Una lady non è fatta per voltarsi, e nemmeno per tornare a casa

Paola Peduzzi

Margaret Thatcher non cercava il consenso, sapeva di avere ragione. “A conviction politician”, si definiva, un primo ministro che aveva le idee chiare e in quella chiarezza la parola compromesso compariva molto poco. E’ così che la Thatcher, morta ieri mattina a 87 anni, ha creato una leadership che ancora oggi è senza eguali, e non perché era la leadership di una donna – la prima (e per ora l’ultima) donna a essere eletta primo ministro in Inghilterra. Fu una rivoluzione, quella, naturalmente: ancora oggi tra le signore della politica ci si contende il titolo di Lady di Ferro con la sua eredità di tailleur, perle e ideologia (vince Angela Merkel, a occhio).

    Margaret Thatcher non cercava il consenso, sapeva di avere ragione. “A conviction politician”, si definiva, un primo ministro che aveva le idee chiare e in quella chiarezza la parola compromesso compariva molto poco. E’ così che la Thatcher, morta ieri mattina a 87 anni, ha creato una leadership che ancora oggi è senza eguali, e non perché era la leadership di una donna – la prima (e per ora l’ultima) donna a essere eletta primo ministro in Inghilterra. Fu una rivoluzione, quella, naturalmente: ancora oggi tra le signore della politica ci si contende il titolo di Lady di Ferro con la sua eredità di tailleur, perle e ideologia (vince Angela Merkel, a occhio). Ma fu una rivoluzione perché Margaret Thatcher non fu scelta in quanto donna, queste sono necessità dell’oggi, dettate dalla mancanza di leader riconoscibili, o dall’ossessione politically correct delle quote rosa, con la loro presunta modernità. Certo, non è che l’elemento femminile non fosse stato curato: i guru le resero la voce meno stridula, i capelli meno old fashion, la camminata più imperiosa, e le insegnarono a non gesticolare, ma piuttosto a usare braccia e mani per dare ritmo e forza alle sue parole. Ma nessuno riuscì a toccarle borsette e cappellini, così come nessuno le ha mai fatto cambiare idea sulle questioni più importanti.

    C’erano valori non negoziabili, nel look e nella testa di Thatcher, che l’hanno resa unica: non cercava l’applauso come fanno i politici, non cercava i complimenti come fanno le donne. Nel 1980 quando tutti le chiedevano un “U-turn”, un’inversione, nella sua politica economica liberale, lei rispose alla conferenza di partito: “You turn if you want to. The lady’s not for turning”, certe cose le signore non le fanno, non mi volto perché qualcuno me lo chiede (standing ovation di cinque minuti). Thatcher poi se ne fregava di tutto, delle chiacchiere soprattutto, i consiglieri le dicevano di stare attenta, con quell’atteggiamento dittatoriale si stava perdendo gli inglesi e gli alleati conservatori, ma lei non faceva una piega e rispondeva: “Dicano quello che vogliono, basta che facciano quello che dico io”.
    Lo Spectator, storico magazine conservatore che sostenne la Thatcher fin da subito, ieri ha ripubblicato l’editoriale firmato da Patrick Cosgrave il 23 gennaio del 1975: “E’ davvero una buona idea eleggere una donna – scriveva il direttore del magazine, meglio noto come “The Makon”, il mostriciattolo verde contro cui si batte l’eroe dei fumetti Dan Dare – Può una donna vincere queste elezioni? Non ha esperienza in ruoli importanti, è una dura ma si sgretola facilmente, è troppo ‘Dresden-like’. Non sembra nemmeno eccezionale, ma tanto non lo è nessuno”. E’ chiaro che la Thatcher non si era ancora mostrata per quella che era, nessuno si sarebbe sognato, qualche anno dopo, di dire che era una donna facile da piegare: allora portava ancora addosso le ferite delle sconfitte – la prima, soprattutto, quella che non si scorda mai, quella per il seggio da parlamentare a Dartmouth, iniziata con gli uomini che fingevano di ascoltarla e la liquidivano rapidi, cosa fai, parli pure?, va’ di là con le signore. La prima sconfitta fu quella però che le fece conoscere Denis, il marito sposato nel 1951, il padre dei due figli, l’uomo che l’accompagnava dappertutto, la consigliava e la criticava. L’uomo che l’ha tenuta con i piedi per terra, la sua fortuna.

    “Iron Lady”, il film in cui la Thatcher è interpretata da una Meryl Streep da Oscar, è la storia di questo matrimonio intrecciato con la politica inglese, soprattutto con gli undici anni e mezzo a Downing Street. Nel film, tristissimo, la Thatcher è ormai anziana, Denis è morto (è scomparso nel 2003, dopo 52 anni di matrimonio), ma lei gli prepara l’uovo alla coque la mattina, sfugge alle badanti ed esce a comprargli il Times, scopre che il latte è aumentato di molto, torna e gli dice, con rammarico, che lei una volta li conosceva tutti, i prezzi. Anzi, era la sua forza, quella. Lui annuisce, iniziano i flashback, tutto il mondo visto con gli occhi lucidi di una signora anziana che non sa accettare che suo marito non c’è più. Margaret sa però che, se non vuole fare la figura della vecchietta rincoglionita, deve cacciare Denis: i suoi vestiti vanno buttati, la sua radio spenta, il suo uovo lasciato in frigo. Quando finalmente Margaret decide che l’ora della separazione è arrivata, ci ripensa, gli dice non andare via, “ti ho detto di non andare via, non ancora”, tirando fuori la voce del comando, “non voglio stare da sola”, ammette. Lui si volta soltanto un attimo: “Non ti preoccupare, amore, starai bene da sola. Ci sei sempre stata”.
    Non è sempre stata sola, nella sua rivoluzione, la Thatcher. E’ stata rieletta la seconda volta nel 1983 con le Falkland invase e tre milioni di disoccupati, e poi ancora nel 1987 dopo lo sciopero dei minatori, le botte della polizia, gli attentati dell’Ira, l’economia che faticosamente si riprendeva e che poi avrebbe regalato ai laburisti negli anni 90 il benessere che ha determinato la rivoluzione blairiana. Senza la Thatcher non ci sarebbe stata la sinistra progressista inglese, non ci sarebbe stato un politico furbo e cinico come Peter Mandelson, architetto della vittoria di Tony Blair, a dire nel 2001: “Siamo tutti thatcheriani, ora”.

    Non è sempre stata sola, la Thatcher. E’ sempre stata convinta, questo sì, al costo di far disperare la sua famiglia e di perdere il consenso interno al suo partito: tutte le storie di successo finiscono sempre con il tradimento di chi ti è vicino. I Consigli dei ministri, raccontano, erano diventati dei campi di battaglia, lei chiedeva obbedienza e gli altri le riservavano battutine. Hanno vinto loro, ma solo dopo averci provato tante volte. Con lo sguardo alto e il viso rigato dalle lacrime, nel 1990 la Thatcher lasciò Downing Street. I conservatori ancora oggi non sanno che farsene della sua eredità, la rivendicano e la rifuggono, perché s’affidano più al consenso che alle idee. Lei avrebbe voluto combattere ancora, non ha mai perdonato il tradimento dei suoi, né poteva accettare la condanna finale, quella che manda in frantumi in un colpo solo i tomi sulle donne che vogliono avere tutto, carriera, famiglia, popolarità e compagnia: “La casa è dove torni quando non hai niente di meglio da fare”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi