Eccentrica di massa
Il mondo è più libero e prospero anche grazie ai polli. Se gli inglesi non fossero ghiotti di chicken breast, Anthony Fisher non avrebbe fatto i soldi. Se non avesse fatto i soldi, non avrebbe potuto fondare l’Institute of Economic Affairs (Iea). Senza l’Iea, Arthur Seldon e Ralph Harris non avrebbero organizzato i seminari regolarmente frequentati, negli anni Settanta, da Margaret Thatcher, giovane e promettente leader di un disastrato Partito conservatore. Senza i valori e i princìpi e le idee di libero mercato che lì venivano predicati, forse Thatcher non sarebbe mai stata né la Signora di Ferro, né la più grande rivoluzionaria di tutti i tempi.
Il mondo è più libero e prospero anche grazie ai polli. Se gli inglesi non fossero ghiotti di chicken breast, Anthony Fisher non avrebbe fatto i soldi. Se non avesse fatto i soldi, non avrebbe potuto fondare l’Institute of Economic Affairs (Iea). Senza l’Iea, Arthur Seldon e Ralph Harris non avrebbero organizzato i seminari regolarmente frequentati, negli anni Settanta, da Margaret Thatcher, giovane e promettente leader di un disastrato Partito conservatore. Senza i valori e i princìpi e le idee di libero mercato che lì venivano predicati, forse Thatcher non sarebbe mai stata né la Signora di Ferro, né la più grande rivoluzionaria di tutti i tempi. Thatcher arriva a Downing Street come un ciclone. Il Regno Unito, all’inizio degli anni Ottanta, era il malato d’Europa. Un paese dove, diceva lei, le imprese private erano controllate dal settore pubblico e quelle pubbliche da nessuno. Un paese dove tutto il dibattito girava attorno a quali scelte dovessero essere compiute per pianificare bene. Un paese dove la destra conservatrice non voleva smontare l’infernale macchina statale: chiedeva la fiducia degli elettori per mettere “the good chaps” nella cabina di regia. Ecco: in questo paese Thatcher porta l’ingenuità, la freschezza e la determinazione di chi oppone un gentile ma fermo “thanks, but no thanks”. Fa il miracolo, scrive l’epica di un’epoca.
L’idea che lo stato potesse essere sostituito dai privati, il monopolio dalla competizione, prima di lei era peggio che politicamente impotabile. Appariva il vezzo intellettualoide di individui isolati e piuttosto strambi. In Gran Bretagna, quelle idee non camminavano su solide gambe neoclassiche, come negli Stati Uniti dei Chicago boys. Qui, la fiaccola della libertà economica la custodiva un gruppo di economisti “austriaci”, ancora più lontani dall’ortodossia. Michael Beesley, Stephen Littlechild, Colin Robinson, Eileen Marshall, George Yarrow, Ian Byatt, e gli altri artefici della deregulation erano tutti figli di Hayek. Il quale aveva ricevuto il Nobel nel 1974: ma l’aveva avuto da outsider. Geniale, ma outsider. Sicché, l’accademia remava contro.
Nel marzo 1981, alcune centinaia tra i più prestigiosi economisti britannici firmarono un manifesto anti Thatcher. La risposta migliore sta nel titolo di un libro pubblicato 25 anni dopo, a cura di Philip Booth: “I 364 economisti avevano tutti torto?”. Domanda retorica. Un altro economista inglese, Dieter Helm, certo non un suo fan, scrive, un po’ ammirato e un po’ scocciato: “Prese la preferenza per le soluzioni di mercato da Friedman; una visione più tollerante del monopolio da Schumpeter, secondo cui i profitti di monopolio avrebbero fornito gli incentivi agli imprenditori ed erano tipicamente transitori; e il desiderio di una forte cornice per i diritti di proprietà da Hayek. Queste visioni vennero rafforzate da un approccio molto più critico ai fallimenti del governo e i costi della regolamentazione, che in ultima analisi derivava da Popper, e furono molto influenzate dal lavoro di Mises sull’informazione”. Dunque, riassumendo: Thatcher, politica eclettica, si lascia convincere da alcuni economisti eccentrici e trasforma il loro pensiero in una piattaforma politica. Contro ogni logica, vince. La vittoria non sta tanto nei numeri – che pure ci sono e sono testimonianza viva del perché oggi non possiamo non dirci thatcheriani – quanto nello choc lessicale e politico sottostante. “Una rivoluzione in attesa di scatenarsi – la descrive Helm – Improvvisamente, un istituto di nicchia che produceva paper interessanti divenne il mainstream”.
Thatcher prese la fantascienza e la trasformò in normalità. Politicamente, coniò delle parole nuove: privatizzazioni, deregolamentazione, concorrenza. Cambiò l’economia, il ruolo dello stato, il modo di pensare e comportarsi di tutti. La libertà di scelta divenne ovvia. Uno stato onnipotente, che nel 1980 spendeva il 47 per cento del pil, dimagrì fino al 39 per cento. I sindacati persero 5 milioni di iscritti (su 13). L’aliquota marginale dell’imposta sul reddito, che nel 1979 era dell’80 per cento, nell’arco del decennio arrivò al 40 per cento. Quella più bassa, scese dal 33 al 25 per cento. La conseguente espansione economica, dovuta alla filosofia offertista del cancelliere dello Scacchiere, prese il suo nome: ce la ricordiamo come “Lawson Boom”.
Oggi le riforme di Thatcher definiscono l’identità del paese. Tony Blair le ha reso omaggio: “La Gran Bretagna aveva bisogno di quelle riforme. Una conseguenza non dell’ideologia ma del cambiamento economico e sociale”. Per paradosso, la più euroscettica dei leader ha pure fornito all’Ue il modello di stato regolatore che, con tutte le sue approssimazioni, è lo strumento della nostra integrazione economica. Quante cose ha fatto, questa piccola donna orgogliosa. Quale tempesta ha scatenato il battito d’ali di un pollo al di là della Manica.
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