I dinamitardi per “distrazione” del gran romanzo di Enzo Bettiza

Nicoletta Tiliacos

Si dice che i bambini bilingui dalla nascita, che imparano cioè a parlare dando nomi diversi alla stessa cosa, saranno aperti, recettivi, intuitivi. Ma che più di altri, nella vita adulta – per aver chiamato con nomi diversi la stessa cosa nell’età in cui si fondano le certezze – rischiano l’insicurezza, lo straniamento, la malinconia. Che sia di questa natura, il fenomeno ricorrente nella vita del protagonista dell’ultimo romanzo di Enzo Bettiza, intitolato “La distrazione” (Mondadori, 495 pagine, 20 euro)? Un personaggio tri, quadri e pentalingue, da buon figlio dell’impero austroungarico “entrato nel mondo quattro anni prima dello scoppio della Prima guerra mondiale”?

    Si dice che i bambini bilingui dalla nascita, che imparano cioè a parlare dando nomi diversi alla stessa cosa, saranno aperti, recettivi, intuitivi. Ma che più di altri, nella vita adulta – per aver chiamato con nomi diversi la stessa cosa nell’età in cui si fondano le certezze – rischiano l’insicurezza, lo straniamento, la malinconia.
    Che sia di questa natura, il fenomeno ricorrente nella vita del protagonista dell’ultimo romanzo di Enzo Bettiza, intitolato “La distrazione” (Mondadori, 495 pagine, 20 euro)? Un personaggio tri, quadri e pentalingue, da buon figlio dell’impero austroungarico “entrato nel mondo quattro anni prima dello scoppio della Prima guerra mondiale”? Facciamo la conoscenza del dalmata Peter Jarkovic – nato il 31 dicembre del 1910 – al passaggio del millennio, nella notte di capodanno tra 2000 e 2001. Il suo cognome, dopo aver perso l’originario assetto di Jarcovich, a un certo punto era diventato Jarko, dopo essere stato russificato in Jarkov, così come Peter era diventato Pietro, Petar, Pëtr. E’ direttamente lui, l’uomo al centro di tanti slittamenti vocali ed esistenziali – ex agente bolscevico, spia e dinamitardo riluttante, laureato ingegnere a Vienna ed esperto di esplosivi, commissario politico cominternista nella Spagna della guerra civile – a presentarsi al lettore come un novantenne “uscocco” (gli uscocchi erano i cristiani balcanici croati, dalla vocazione piratesca, approdati sulle coste adriatiche per sfuggire ai turchi) che vive solitario nell’isola di Brazza, di fronte a Spalato. Peter è sensibile, però, alle grazie della florida Delkica, la donna che lo aiuta in casa, la “serva laboriosa” che all’improvviso, dopo due anni, ha acceso il suo sangue uscocco e lo ha costretto a ripensare a tutta la sua vita, vissuta “a lungo come un picaro misterioso e recidivo lungo frontiere più vicine al male che al bene”.

    Peter è dunque un malinconico incline al mimetismo e all’elusività, più che un completo, tragico, faustiano mascalzone. Un mascalzone assoluto, infatti, non avrebbe ceduto, come lui, alla “distrazione”. Ma per un prolungamento di svagatezza adolescenziale; per aver dimenticato il luogo d’appuntamento con la focosa amante viennese e averla cercata nel posto sbagliato; per non essere riuscito a sottrarsi, lì, all’incontro con gli amici cospiratori di un suo conoscente, il professore socialista Harsek… per quella dannata “distrazione”, insomma, Peter Jarkovic, ventitreenne rampollo di una dinastia decaduta di costruttori navali, si ritrova agente di Mosca, arruolato nei ranghi dell’Oms, sezione del Komintern incaricata dei collegamenti con l’estero. Siamo negli anni che preludono all’Anschluss, mentre nella Russia staliniana impazzano i processi autofagi ai quali non sopravviverà nessuno della vecchia guardia bolscevica.
    E’, questo di Bettiza, un vero romanzo – va detto, in epoca di raccontini esangui – che mescola l’ispirazione koestleriana di “Buio a mezzogiorno” con atmosfere alla Mann (Peter, dopo l’addestramento russo, torna a Vienna in crisi di identità ed è ricoverato nella clinica del dottor Molnar), oltre che con divagazioni bulgakoviane sull’insensatezza organizzata del mondo comunista. L’autore ci trascina sulle montagne (anche incantate) russe di un’ispirazione fluviale, divertita, beffarda, sostenuta da una lingua ricca da far girare la testa e da spunti autobiografici.

    Facciamo conoscenza, e non li dimenticheremo più, con il leninista Hamok, l’uomo-tartaruga mentore di Peter; con il dottor Molnar, che tratta le nevrosi parlando con i pazienti ma odia Freud; con il ballerino Angel Kamber, agente dell’Oms a Zagabria, incaricato di organizzare il primo attentato al quale partecipa, da artificiere, Peter Jarkovic; con lo stesso zio di Peter, lo “Scialiapin dei Balcani” Milan Mahanovic, i cui acuti baritonali mandano in cortocircuito le lampadine: è lui l’obiettivo dell’attentato in cui è coinvolto il nipote, previsto a Zagabria durante la prima dell’opera dedicata a Zrinski, eroe croato della resistenza anti turca. E poi ci sono le donne concupite dal distratto e sensuale Peter. Da Ines, regina della pasticceria viennese Demel, alla misteriosa Ahmira, che sorveglia gli ospiti dell’Hotel Lux di Mosca, dall’infermiera callipigia Olga alla cameriera Desanka, odorosa di lavanda come le “morlacchette” compagne di giochi infantili di Peter. Amori ancillari, i soli possibili per l’uomo che non poté mai vincere la distrazione, sradicato per troppe radici. Ma Peter (Pietro, Petar, Pëtr) ha imparato che chiamare la stessa cosa in modo diverso non significa mentire. Alla fine quel che conta è “l’essenza, non l’esattezza aritmetica della memoria”.