ex vicesindaco, ha buttato lì come niente fosse un mese fa, sul piatto già amaro della prima direzione del Pd appena uscito dalle urne: “E’ su Roma la prossima battaglia di grande impatto politico nazionale… Tutto lascia prevedere che andremo al ballottaggio con il candidato grillino, che a quel punto potrebbe essere votato anche dalla destra con un effetto Parma”. Il candidato grillino, prescelto sul Web un paio di settimane fa, con cinquecento “clic” su poco più di un migliaio di votanti (hai voglia a dire “primarie”) si chiama Marcello De Vito, fa l’avvocato, vive a Montesacro, fa politica da neanche un anno (e cioè da quando ha sentito il presidente Giorgio Napolitano parlare di “antipolitica”, dice), vuole andare a spulciare i contratti comunali per scovare “i derivati” e usa slogan provvisori come “aripijamose Roma”, molto criticato per l’assonanza con le formule da “Romanzo Criminale” – a quel punto De Vito ha detto che ha in cantiere slogan più educati, “carini” e non in dialetto. Ai suoi sostenitori sul Web, in realtà, era piaciuto all’inizio “daje”, slogan nel frattempo scelto dal candidato pd Ignazio Marino, poi accusato dai grillini di aver scippato a De Vito la paroletta in romanesco (intanto ripudiata dai Cinque stelle, preoccupati per la “cafonaggine” della medesima). Di suo, De Vito, trentottenne convinto che il grido “basta deleghe” sia l’arma di conquista nei quartieri meno sensibili ai “vaffa” di Grillo, non sarebbe la minaccia insondabile che rappresenta agli occhi del Pd, se fosse soltanto, con tutto il rispetto, il signor Marcello De Vito. Al posto suo potrebbe esserci Pinco o Pallo, e sarebbe uguale, ma siccome Beppe Grillo ha già detto di voler scendere a Roma per uno “Tsunami tour” lungo le rive del Tevere, magari utile anche a compattare il gruppo parlamentare stufo di riunirsi per ratificare la linea già decisa ai vertici, De Vito incarna la grande paura e il grande interrogativo: quanto può pescare, a destra, il grillino, in caso di ballottaggio col candidato della sinistra?
E insomma a Roma, a sinistra, non si respira aria di “Idi di marzo”, film di George Clooney sulle primarie americane, con Ryan Gosling e Philip Seymour Hoffman a a far da specchio al gioco di buona e malafede che rende la politica grande e meschina, cinica e bara (ma indispensabile). E non si respira neanche aria da “Il candidato a sorpresa”, film comico su un’elezione spiazzante, con doppia inversione di ruolo e beffa a sorpresa per i supporter milionari. Niente di tutto questo va in scena a Roma, adesso, nella stanca ora della vigilia, resa ancor più mesta dal risparmio imposto a livello di partito; niente a parte la rissa sui manifesti (Gentiloni e Marino contro David Sassoli per presunte affissioni abusive; Sassoli che si scusa a “Striscia la notizia”, promettendo maggiore attenzione in fase di attacchinaggio). C’è solo un’ansia moderata al pensiero del turno unico: domenica sera apri l’urna e chi vince vince, anche se ha preso il trenta per cento, magari, e solo un voto più di te.
Vogliono fare gli anglosassoni, i candidati che nello studio di YouDem si fronteggiano appollaiati su panchetti da baita di montagna, con i tre frontmen David Sassoli, Paolo Gentiloni e Ignazio Marino a fare la faccia moderatamente rassicurante e i tre sfidanti di nicchia Patrizia Prestipino, Gemma Azuni e Mattia Di Tommaso a fare la faccia moderatamente innovatrice – e chissà che cosa pensavano, in mezzo a tutto quel fair play, gli altri cinque candidati, quando Ignazio Marino, candidato dell’ultima ora con sponsorship di Goffredo Bettini, ha detto che in caso di vittoria avrebbe, come prima cosa, “chiamato” con sé i suoi concorrenti (le facce erano perplesse, ché uno può essere “chirurgo” quanto ti pare, e a favore dei “diritti” quanto ti pare – come ricorda sempre Marino per sottolineare la sua appartenenza alla