La guerra di coltello della Cia (che non è più se stessa)

Daniele Raineri

Mark Mazzetti è un cronista del New York Times, si occupa di sicurezza nazionale, terrorismo e servizi segreti. Ha studiato dai gesuiti, ha un master in Storia a Oxford, è diventato una firma conosciuta durante gli anni del presidente George W. Bush con una serie di scoop sui misfatti compiuti dalla Cia (gli valsero una nomination al premio Pulitzer nel 2008, lo prese l’anno dopo). Mazzetti era “la buca delle lettere” degli insoddisfatti dell’agenzia di intelligence di Langley. Riceveva e pubblicava, dopo un gran lavoro giornalistico di verifiche e di contesto. Quando da dentro la sede dei servizi segreti volevano combattere la linea politica dettata dal governo, ecco arrivare l’articolo sul New York Times servito da Mazzetti grazie a “fonti che vogliono rimanere anonime”.

    “La Cia può accendere a distanza un telefono cellulare spento in Pakistan e ottenere la posizione del proprietario”.

    Mark Mazzetti è un cronista del New York Times, si occupa di sicurezza nazionale, terrorismo e servizi segreti. Ha studiato dai gesuiti, ha un master in Storia a Oxford, è diventato una firma conosciuta durante gli anni del presidente George W. Bush con una serie di scoop sui misfatti compiuti dalla Cia (gli valsero una nomination al premio Pulitzer nel 2008, lo prese l’anno dopo). Mazzetti era “la buca delle lettere” degli insoddisfatti dell’agenzia di intelligence di Langley. Riceveva e pubblicava, dopo un gran lavoro giornalistico di verifiche e di contesto. Quando da dentro la sede dei servizi segreti volevano combattere la linea politica dettata dal governo, ecco arrivare l’articolo sul New York Times servito da Mazzetti grazie a “fonti che vogliono rimanere anonime”. Spesso era materiale potente. Nel 2007 fu lui a rivelare che la Cia aveva distrutto i video di alcuni interrogatori per timore di essere accusata di torture – un’inchiesta che insegue ancora oggi il nuovo direttore della Cia, John Brennan. L’atteggiamento e i sentimenti della redazione del New York Times verso la Casa Bianca sono cambiati con l’arrivo di Barack Obama. Dal 2009 non c’è più bisogno di fare la guerra all’Amministrazione, anzi: tra il governo americano e il giornale più influente d’America si è aperta una fase di collaborazione. Non è dichiarata, ma è implicita, nei fatti. Mazzetti continua a produrre scoop sui servizi segreti e sul terrorismo, ma ora sono di segno diverso. Non sono più scomodi, imbarazzanti, adatti a incalzare e tenere sotto pressione il potere politico. Rappresentano invece un’Amministrazione americana impegnata senza soste sul fronte della lotta al terrorismo, come una macchina da guerra (qui sotto Mattia Ferraresi spiega i rapporti tra la Cia, il Pentagono e i giornali americani). Nel 2012, Mark Mazzetti ha preso un periodo sabbatico di quindici mesi lontano dalla redazione del New York Times per dedicarsi alla scrittura del suo primo libro, uscito martedì scorso: “The way of the knife”, (512 pp., Penguin Press) “Il metodo del coltello”. Il titolo è stato ispirato da un discorso di John Brennan, quando ancora non era direttore della Cia. Disse che a differenza dei conflitti in Iraq e Afghanistan, dove l’America aveva usato il martello, in questo nuovo tipo di guerra portata avanti nell’ombra sarebbe stato necessario usare “il bisturi”. Brennan voleva comunicare un’idea di precisione chirurgica, di interventi studiati e rigorosamente necessari e con effetti contenuti. Mazzetti ora sostiene che è più realistico dire che la nuova guerra è combattuta con il coltello: “E a volte i combattimenti con i coltelli diventano un macello”. Il libro è lungo cinquecento pagine ed è il frutto di ricerche, interviste e ricostruzioni. In queste due pagine si prova a riferirne i contenuti più succosi. Sempre tenendo a mente lo schema: Cia di Bush uguale guerra sporca, Cia di Obama uguale efficienza micidiale, la Cia è comunque sempre meglio del Pentagono.

    “The Cia gets what it wants”.

