Il decotto della regina
Nel maggio del 2012, un liceale del Maryland, il quindicenne Jack Andraka, ha vinto il primo premio della International Science and Engineering Fair per una scoperta semplice e straordinaria, grazie alla quale sarà possibile diagnosticare in modo più facile e molto più precoce vari tumori, tra i quali quello del pancreas. La rivista Forbes ha scritto che il test ideato da Jack Andraka “è centosessanta volte più rapido, cento volte meno caro, quattrocento volte più sensibile dei precedenti” . Consiste in un sensore cartaceo dal costo di tre centesimi, da immergere in una soluzione di nanotubi di carbonio e da far reagire con una goccia di sangue.
Nel maggio del 2012, un liceale del Maryland, il quindicenne Jack Andraka, ha vinto il primo premio della International Science and Engineering Fair per una scoperta semplice e straordinaria, grazie alla quale sarà possibile diagnosticare in modo più facile e molto più precoce vari tumori, tra i quali quello del pancreas. La rivista Forbes ha scritto che il test ideato da Jack Andraka “è centosessanta volte più rapido, cento volte meno caro, quattrocento volte più sensibile dei precedenti” . Consiste in un sensore cartaceo dal costo di tre centesimi, da immergere in una soluzione di nanotubi di carbonio e da far reagire con una goccia di sangue. Cinque minuti di attesa, e si è in grado di sapere se il livello di mesotelina (un marcatore tumorale), deve preoccupare o no (è appena il caso di ricordare come la tempestività della diagnosi coincida con più possibilità di guarigione, e che il “test Andraka” potrebbe segnare una svolta molto importante).
Il ragazzino del Maryland – che ha cominciato le sue ricerche nel classico garage di casa, tra la bicicletta e il biliardino, e che, dopo più di duecento rifiuti da parte di altrettanti laboratori universitari consultati via Internet, ha potuto verificare la propria intuizione grazie a un lungimirante patologo della John Hopkins University, che gli ha messo a disposizione un laboratorio – è un perfetto dilettante. Mosso dal grande dispiacere per la morte di un amico dei genitori, che il ragazzo considerava uno zio, si è applicato allo studio della malattia che lo aveva ucciso. E sono state proprio la sua inesperienza e la sua assoluta “mancanza di formazione”, ha scritto lo Smithsonian magazine, “a fornire soluzioni eleganti” e nuove al problema che si era messo in testa di risolvere, a partire dall’idea di usare materie prime semplici e poco costose.
Anche la cronaca contemporanea conferma quindi che il Metodo Scientifico, inteso come processo razionale di passi successivi e obbligati, ben padroneggiati da esperti riconosciuti e chierici laureati, non solo non è mai esistito in quanto tale nemmeno nelle scienze “dure” come la fisica o la matematica; ma che, a maggior ragione nella medicina, arte umanistico-scientifica più che scienza vera e propria, capita che l’accademia debba cedere il passo all’intuito dei profani, capaci di vincere dove il Metodo fallisce, proprio perché prendono scorciatoie apparentemente irrazionali o trascurate in precedenza.
Questo ci dice anche un libro appena uscito per Bollati Boringhieri, di cui è autore lo storico della Medicina Paolo Mazzarello, docente all’Università di Pavia. Il libro si intitola “L’erba della regina. Storia di un decotto miracoloso”, e riporta alla luce una vicenda dimenticata, avvenuta nella prima metà del Novecento. I protagonisti sono una malattia misteriosa e devastante (l’encefalite letargica), un guaritore bulgaro di nome Ivan Raev (bracciante, pastore, gran conoscitore di erbe) e la regina Elena di Savoia, la moglie montenegrina di Vittorio Emanuele III.