filiera “radical” e la sua estraneità a una politica in cui comunque milita da tempo – ma la frase buonista, detta a chiusura del dibattito finale a sei, restava pur sempre, per gli altri, una frase troppo buonista). E chissà che cosa pensa davvero David Sassoli della cosiddetta (dagli avversari) “trovata” (sua? del comunicatore Roberto Cuillo? del coordinatore Giulio Pelonzi, quello incredibilmente simile a Sassoli da giovane, tanto da essere chiamato “il clone”?): trovata che consiste in un video in cui Sassoli e il comico Andrea Rivera stazionano sotto un palazzo, davanti a una serie di citofoni, con Sassoli che, preso da timidezza, non si decide a citofonare al cittadino da convincere. “Non ce la faccio, non ce la faccio”, dice al comico che intanto gli fa un massaggio anticontratture alla cervicale. “Non ce la faccio”, ripete, credendoci sì e no, mentre Rivera porge allo spettatore la sentenza: “Non ce l’ha fatta – a prendere in giro la gente lui proprio non ce la fa”. E chissà che tormento per Paolo Gentiloni, il candidato più esperto per esperienza da assessore in comune e per esperienza di ministro delle Comunicazioni nel governo Prodi, doversi quasi trattenere dal dirlo, “sono esperto”, ché nel tempo gramo dell’antipolitica dirsi “politico” pare una parolaccia. E invece lui, Gentiloni, dopo una campagna con cartelloni (consentiti) in bicicletta, e dopo l’offensiva sul Web al grido di “trasparenza, inclusione e futuro” (si parla addirittura della “Roma del 2025”), vorrebbe alzarla, la bandiera “dell’autorevolezza” che “serve alla città”: “Non sono un chirurgo” (come Marino), dice, “non sono un conduttore Rai” (come Sassoli) e “non sono un miliardario” (come l’indipendente di area “calce-e-martello” Alfio Marchini, ritiratosi dalle primarie, da lui ritenute “di corrente”, ma pur sempre in corsa per il dopo-primarie con il suo Movimento della cittadinanza). “Sono un politico con esperienza di governo locale e nazionale, e fare il sindaco di Roma è un mestiere complicato”, dice Gentiloni. E però a un certo punto, tra i suoi sostenitori, si è fatto strada il dubbio che la carta da sbandierare fosse soprattutto l’altra, e cioè quell’essere “renziani” che un tempo a Roma suscitava diffidenza e che oggi suscita la frase di rimpianto in romanesco “ah, si cc’era Renzi!”, udita anche fuori dai circoli di appartenenza.
Chi sta con chi?, si chiedono gli appassionati della telenovela “Pd romano contro Pd romano”, che vede la fazione dalemiana (ora pro Sassoli) e quella bettinian-zingarettiana (ora pro Marino) fronteggiarsi da anni interminabili, anche se le truppe di ambedue le parti sono ormai fiaccate dalle troppe lotte e dal risultato del voto nazionale. Chi sta con chi?, si chiedono pure i romani di centrosinistra previdenti, quelli che per tempo hanno compulsato i siti dei tre principali concorrenti alla candidatura, scoprendo, per esempio, che Marino racconta per filo e per segno la sua carriera nel mondo dei trapianti, puntando sull’afflato bioeticistico e “pro diritti” (al che gli avversari chiedono: “Ma perché allora non resta in Parlamento?”). E scoprono, gli elettori, che Gentiloni, per dare slancio allo slogan “ripartire da qui”, fa lunghi discorsi-video con sfondo di rovine e traffico al Colosseo, attacca i mega stipendi nelle municipalizzate e inneggia alla “green economy” (al che i nemici dicono: “Aridaje con l’ecologia”). Sassoli, intanto, ha messo il programma in ordine alfabetico: A come “agricoltura”, B come “bambini”, C come “cinema”, D come “donne”, H come “hostel”, O come “Ostia”, S come “soldi”, T come l’immancabile “trasparenza” – al che i detrattori sbottano: “Manca solo Z di Zorro”. Resta il fatto che chiunque si candidi, nel Pd e fuori, per neutralizzare in culla il grillismo arrembante, mette in evidenza non solo la “trasparenza”, ma pure i “tagli” agli emolumenti di chicchessia.