    La Cia ottiene quello che vuole: sono le parole pronunciate da Obama alla fine di una riunione nella Situation Room della Casa Bianca per tagliar corto sopra le proteste e le beghe delle altre agenzie del governo. E’ anche il refrain del libro. Durante gli anni del primo mandato di Obama, il direttore dell’agenzia Leon Panetta vince automaticamente tutte le battaglie perché sa di avere le spalle coperte dall’autorità massima del presidente, in ogni frangente. Oltre a vedere approvate l’espansione del programma droni e l’apertura di nuove basi in giro per il mondo, ottiene persino il licenziamento del suo superiore, Dennis Blair, a capo della Direzione nazionale dell’intelligence, quando osa interferire con uno dei sacri principi che regolano l’esistenza della Cia, ovvero che c’è una linea diretta tra Langley e il presidente. Blair commette un errore fatale. Mette in dubbio il troppo affidamento che secondo lui l’agenzia fa sugli omicidi mirati con i droni e si chiede – durante un discorso pubblico – se per l’America non sia il caso di tornare “a metodi e strumenti tradizionali in luoghi che un tempo erano raggiungibili soltanto con azioni clandestine”. Parole soavemente diplomatiche, ma il riferimento è chiaro. Panetta prende nota. Un mese più tardi, Blair è cacciato.
    Nel 2011 l’ambasciatore di Obama in Pakistan, Cameron Munter, non è contrario al programma droni, ma è convinto che la Cia è troppo spericolata e che la sua posizione come diplomatico stia diventando insostenibile. I suoi rapporti con il capo della stazione Cia di Islamabad, già messi a dura prova dal processo a Raymond Davis – un contractor americano dei servizi segreti arrestato per aver ucciso a colpi di pistola due ladri per strada, non un modello di discrezione operativa – si deteriorano ancora di più quando Munter chiede che la Cia lo avverta in anticipo di ogni bombardamento e gli conceda pure un diritto di veto per bloccare, se è il caso, l’operazione. Nel corso di un litigio furioso, Munter tenta di far capire al suo interlocutore chi comanda davvero in Pakistan. Ne esce scornato. “Non sei tu l’ambasciatore americano in Pakistan!”. “Hai ragione e non ci tengo nemmeno a esserlo”, si sente rispondere dall’uomo della Cia. La battaglia territoriale si sposta a Washington. E un mese dopo l’uccisione di Osama bin Laden i membri del Consiglio nazionale di sicurezza si scontrano apertamente su chi sia davvero al comando delle operazioni americane in Pakistan. All’incontro del giugno 2011, Munter in teleconferenza sostiene la necessità di avere, con terminologia calcistica, il potere di estrarre un “cartellino rosso” per fermare gli strike. Il direttore della Cia, Leon Panetta, lo interrompe a metà frase. La Cia ha l’autorità di fare quello che vuole in Pakistan. Non ha bisogno dell’approvazione dell’ambasciatore in nessun caso. “Non lavoro per te”, dice Panetta a Munter, secondo chi era presente all’incontro. Interviene il segretario di stato, Hillary Clinton, a difendere il suo uomo. Panetta sbaglia se pensa di avere il potere di scavalcare l’ambasciatore e di lanciare i bombardamenti con i droni senza la sua approvazione. “No Hillary – risponde il capo della Cia – sei tu quella che sbaglia”. Segue silenzio generale sbigottito. La Cia di Obama zittisce anche il dipartimento di stato. Anche in quel caso, ottiene quello che vuole. Verosimilmente, le cose stanno ancora così.

     “Non più un servizio tradizionale di spionaggio, specializzato nel rubare segreti a governi stranieri, la Cia ora è diventata una macchina per uccidere, un’organizzazione consumata dalle cacce all’uomo”.

