Noi, protogrillini
Il gruppo parlamentare radicale era minuscolo, ma si davano un gran da fare, sembravano il doppio. I loro uffici a Montecitorio erano sempre affollati, c’era sempre gente in attività tra i pesanti tavoli, le scrivanie, le sedie di pegamoide, gli armadi e le scansie a muro traboccanti dei faldoni dove veniva conservata in bell’ordine la documentazione del lavoro e delle iniziative dei deputati (i Radicali erano i soli ad archiviare con cura quel materiale; quando dovettero lasciare il Parlamento i faldoni finirono, dopo faticosi e inutili tentativi qua e là, alla Fondazione Feltrinelli, mi pare).
Il gruppo parlamentare radicale era minuscolo, ma si davano un gran da fare, sembravano il doppio. I loro uffici a Montecitorio erano sempre affollati, c’era sempre gente in attività tra i pesanti tavoli, le scrivanie, le sedie di pegamoide, gli armadi e le scansie a muro traboccanti dei faldoni dove veniva conservata in bell’ordine la documentazione del lavoro e delle iniziative dei deputati (i Radicali erano i soli ad archiviare con cura quel materiale; quando dovettero lasciare il Parlamento i faldoni finirono, dopo faticosi e inutili tentativi qua e là, alla Fondazione Feltrinelli, mi pare). Io ero diventato deputato a seguito della cosiddetta rotazione, una delle novità che i Radicali introdussero nel Parlamento italiano: a metà legislatura, gli eletti e in carica si sarebbero via via dimessi lasciando il posto ai loro successivi nella lista elettorale. Questi facevano però da subito parte del gruppo (erano i “deputati supplenti”), per impratichirsi o dare una mano. Tutti nel partito avevano accettato la proposta di Pannella, presto però cominciarono ad affiorare i distinguo: non solo all’esterno – dove parve una imposizione, offensiva per la dignità del Parlamento e dei parlamentari – ma anche nel partito e all’interno del gruppo. Mi ricordo di un deputato, un napoletano scanzonato ed esuberante che, chiestogli se avrebbe rispettato, alla scadenza, la norma della rotazione, per tutta risposta si alzò dalla sedia e le fece un giro intorno, per poi rimettersi seduto. “Ecco, ho fatto la rotazione”, commentò ilare.
Diciamolo, senza quella trovata io non sarei diventato un parlamentare. Per la verità, Pannella ebbe delle perplessità a che io entrassi a Montecitorio, venne convinto con qualche difficoltà. Arrivato in quelle stanze indaffarate mi sentii comunque un po’ a disagio; sapevo che i miei colleghi si erano già fatti una scaltrita esperienza, io ero a digiuno di tutto. Specialmente di quei regolamenti dei quali i Radicali erano invece espertissimi: il primo gruppo di eletti in Parlamento – quattro, nel 1976 – sconvolse le consuetudini di parlamentari che per le sottigliezze regolamentari si affidavano ai rispettivi capigruppo o alle indicazioni ricevute dai solerti funzionari. I quattro si misero di buzzo buono a studiare le norme del manuale loro distribuito, e presto riuscirono a interpretarle così bene da diventare interlocutori se non interpreti e protagonisti dei lavori d’Aula e di commissione. Erano in grado di metterli in crisi e bloccarli, o di accelerarli, quando lo reputavano necessario per fare emergere una questione che paresse loro importante. Scoprirono la possibilità di mettere in atto – nessuno ci aveva pensato, prima – il cosiddetto “filibustering”, l’ostruzionismo – una pratica tipica dei parlamenti democratici, come quello americano – che consentì loro di inceppare, con interventi lunghissimi, i tempi del dibattito (in una successiva legislatura, arrivarono anche a gareggiare tra loro su chi avrebbe resistito più a lungo a parlare senza interruzione restando rigorosamente in piedi, con la sola licenza di scappare ai gabinetti per necessità urgenti: il vincitore, mi pare di ricordare, superò le dieci ore). Alla fine i Radicali costrinsero la presidenza della Camera, in accordo con una opposizione “ufficiale” irritata di vedersi scavalcare nel ruolo, a modificare i regolamenti contingentando i tempi di intervento dei singoli parlamentari. Mi pare anche di ricordare che, per sollecitare un non so quale provvedimento, si siano almeno una volta rifiutati di uscire dall’Aula, rimanendo aggrappati ai loro seggi in una sorta di simbolica “occupazione” e uscendone solo trasportati fuori da aitanti commessi. In breve, insomma, i Radicali divennero maestri nello sparigliare il tran tran di tante prassi dal sapore un po’ rituale ma anche perbenista.
