Margaret, tutta suo padre
Se chiedevate a Margaret Thatcher della sua politica, lei raccontava di suo padre, Alderman Alfred Roberts. Un uomo integerrimo delle Midlands, gran lavoratore, che si faceva il segno della croce con le stesse mani affilate con cui si dava da fare nella sua drogheria e con cui sfogliava per ore i libri della biblioteca locale. Un “self made man” con la passione della politica, che dopo anni di studio e lavoro era diventato predicatore laico metodista, proprietario di due drogherie e sindaco di Grantham.
Se chiedevate a Margaret Thatcher della sua politica, lei raccontava di suo padre, Alderman Alfred Roberts. Un uomo integerrimo delle Midlands, gran lavoratore, che si faceva il segno della croce con le stesse mani affilate con cui si dava da fare nella sua drogheria e con cui sfogliava per ore i libri della biblioteca locale. Un “self made man” con la passione della politica, che dopo anni di studio e lavoro era diventato predicatore laico metodista, proprietario di due drogherie e sindaco di Grantham. “Era convinto che la vita fosse una questione di carattere, e che il carattere si formi con la fatica quotidiana”, diceva di lui la figlia, al secolo Margaret Hilda Roberts, che dal padre aveva ereditato la convinzione che la vita esigesse una disciplina: “Mi ha insegnato che prima devi stabilire in cosa credere e poi devi metterlo in pratica. Nelle cose che contano il compromesso non è accettabile”. Un imperativo che Alderman seguiva in ogni sua declinazione, anche a costo di arruolarsi come volontario per combattere nella Seconda guerra mondiale – sarà rifiutato dall’esercito, per via della vista carente.
Durante il conflitto Margaret aveva lasciato la casa famigliare in mattoncini rossi, dove era nata il 13 ottobre 1925, alla volta di Oxford, dove avrebbe studiato Chimica e sarebbe finita per diventare presidente dell’Associazione dei conservatori dell’università. Nel 1945 era tornata a casa, innamorata delle materie plastiche e convinta che la politica sarebbe stata la sua strada. A Grantham, Margaret aveva accettato un lavoro nell’industria alimentare, alla J. Lyons & Co., dove testava gelati e farciture delle torte in attesa di essere candidata in una circoscrizione elettorale per il Parlamento. Le era stata data un’occasione, in una roccaforte laburista nel sud-est dell’Inghilterra, e aveva perso. La sera in cui aveva accettato ufficialmente l’incarico aveva conosciuto Denis Thatcher, un ricco imprenditore che portava avanti l’azienda di vernici di famiglia. Si erano piaciuti subito, ma la scintilla del loro amore non sarà ricordata tra le più romantiche: “A lui interessavano le vernici, a me le materie plastiche”, ricorda lei, che nel 1951 sarebbe diventata la signora Thatcher.
Da sposata, era andata a vivere in una bella casa di Chelsea, quartiere chic di Londra, dove era riuscita a studiare per diventare avvocato mentre accudiva i suoi due figli, i gemelli Mark e Carole. Era la metà degli anni Cinquanta, e Maggie cercava di scrollarsi di dosso l’aria da ragazza della middle-class delle Midlands prendendo lezioni di dizione e lasciando la chiesa metodista per abbracciare il credo anglicano, molto più rispettabile. Un guardaroba nuovo, un’allure da “tory lady” e, nel 1959, l’elezione al Parlamento era cosa fatta, grazie ai voti di Finchley, una circoscrizione piccolo-borghese con forte presenza ebraica (che lei avrebbe rappresentato fino al 1992, anno della consacrazione alla Camera dei Lord).
Nel 1965, l’allora cancelliere dello Scacchiere ombra, il leader dell’alla sinistra dei conservatori Ian Macleod, aveva scelto Margaret come suo vice, aprendole una strada che l’avrebbe portata a dirigere il ministero della Pubblica istruzione, nel 1970, con il governo Heath. Deve al suo primo incarico ministeriale il nomignolo di “Maggie Thatcher, Milk Snatcher” (scippatrice del latte), per via dell’abolizione della distribuzione gratuita delle bottigliette di latte nelle scuole elementari. La crisi petrolifera del ’73 e l’ostilità dei sindacati a ogni politica voluta dal governo avevano imposto al timido governo Heath numerose umiliazioni, fino alla sconfitta netta del febbraio 1974.
Margaret Thatcher era destinata a monetizzare anche questa delusione politica: aveva capito che essere esitanti non paga e, in cerca di nuove idee, si era messa a rileggere la letteratura liberista, che aveva sfiorato senza troppo entusiasmo negli anni dell’università. Verso la fine del governo Heath, l’amico Sir Keith Joseph, detto “mad monk” (monaco pazzo), aveva scoperto Milton Friedman e i Chicago Boys e ne era rimasto folgorato, tanto da fondare un think tank che ne annunciasse il verbo antikeynesiano, il Centre for Policy Studies.
L’ex ministro Thatcher ne era stata subito entusiasta e si era arruolata nella guerra contro il “big government”. Così, nella primavera del 1974, era nata la nuova destra britannica. Questa frangia mercatista, in aperta polemica con la tradizionale linea dei conservatori, era finita per apparire la sola possibilità per svecchiare un partito umiliato e confuso. E così l’impresentabile middle-class lady delle Midlands, con l’appoggio dell’eccentrico Sir Keith Joseph, era riuscita a conquistare la leadership dei Tory.