Chi sta con chi?, si chiedono quelli che vedono sempre i soliti dietro le quinte, e cioè “Walter Veltroni dietro a Marino” e “Massimo D’Alema dietro a Sassoli ma non del tutto” – e pensare che tre anni fa, ai tempi della candidatura di Sassoli alle europee, c’era chi vedeva D’Alema dietro al “laico” Marino, allora possibile competitor dello stesso Sassoli nelle liste in via di compilazione, e c’era chi vedeva gli “ex popolari” dietro a Sassoli, ex vicedirettore del Tg1 poi candidato a Strasburgo in quota “back into the Vatican”, per via del suo passato non troppo sbilanciato a sinistra e delle letture teologiche discusse col collega Gianni Riotta. E però oggi c’è chi vede il medesimo D’Alema non solo dietro a Sassoli, ma pure dietro ad Alfio Marchini, ingegnere vicino ai costruttori, socio fondatore di ItalianiEuropei e candidato extra-primarie che intanto si mette avanti col programma, e va a “Servizio pubblico” a dire con gran sorriso che “ci vuole pragmatismo” e va alle “Invasioni barbariche” a parlare della “donna tradita” che “ci sopporta da millenni”. La donna sarebbe Roma, spiega a Daria Bignardi il quarantasettenne Marchini, padre separato di cinque figli, ex consigliere Rai all’epoca di Letizia Moratti, già paragonato a Ridge di “Beautiful” per lineamenti squadrati e capigliatura – oggi Marchini è pettinato ancora nello stesso modo (“non volevo mai tagliare i capelli”, racconta quando è in vena di amarcord, cioè sempre) ed è prodigo di parole tra radio e tv (“io dico sempre la verità”, è il suo tormentone). “Almeno questo parla”, commentano i cronisti stufi di inseguire il broncio dei grillini. Poi certo, uno apre il sito di Alfio Marchini e legge “perfino chi crede di conoscermi davvero sa di me solo quello che ormai riesco a mostrare, e nulla più”. Non si fa in tempo a chiedersi “ma che vorrà dire, Alfio?” che subito appare l’enorme cuore rosso del logo: “I turisti portano nel cuore la calda luce del tramonto”, scrive un Marchini versione Harmony mentre chiede ai cittadini “la delega emozionale” – ed è roba talmente trasversale da essere considerata adatta a una certa sinistra, a una certa destra e a un certo centro, ai vecchi amici del nonno “palazzinaro comunista” come al giro “Caltagirone”, ai circoli sportivi (Marchini è ex campione di polo) come agli estimatori di Shimon Peres (Marchini vanta un’antica frequentazione). In confronto alle romanticherie del candidato indipendente Alfio, non partecipante alla gara di domenica, paiono seriosi anche i “quattro pilastri di felicità” elencati online dalla candidata alle primarie (della primissima ora) Patrizia Prestipino, assessore zingarettiano alla provincia e professoressa di Lettere in aspettativa, presentatasi come “l’uomo giusto per Roma” (i pilastri sono il “taglio della spesa”, la solita “trasparenza”, “l’ambiente di vita e lavoro”, la “città dei diritti”). “Ho rinunciato a correre per il Parlamento”, dice Prestipino quando non parafrasa Dostoevskij (non sarà “la bellezza” a “salvare il mondo”, ma la “bellezza di Roma” a “salvare le istituzioni” e tutto il cucuzzaro).
Gira che ti rigira, i protagonisti occulti della campagna per il sindaco di Roma sono comunque Grillo da un lato, come spauracchio o modello occulto, e Renzi dall’altro, come spauracchio o modello occulto: nelle parole d’ordine dei candidati traspare l’attenzione ai cavalli di battaglia dell’anticasta e della rottamazione: “Io non appartengo alla casta”, dice Gemma Azuni, candidata di area Sel, forte degli “anni all’opposizione” in comune contro Alemanno; “mi candido per superare vent’anni di immobilismo, e perché nessuno possa dire ‘perché ti candidi alle primarie, a ventotto anni?”, dice Mattia Di Tommaso, giovane socialista. E mentre il candidato grillino De Vito, per ora meno tormentato da dubbi e diktat dei suoi colleghi parlamentari a Cinque stelle, sottopone alla divinità del Web il quesito “dove vogliamo chiudere la campagna elettorale?”, i “Pirati” italiani, decisi a sostenere, fuori dalle primarie, il candidato sindaco Sandro Medici, sfidano Grillo sul suo terreno: noi siamo “la versione democratica del M5s, libertà di espressione, di pensiero e di Rete, con un surplus di democrazia”, dicono, presentando un non-candidato che si definisce “incandidabile”, il “romano d’Africa” Josef Yamane Tewelde, detto “JoJo”, nato a Roma da genitori eritrei. “Potrete sposare la sua causa, seguirlo e sostenerlo, ma non lo potrete votare”, è lo slogan del suo comitato: JoJo, infatti, non è cittadino italiano. “Per legge, quindi, non potrà sedere in Campidoglio”, dicono i sostenitori, “ma lui non ritiene questo un buon motivo per non organizzare una campagna elettorale, con un dettagliato programma, incontri e altri eventi, come un candidato vero”. Ma il fantasma di JoJo non oscura lo spettro che fa capolino dalle parole del responsabile economico del Pd Stefano Fassina. Intervistato ieri da Repubblica, Fassina ha detto (col senno di poi?) che, per “il futuro”, il partito farebbe meglio “a esprimere un solo nome” – molti sdegnati, a quel punto, ma anche molti finalmente liberi di lasciarsi andare alla domanda: “Ma dovevamo proprio farle, queste primarie?”.
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