A rigore, però, la vera protagonista è lei, l’“erba della regina”, l’Atropa Belladonna. Pianta comunissima e perenne, appartenente alla famiglia delle Solanacee come il pomodoro e la patata, conosciuta fin dall’antichità per le virtù spasmolitiche e anche perché le bacche, simili a quelle del mirtillo, sono in grado, ingerite, di provocare allucinazioni, convulsioni e, nei casi più gravi, morte. “Pharmakos” nel più puro e bifronte senso greco – rimedio e veleno allo stesso tempo – l’Atropa Belladonna era considerata un’erba delle streghe, come lo stramonio e la mandragora. La prima parte del suo nome coincide con Atropo, la terza Moira, quella che tagliava con le cesoie il filo della vita filato da Cloto e avvolto sul fuso da Lachesi. Mentre il nome belladonna, scrive Mazzarello, si deve forse al fatto che “qualche goccia del succo della pianta avrebbe reso gli occhi femminili luminosi e sognanti”. Oppure, “secondo un’altra interpretazione, il vocabolo discenderebbe da ‘belle-femme’, un’espressione medievale francese adoperata per additare le streghe che utilizzavano la pianta nelle preparazione di pozioni e di unguenti rituali”. Sarebbero state proprio effetto della belladonna le allucinazioni – a base di voli notturni e di incontri carnali con il diavolo durante il sabba – raccontate da donne accusate (e disposte ad ammettere le accuse) di stregoneria.
Quella “pianta che racchiudeva l’intero arco dell’esistenza, la vita e la morte”, era ben conosciuta anche dal bulgaro Ivan Raev. Uno dei tanti, oscuri guaritori che, ancora nella prima metà del Novecento, percorreva le campagne del paese balcanico, terra di confine tra oriente e occidente, offrendo rimedi e consulenze a metà strada tra medicina tradizionale e magia. In Bulgaria, da sempre, per la grande varietà della flora, prosperava infatti “una terapeutica autoctona basata sulla raccolta delle piante medicinali e su una sapienza contadina che si trasmetteva di padre in figlio o all’interno di gruppi ristretti”, scrive Mazzarello.
La “staro bilé”, vecchia erba, o ‘ludo bilé”, erba pazza (i nomi tradizionali bulgari della belladonna) si sarebbe rivelata decisiva per curare i postumi – capaci di manifestarsi anche a molti anni di distanza – dell’encefalite letargica. Una malattia che flagellò l’Europa, per poi diffondersi in tutto il mondo, al termine del primo conflitto mondiale e fino alla metà degli anni Venti. Un morbo misterioso, che si era sovrapposto alle sofferenze lasciate dalla guerra e aveva collaborato con la devastante pandemia di spagnola, tra il 1918 e il 1920, a decimare la già esausta popolazione del Vecchio continente.
L’encefalite letargica – provocata da un virus a tutt’oggi sconosciuto: sono molte le lezioni di umiltà che questa storia riserva alla Scienza medica maiuscola – si manifestava con persistente sonnolenza, tremori, difficoltà di movimento, e nella metà dei casi sfociava nella paralisi e nella morte. Non esisteva cura. Chi sopravviveva alla fase acuta di quella “malattia del sonno” che ricordava un analogo morbo bovino (curato dal padre contadino di Ivan Raev proprio con la belladonna stregonesca), a distanza di molti anni poteva cadere in uno stato patologico con caratteristiche simili al Parkinson. Incapaci di parlare, di muoversi, di provvedere ai minimi bisogni della vita, di volta in volta agitati o completamente assenti, oltre che afflitti da dolorosissismi disturbi causati da movimenti automatici degli occhi, questi malati sono gli stessi descritti, in una fase molto più tardiva e catatonica della malattia, dal neurologo americano Oliver Sacks nel suo famoso “Risvegli” (Adelphi), pubblicato nel 1973 e da cui fu tratto nel 1990 l’altrettanto noto film con Robin Williams e Robert De Niro. Quelli raccontati da Sacks erano i pazienti americani ricoverati al Mount Carmel Hospital di New York, che da bambini o da adolescenti erano stati colpiti dall’encefalite letargica. Rimasti inerti e incapaci di comunicare con il mondo per decenni, furono “risvegliati” per alcuni mesi dalla somministrazione di una sostanza usata nel Parkinson, la levo-dopa, che li riportò provvisoriamente alla coscienza, prima del definitivo ritorno nella “notte encefalitica”, a mano a mano che il loro organismo si assuefaceva a quella cura.
Torniamo al bulgaro Ivan Raev. Nell’estate del 1922, mentre percorreva le campagne del distretto di Chirpan alla ricerca di erbe, trovò ospitalità in un casolare dove giaceva, moribonda, una donna che mostrava i tipici sintomi tardivi dell’encefalite letargica, già noti a Raev. Il guaritore si ricordò della malattia del sonno bovina, curata dal padre con la belladonna, e anche di un episodio avvenuto dieci anni prima. Raev aveva visto un giovane in preda a delirio psicomotorio – probabilmente si trattava proprio della fase acuta dell’encefalite letargica – arrivare in punto di morte ma poi guarire completamente dopo aver ingerito bacche di belladonna. Raev sapeva bene che quella pianta poteva essere fatale, ma decise di fidarsi della propria intuizione: “Fece bollire una piccola quantità di radici e somministrò il decotto di belladonna alla paziente. Poi ordinò che portassero del latte da porre a fianco della malata, perché potesse berne a sazietà”.
La storia narra che il guaritore, mentre la donna peggiorava rapidamente, se la diede a gambe di nascosto nel timore delle rappresaglie della famiglia, casomai fosse accaduto il peggio. Ma il peggio non accadde. La donna guarì, e Raev lo venne a sapere qualche tempo dopo, quando la notizia del miracolo, di villaggio in villaggio, arrivò fino a lui. Da quel momento, il praticone erborista completamente privo di credenziali accademiche lavorò alla messa a punto di una terapia per quella sindrome molto diffusa che si manifestava in chi, dieci o anche dodici anni prima, era sopravvissuto all’encefalite letargica. Persone che miglioravano clamorosamente, fino alla completa guarigione, con la somministrazione di decotto vinoso di radici di belladonna e di altre sostanze accessorie, dedicate a mitigare gli effetti collaterali dell’erba pazza: noce moscata, calamo aromatico, carbone vegetale, molluschi disseccati, canfora, cannella, rabarbaro, menta… La fama del “trattamento Raev” andava crescendo nel paese, anche in ambiente medico ufficiale, e raggiunse la casa reale bulgara. In particolare, colpì l’attenzione del re Boris III, che nutriva robusti interessi naturalistici ed era uno studioso appassionato di lepidotteri, rettili e piante alpine. “Poi avvenne un evento del tutto imprevedibile. Un colonnello italiano che si trovava in Bulgaria venne colpito da encefalite e sviluppò una sindrome parkinsoniana. Venne richiesto l’intervento di Raev. Il guaritore somministrò la sua pozione e i risultati furono entusiasmanti, oltre ogni aspettativa”. Fu così che “la notizia del trattamento empirico del guaritore popolare bulgaro fece il suo ingresso in Italia per via regale. E trovò la sua convinta sostenitrice. Una donna alla quale non si poteva dire di no”.
Quella donna era la regina Elena. La bella Jelena montenegrina dai folti capelli neri e dall’altezza spropositata per i tempi (un metro e settantasette), ma soprattutto rispetto al suo piccolo e molto amato consorte, il re Vittorio Emanuele III. Una donna robusta, amante della vita all’aria aperta, addestrata dall’infanzia e dall’adolescenza nel suo paese di re pastori all’intimità con la natura e i suoi rimedi. Ovviamente, “fra le erbe usate nella medicina popolare montenegrina vi era anche la belladonna, impiegata nella cura del tremore e di altri disturbi”. Colei che ancora si chiamava Jelena, alla serba, aveva acquisito fin da ragazza, sull’erba delle streghe, “una profonda competenza”, della quale si “dovette ricordare molti anni dopo, in un altro paese, di fronte a una nuova malattia”. Diventata Elena (nome che mai le piacque), regina d’Italia, poté dare libera espressione al suo talento naturale per la medicina e la cura. Terapie e rimedi erano i suoi prediletti argomenti di conversazione, e ben cinquantadue donne (donne del popolo, cameriere, mogli di inservienti e di guardacaccia) se la trovarono accanto, esperta ostetrica d’eccezione, al momento del parto.