    Subito dopo l’11 settembre, la Direzione delle operazioni della Cia reclutò agenti per un nuovo programma: infiltrare piccole squadre di assassini in paesi stranieri per dare la caccia e uccidere una lista di persone individuate dall’Amministrazione Bush. Tra i paesi destinati a diventare “terreno di caccia” c’erano scelte ovvie, come il Pakistan, ma anche sorprendenti, come la Germania. Il vicepresidente Dick Cheney fu un grande sostenitore di questo piano, ma non se ne fece nulla. La Cia tuttavia scelse di conservare il programma in vita, nel caso diventasse attuale e necessario. Quando il presidente Obama arrivò alla Casa Bianca lo bocciò (probabilmente questa è la ragione per cui l’informazione arriva ora al pubblico. Nel 2001 il programma droni era ancora agli inizi: oggi non c’è bisogno di mandare agenti, nella maggior parte dei casi). Anche il Pentagono voleva infiltrare squadre speciali in paesi stranieri, ma senza che le ambasciate americane e i capistazione locali della Cia ne fossero a conoscenza. Per questo spedì un memo segreto a tutti gli attacché militari (sono gli ufficiali di collegamento che risiedono nelle ambasciate) sparsi nei paesi nel mirino dei generali, in cui chiedeva di non dire nulla agli ambasciatori – tecnicamente i loro superiori – e ai servizi segreti. Quasi tutti lo ignorarono. Subito gli ambasciatori protestarono in massa con il segretario di stato.

    “Il Pentagono cominciò ad avere bisogno di mandare i suoi soldati in posti dove – secondo le leggi e la tradizione – prima soltanto alle spie era permesso di andare”.

    La guerra di coltello della Cia si combatte dovunque, ma soprattutto dentro il Pakistan, lo stato alleato che diventa il simbolo dei luoghi ostili e indecifrabili per i servizi segreti americani. Mazzetti rivela che dopo l’11 settembre, quando l’America era sul punto di attaccare i talebani che davano rifugio a Osama bin Laden in Afghanistan, il segretario di stato americano Colin Powell era adamantinamente convinto che il Pakistan avesse abbandonato il Mullah Omar e i suoi al loro destino. Scrisse un memo segreto per il presidente Bush, insistendo sul punto. Aveva terribilmente torto. Questo equivoco si trascinerà a lungo nella politica estera americana.
    Salto in avanti di dieci anni, estate 2011. C’è un avvertimento dell’intelligence su due camion carichi di fertilizzante diretti dal Pakistan verso l’Afghanistan, confusi tra i convogli infiniti che portano rifornimenti alla Nato. Il fertilizzante al nitrato d’ammonio è la base – mescolato assieme a carburante diesel – per fare un potente esplosivo usato negli attentati. L’avvertimento dice che i due camion potrebbero essere usati per attaccare basi americane in Afghanistan. I militari telefonano al capo di stato maggiore in Pakistan, il generale Kayani, per avvisarlo e ottengono la promessa che i camion saranno bloccati prima che possano raggiungere il confine. In realtà i pachistani non fanno nulla. I veicoli stanno fermi nella regione del Waziristan per due mesi, mentre gli uomini dell’Haqqani network – uno dei gruppi terroristi più pericolosi dell’area – li trasformano in bombe su ruote, potenti abbastanza per uccidere centinaia di persone. L’intelligence americana non ha un’idea chiara della loro posizione, ma il capo di stato maggiore americano, l’ammiraglio Mike Mullen, è fiducioso: le spie pachistane grazie ai loro contatti di lunga data sapranno trovarli e fermare l’attacco. Mike Mullen è considerato a Washington l’uomo con i migliori contatti con il Pakistan, grazie soprattutto alla sua relazione amichevole e personale con il generale Kayani coltivata negli anni con pazienza. L’americano è convinto che la controparte sia un nuovo tipo di ufficiale pachistano, che capisce che i legami con i gruppi terroristi sono un patto suicida per il paese. Il 9 settembre 2011 i camion muovono verso l’Afghanistan. Il comandante delle truppe americane nella regione, John Allen, vola a Islamabad e chiede a Kayani di fermare i camion, il generale risponde: “Farò una telefonata per prevenire ogni possibile attacco”. Le parole gelano lo staff americano, indicano rapporti ancora più stretti di quanto si pensasse tra gli apparati di sicurezza pachistani e il gruppo Haqqani. Alla vigilia del decimo anniversario dell’attacco dell’11 settembre, uno dei due camion accosta al perimetro di una base militare a Wardak, nell’Afghanistan orientale. Lo scoppio abbatte un lato del muro di difesa, uccide una bambina afghana a mezzo chilometro di distanza e ferisce settanta marine americani. Pochi giorni dopo, l’ammiraglio Mullen sale al Congresso per essere ascoltato come capo di stato maggiore. Il dipartimento di stato ha tentato di limare il suo discorso, senza successo. I servizi segreti pachistani comandano la guerriglia in Afghanistan, dice Mullen davanti alla commissione, e hanno le mani sporche del sangue di soldati americani e civili afghani. “Il gruppo Haqqani – dice Mullen – agisce come il braccio armato dei servizi segreti militari del Pakistan”. La relazione tra i due vecchi amici, Mullen e Kayani, muore. Non si parleranno più dopo quel giorno.
    Due giorni fa un altro giornalista specializzato in sicurezza nazionale, Tom Ricks, ha fatto un’intervista a Mazzetti per Foreign Policy e ha trovato una definizione efficace: la guerra del coltello è “la terza guerra” di questa fase storica dell’America, dopo Iraq e Afghanistan.