Cinque anni dopo, nel ’79, l’outsider Margaret Thatcher vinceva le elezioni ed entrava al numero 10 di Downing Street come primo ministro della Gran Bretagna. Era arrivato il momento di mettere in pratica su scala nazionale la tanto amata sentenza di Edmund Burke, secondo cui la politica è “filosofia in azione”. Il pensiero del nuovo premier era chiaro e lineare, ma l’amministrazione laburista, prima di lasciare l’incarico, aveva accordato aumenti salariali ai dipendenti pubblici e i fondi andavano rastrellati in un paese con tassi d’interesse attorno al 16 per cento e un’inflazione che prometteva di salire al 20 per cento (grazie alla crisi petrolifera). Il credo della nuova destra, già in minoranza all’interno dell’esecutivo, doveva vedersela contro il monopolio delle industrie statali e dei sindacati. Per Margaret Thatcher la cosa non era un problema: “Pensare a quanto lavorava mio padre, sempre senza sosta, mi riempiva di disprezzo non solo per gli operai che scioperavano inutilmente, ma anche per gli impiegati e i manager statali che si alzavano dalla scrivania, spensierati, alle cinque”. Come avrebbe detto sei anni più tardi al Congresso americano, “le guerre nascono quando un aggressore ritiene di potere raggiungere i propri obiettivi a un prezzo accettabile”, e per lei, come per il droghiere di Grantham, il conto presentato dalle proprie convinzioni non poteva che essere sempre accettabile. Aveva dichiarato guerra, ed era nata la Lady di Ferro.
Lo schieramento scelto dal primo governo thatcheriano per la battaglia era in perfetta antitesi con il credo keynesiano, ma sconfessare il pensiero concorrente su tutta la linea non era bastato a creare posti di lavoro. Il panorama restava desolato e il primo anno di governo vedeva già il premier come “il capo ribelle di un governo costituito”, come diceva lei gonfia d’orgoglio. Il suono dei tamburi dei nemici giovava quantomeno alla retorica della Lady di Ferro, che non perdeva occasione per ribadire la sua linea anti statalista secondo cui “non dovremmo aspettarci che lo stato appaia come una fatina bizzarra a ogni battesimo, come un compagno loquace a ogni passo del cammino della vita e come uno sconosciuto in lutto a ogni funerale”.
Il paese, però, sfinito dai sacrifici imposti dal governo, aveva manifestato la sua insofferenza nei sondaggi, che davano la popolarità del primo ministro al 23 per cento, il risultato più basso mai raggiunto nella storia del paese. Almeno finché le truppe argentine, il 2 aprile 1982, non avevano invaso le isole Falkland, due isolotti freddi e inospitali in coda all’America del sud. Cumuli di pietre inerti, a ottomila miglia dalla Gran Bretagna, abitati da una manciata di cittadini inglesi, erano passati nelle mani di uno stato dittatoriale alla vigilia del 150esimo anniversario della conquista britannica. “Se mettessi tutti i fattori in un computer”, aveva ammesso la Lady di Ferro, “il computer mi direbbe di non farlo. Ma noi siamo gente di fede”. Dopo dieci settimane di scontri, gli argentini si erano arresi, la giunta militare di Buenos Aires era crollata e “una signora della middle class il cui accento finto gela il cuore e stordisce l’immaginazione” (secondo la definizione data da Anthony Burgess, autore di “Arancia meccanica”) si preparava a un enorme successo nelle elezioni del 1983.
Il secondo mandato era stato inaugurato da un altro conflitto, con il sindacato dei minatori, guidato dal marxista Arthur Scargill. Lo sciopero, iniziato nel marzo dell’84, era fatto per decapitare la filosofia thatcheriana. Toccare l’industria mineraria, le cui perdite si moltiplicavano su scale intollerabili, era costato il governo a Heat dieci anni prima. I compagni di tutta Europa si erano mobilitati per sostenere a tutti i costi la protesta dei minatori inglesi, per cui si era attivata una rete di finanziamenti che si era allargata fino all’Afghanistan sovietico (passando per la Libia di Gheddafi). Ma nel giro di un anno le ostilità erano evaporate, lasciando la strada libera alle privatizzazioni a cascata progettate dal governo britannico: venduti porti e scali aerei, smantellato il monopolio sulle risorse con la creazione di British Telecom, British Gas, British Rail, British Coal e cosi via.
Sul fronte interno, il governo doveva fare i conti anche con il terrorismo. La sera del 12 ottobre ’84, mentre Margaret Thatcher stava ripassando il discorso che avrebbe tenuto l’indomani al congresso annuale del partito, una bomba aveva distrutto il bagno della sua suite, al Grand Hotel di Brighton. Lei, illesa, si era cambiata i vestiti e aveva scelto di attenersi all’agenda degli incontri preventivata, con una freddezza e un rigore che le avevano garantito un sostegno popolare come quello guadagnato con il successo alle Falkland. In carica per la terza volta, dopo la vittoria del 1987, la Lady di Ferro aveva iniziato ad arroccarsi sulle sue parole d’ordine, tra cui l’ostilità nei confronti della Comunità europea – dietro a cui vedeva le mire tedesche per riprendere il controllo sul continente. Isolata, soprattutto tra i suoi, si era impuntata sul dispotismo fino a togliere il ministero degli Esteri a Geoffrey Howe, alleato fedele, troppo tenero verso la moneta unica europea.
Il 20 novembre 1990 la Lady di Ferro, sempre più all’origine di fratture all’interno del partito, aveva strappato la vittoria nelle elezioni per la leadership tory per soli quattro voti. Due giorni dopo, a sessantacinque anni, annunciava al suo esecutivo che avrebbe rinunciato a candidarsi per il doveroso ballottaggio. Dopo undici anni, avrebbe guardato Downing Street allontanarsi dai vetri di una Daimler scura, con il viso rigato dal pianto. Negli ultimi anni una serie di piccoli infarti l’avevano privata della memoria a breve termine.
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