Nella tenuta di San Rossore, nel 1927, i reali italiani avevano ricevuto in visita Boris di Bulgaria, che avrebbe poi sposato la loro figlia Giovanna. Fu direttamente dal futuro genero che Elena seppe dei successi del “metodo Raev” nella cura dei postumi dell’encefalite. Da quel momento, nulla poté fermarla. Riuscì a far convalidare da un importante neuropatologo italiano, Giuseppe Panegrossi, la terapia a base di decotto di belladonna escogitata da Ivan Raev (si poteva negare qualcosa alla regina d’Italia?) e, agli inizi degli anni Trenta, favorì l’afflusso dalla Bulgaria di grandi quantità dei preparati che il guaritore, nel frattempo, aveva cominciato a produrre su larga scala. La cura alla belladonna fu somministrata a pazienti italiani sotto la supervisione di Panegrossi, mentre la Real casa veniva travolta dalle richieste: erano migliaia, in tutto il paese, le persone che ancora soffrivano dei postumi dell’encefalite letargica, ed Elena voleva aiutare tutti. Non solo pagava con il proprio appannaggio la “cura bulgara” e non smetteva di chiedere al re fondi da dedicare allo scopo; ma ottenne, nel 1934, che una sezione del Policlinico fosse riservata ai “suoi” pazienti. Fu il primo “Istituto Regina Elena per lo studio e la cura dell’encefalite”, quello che oggi chiameremmo un vero centro di eccellenza: “Vi era chi, entrato in ospedale completamente muto, era riuscito, dopo soli tre giorni, a raccontare tutta la sua storia”. Un altro, da sei anni incapace di scrivere, in una settimana riuscì a produrre una lettera di quattro pagine, “con calligrafia quasi perfetta”.
La regina non si accontentò. Volle che la terapia diventasse obbligatoria per tutti i malati italiani, e ottenne dall’allora ministro per la Previdenza sociale, Giuseppe Bottai, che negli ospedali dell’intera penisola si dedicassero reparti alla cura dei malati di parkinsonismo postencefalico. Per loro, fino a quel punto considerati incurabili e rassegnati a non guarire mai, “la cura bulgara era ormai diventata la ‘cura della regina’”.
Un’appendice di questa storia riguarda la Germania nazista. Lì, alla fine degli anni Trenta, fu silenziosamente avviato il programma eugenetico di eliminazione chiamato Aktion T4 (dall’indirizzo delle sede centrale, al numero 4 della Tiergartenstrasse di Berlino): “Migliaia di invalidi, oligofrenici, malati psichiatrici e neurologici ebbero il destino segnato”, riassume Mazzarello. Vite considerate “senza valore” e “indegne di essere vissute” furono soppresse nelle camere a gas. Tra quelle vite condannate, c’erano anche quelle dei pazienti postencefalici. Ma un neurologo di Dresda, Heinrich D. von Witzleben, incuriosito dalle notizie italiane sui successi della “cura bulgara”, scrisse su una importante rivista medica che anche in Germania si doveva provare a curare pazienti in grado, forse, di tornare a essere attivi. Von Witzleben passò dalle parole ai fatti e cominciò a procurarsi i preparati bulgari, passando per l’Italia. Nel frattempo, nel 1937, la regina Elena aveva fondato in Assia – dove viveva la figlia Mafalda, andata sposa al langravio d’Assia-Kassel – un istituto gemello di quello romano diretto da Panegrossi. Fu così che la “cura della regina”, nell’orrore delle eliminazioni di massa dei malati psichici, avrebbe alla fine offerto, almeno ai reduci dall’encefalite letargica, una possibilità di salvezza.
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