    “Le fondamenta della guerra segreta furono gettate da un presidente repubblicano e poi abbracciate da uno democratico liberale che si innamorò di quello che aveva ereditato. Il presidente Barack Obama cominciò a considerarla come un’alternativa alle guerre costose e incasinate che rovesciano governi e richiedono anni di occupazione americana”.

    Il primo test con un drone armato di missili fu a China Lake, in California, nel gennaio 2001, tre giorni dopo l’inaugurazione della prima presidenza di George W. Bush. Ma si tratta di un programma bellico democratico per eccellenza, sviluppato durante il mandato di Bill Clinton e portato a vette di spietata efficienza sotto Barack Obama, per le sue caratteristiche: è discreto, è più preciso di altre armi, ha effetti circoscritti, non mette a repentaglio la vita di militari americani. Quel giorno il drone centrò il suo bersaglio, un carro armato, e tornò alla base senza danni. La Cia però si interessò al programma soltanto nel 2004, dopo un disastroso rapporto interno dell’ispettore generale dell’agenzia, che criticava duramente le torture e le extraordinary rendition. La prima prigione segreta della Cia, poi conosciute come black hole, buchi neri, fu aperta in Thailandia e il suo nome in codice era “cat’s eye”. Nel giugno 2003 la Cia bloccò un annuncio dell’Amministrazione Bush, che intendeva esprimere solidarietà alle vittime di torture in tutto il mondo. Gli Stati Uniti, spiegò, non avrebbero potuto legalmente dire di essere “impegnati nell’eliminazione della tortura in tutto il mondo”.

    Cuba divenne la raccomandazione più caldeggiata dalla Cia per la nuova prigione americana e molto presto l’agenzia costruì le sue celle segrete in un angolo del centro di detenzione di Guantánamo Bay. Una prigione di massima sicurezza che fu soprannominata dagli agenti della Cia “Strawberry Fields”, perché i prigionieri sarebbero stati tenuti rinchiusi là dentro, come cantavano i Beatles, “forever”.

    Un giornalista yemenita ha passato due settimane con i leader di al Qaida nella penisola araba (AQAP) e descrive le procedure di sicurezza che usano per evitare di essere colpiti dal cielo. Se un jet yemenita è in avvicinamento non si muovono, perché “gli aerei yemeniti non centrano mai il bersaglio”. Se invece sentono il caratteristico ronzio di un drone americano fanno l’opposto, spengono i telefonini, saltano sulle macchine e scappano, perché “i droni non riescono a colpire bersagli in movimento”. Gli uomini di al Qaida hanno scoperto un punto debole dei droni. I piloti sono distanti migliaia di chilometri in una base negli Stati Uniti e sono collegati ai velivoli via satellite, quindi il segnale viaggia in ritardo di pochi secondi su quello che avviene “in diretta”. Per anni il problema ha reso la vita difficile ai piloti di droni della Cia e del Pentagono, e potrebbe spiegare alcuni bersagli mancati e i casi di vittime civili, anche se sembra essere stato risolto con l’aiuto di puntatori laser.

    “Rumsfeld raccolse i suoi pensieri in un memorandum segreto per il presidente Bush. La guerra sarà globale, disse, e gli Stati Uniti dovevano essere all’altezza degli obiettivi finali. ‘Se la guerra non cambia significativamente la mappa politica del mondo’, scrisse al presidente, ‘gli Stati Uniti non avranno raggiunto il loro scopo’”.

    La Cia attacca con i droni in Pakistan per la prima volta nel giugno 2004. Il bersaglio non è un capo di al Qaida, ma è un leader della guerriglia locale. Si chiama Nek Muhammad, è a capo di una rivolta semipermanente degli abitanti del Waziristan contro il governo centrale, allora guidato dal presidente Pervez Musharraf (che ora è tornato in Pakistan perché vuole correre alle elezioni di giugno – ma ha poche speranze). Muhammad è una spina nel fianco per il presidente e per i servizi segreti militari pachistani. Accetta tregue con l’esercito, dichiarate nel corso di affollate cerimonie di pace in cui lui e i generali si scambiano ghirlande di fiori e offerte solenni d’amicizia, ma si tratta soltanto di pause tattiche, poi la guerra ricomincia. Il problema è che il Waziristan è un’area bellicosa e ripida, tutta colline e poche strade, i waziri sono delle tigri, i soldati del governo non riescono a fare progressi, dal vicino Afghanistan i talebani che ancora nel 2004 non sono abbastanza forti per la guerra aperta contro gli americani vengono a prestare aiuto – tanto basta attraversare un confine che nemmeno è riconosciuto dai locali. La Cia nel frattempo dà la caccia agli uomini di al Qaida fuggiti dall’Afghanistan e ospiti nelle stesse zone. Il nuovo programma con i droni è ancora nella sua fase sperimentale, ha funzionato bene in Yemen due anni prima – un singolo attacco – ma è disprezzato dalla maggioranza degli agenti Cia. Sono gli albori della svolta cruciale nella storia delle operazioni segrete della Cia, ma non è ancora riconosciuta. “The boys with toys”, i ragazzi con i giocattoli, è il nome di chi si occupa del programma droni. Più degli ostacoli tecnici, ci sono da mettere le cose a posto dal punto di vista diplomatico. Se l’America colpisce davvero gli uomini di al Qaida con i droni, allora la Cia tecnicamente sta bombardando il territorio e la popolazione di un paese alleato. Inoltre ha bisogno di una base segreta nei paraggi, per montare un’operazione di sorveglianza dall’alto in grande stile su quelle zone. Queste due necessità si incontrano in un patto segreto. I pachistani danno il permesso agli americani di far decollare i droni da una base segreta vicino a Quetta e di colpire, ma in cambio chiedono e ottengono la testa di Nek Muhamamad – e anche di chi quel giorno si trova per caso in casa sua, compresi due ragazzi di 10 e 16 anni. Il primo di centinaia di bombardamenti in Pakistan non è contro un leader di al Qaida; è contro un leader locale, che non minaccia direttamente gli Stati Uniti. I servizi di Washington elaborano una giustificazione per l’uccisione, sostengono che Nek Muhammad con la sua campagna contro il governo di Islamabad e a favore dei talebani aiuta al Qaida. In realtà è un “goodwill strike”. Un bombardamento per dimostrare buona volontà. “Ma come spiegherete gli strike al pubblico?”, chiedono gli americani a Musharraf. “Cadono cose di continuo dal cielo, non ci faranno caso”. Il generale Shaukat Sultan, portavoce dell’esercito, ridicolizza qualsiasi domanda sul possibile coinvolgimento degli americani nella morte di Nek Muhammad. “E’ una cosa totalmente assurda”. In realtà, ci faranno caso. Cominciano a girare le foto dei dettagli dei frammenti dei missili, con le stampigliature in inglese, e poi, mentre il programma va avanti, si accumulano testimonianze, c’è il ronzio acuto emesso dai droni, e pure il loro luccichio metallico nei cieli delle aree tribali. La finzione va avanti per anni, fino al libro di Mazzetti. Washington non ammette di avere un programma droni in Pakistan – e questo si sa – il governo del Pakistan aveva sempre sostenuto che si tratta di una campagna di bombardamenti lanciata dagli americani a sua insaputa. In fin dei conti, è un’altra pezza d’appoggio ufficiale concessa a Obama. Bombarda il Pakistan, ma ha il permesso dei pachistani.


    “Prima degli attacchi dell’11 settembre, il Pentagono si dedicava poco allo spionaggio fatto con gli agenti e la Cia non aveva più ufficialmente il permesso di uccidere. Negli anni successivi hanno avuto entrambe le cose, in grande quantità, ed è emerso un complesso militare-spionistico per far funzionare il nuovo modo americano di fare la guerra”.

    Trentacinque anni fa, quando sono usciti i dettagli rovinosi sui tentativi della Cia di assassinare capi di stato stranieri, il presidente Gerald Ford ha imposto ai servizi segreti il divieto di uccidere. Sperava di mettere un ostacolo sulla strada dei presidente futuri che avessero sentito la tentazione di autorizzare le “black operation”. Ma nel decennio successivo all’11 settembre, un battaglione agguerrito di esperti legali ha redatto dossier interi su come gli omicidi mirati della Cia e del Pentagono anche lontano da zone di guerra dichiarata non violano il divieto del presidente Ford. Scrive Mazzetti: “Proprio come gli avvocati al servizio del presidente Bush hanno ridefinito la tortura per consentire alla Cia e ai militari tecniche di interrogatorio estreme, così gli avvocati del presidente Obama hanno dato alle agenzie segrete lo spazio per lanciare grandi ‘killing operation’”. Uno di questi esperti legali è stato Harold Koh, che viene dalla scuola di legge di Yale, dov’era preside. Era stato un critico deciso e da sinistra della guerra al terrore dell’Amministrazione Bush e aveva denunciato i metodi d’interrogatorio della Cia – incluso il waterboarding – come torture illegali. Ma quando si è unito al governo in qualità di massimo esperto legale al dipartimento di stato, si è trovato a passare ore su dossier di terroristi preparati e passati sul suo desk dai servizi segreti, per decidere chi dovesse vivere e chi invece dovesse essere ucciso. Oggi nei discorsi pubblici è schierato con convinzione a difesa delle operazioni di assassinio mirato e sostiene che in tempo di guerra il governo americano non ha alcun obbligo di dare ai sospetti un giusto processo prima di metterli sulla lista dei bersagli. Eppure, scrive il giornalista del New York Times, in momenti di riflessione pubblica l’ex preside di Yale parla del peso psicologico di passare tutto quel tempo a leggere le biografie dei giovani che gli Stati Uniti stavano decidendo di uccidere o risparmiare. “Ho passato molte ore a Yale a leggere i curriculum di studenti ventenni, per capire chi di loro potesse essere ammesso alla facoltà”, disse Kohl in un discorso. “Ora passo un tempo più o meno simile a studiare curriculum di terroristi che hanno la stessa età. A leggere di come sono stati reclutati. Della loro prima missione. La seconda missione. Spesso finisco per conoscerli bene come fossero miei studenti”.
    Nel luglio 2004 la Commissione d’inchiesta sull’11 settembre concluse che la Cia avrebbe dovuto abbandonare le attività paramilitari. Non ha senso, scrisse, che la Cia e il Pentagono siano entrambi e allo stesso tempo impegnati a fare guerre clandestine. L’Amministrazione Bush prima e poi l’Amministrazione Obama, in misura molto maggiore, sono andate in senso contrario a quella raccomandazione: “La Cia e il Pentagono si contendono con gelosia i pezzi dell’architettura della guerra clandestina, una base di droni in Arabia Saudita, un’ex installazione della legione straniera a Gibuti... ”. Il Pentagono investe risorse massicce per costruire una rete di spionaggio simile alla vecchia Cia. “C’è un’agenzia d’intelligence che combatte una guerra e un’organizzazione militare che cerca di raccogliere intelligence – dice George Jameson, un avvocato con trent’anni di lavoro nei servizi segreti – va tutto a rovescio”.
    Non sarà Obama a correggere questa deviazione. Nella campagna elettorale del 2012 ha spesso alluso alla guerra di coltello come a un segno della durezza del commander in chief. Ricorda Bush nei giorni successivi all’11 settembre, commenta Mazzetti. Quando un reporter gli ha chiesto conto delle accuse dei repubblicani, che lo dipingevano come troppo incline all’appeasement, ha risposto: “Chiedete a Osama bin Laden. Chiedete ai ventidue leader di al Qaida, su una lista di trenta, che sono stati spazzati via”.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)