Avevano subito destato scandalo quando, al loro primo ingresso a Palazzo Montecitorio, Emma si era presentata in salopette e zoccoli di legno e aveva preso posto, assieme agli altri tre colleghi, sugli scranni più alti della sinistra, che il Pci considerava intangibilmente suoi: da quei seggi Pannella fece il suo primo intervento, elegantemente vestito di bianco così da spiccare sulla massa dei colleghi tutti rigorosamente in blu o grigio. Con l’intelligente uso della fantasia, si spinsero anche oltre, determinando innovazioni emblematiche. A quell’epoca, i lavori parlamentari non erano resi pubblici. Venivano stenografati e successivamente stampati negli “Atti”, documenti ufficiali ma a scarsissima o nulla circolazione. A un certo punto alla Camera venne installato un circuito radio interno, cosicché i parlamentari potessero ascoltare quanto avveniva in Aula per potervisi trasferire quando si avvicinasse una votazione. Le apparecchiature erano sistemate negli uffici dei gruppi, forse anche in quelli di singoli parlamentari. Comecchessia, Roberto Cicciomessere, uno dei quattro, aveva dietro la sua scrivania l’apparecchiatura. Qualcuno nel gruppo ebbe una idea rivoluzionaria. Il partito aveva da non molto avviato le trasmissioni di Radio Radicale. Si pensò di mettere l’emittente in collegamento (grazie a un ponte radio, o qualche marchingegno che non saprei specificare) con i ricevitori radio di cui ho appena parlato. Così, un bel giorno, l’italiano medio fu messo in condizione di poter seguire, in diretta, i dibattiti parlamentari. Era rotto un tabù, o era stata sanata una dimenticanza. Per sempre. Scompiglio e disorientamento generali, ma non si trovò il modo di impedire la novità (per incidens: altro che streaming…)
Appena misi piede nelle stanze del gruppo, Evi – la segretaria factotum – mi chiamò e mi disse: “Senti, Angiolo, vuoi che ti ritiriamo noi lo stipendio? Noi, poi, ti daremo la tua spettanza”. Allora, i deputati radicali giravano metà degli emolumenti al partito. Naturalmente, io ero d’accordo sulla misura, ma respinsi la proposta di Evi. Le dissi che no, io avrei ritirato personalmente lo stipendio, puntualmente avrei poi girato a lei la metà. Così feci, mese dietro mese.
Insomma, un bel giorno – eravamo a metà della legislatura – mi ritrovai a fare il parlamentare, ultima delle mie ambizioni. Ero anche io un “onorevole”. Non si ha una idea di quanto quell’etichetta fosse ambita, sentirsi appellare così a molti dava una sorta di vertigine. Conosco ex parlamentari che hanno fatto di tutto per conservarla, a distanza di anni ancora utilizzano la carta e le buste da lettera con l’intestazione “Camera dei Deputati” (o, immagino, “Senato della Repubblica”). E’ un abuso, ma l’escamotage è stato subito trovato, basta biffare con un sottile tratto di penna l’intestazione. La cosa fa un bell’effetto: si rivendica il titolo e insieme si fa un gesto di modestia. Ma perché stupirsi? Chi è stato della Casta, sarà sempre nella Casta. Del resto, basta (o bastava, non saprei) essere un consigliere comunale di Roma per avere diritto all’“onorevole”, è dall’epoca di Mussolini che questa bizzarria va avanti.
Il giorno stabilito, varcai il portone di Piazza Montecitorio, la portineria era avvertita, non ebbi problemi. Fu una seccatura sbrigare via via, presso i vari uffici, le formalità necessarie. Mi vennero consegnati anche tesserini e tessere varie, in particolare l’ambitissimo ovolino di pelle stampigliato in oro che mi avrebbe consentito di salire su qualsivoglia treno per qualsivoglia destinazione, gratis. Venni ricevuto dal gruppo con qualche enfasi, che trovai anche un po’ burbera: erano stati convocati tutti, mi attendevano in una saletta, seduti in semicerchio con me al centro. Sembrava dovessi passare un esame, e forse lo passai davvero: venni d’autorità assegnato alla commissione Bilancio, materia di cui non capivo sicuramente nulla (all’epoca vi si discusse la questione dei risarcimenti per il terremoto dell’Irpinia, fu un mercato delle vacche di stampo consociativista – o partitocratico). Poi il capogruppo, giovane, zelante e bravo, mi assegnò il posto di lavoro in una stanzetta dal soffitto un po’ basso, che condividevo con un collega.
Mi avvantaggiai pian piano dei tanti piccoli servizi, delle comodità – oggi si chiamano privilegi – che mi venivano offerte. Mi stesi sulle poltroncine della barberia dove mi pare di aver visto anche Andreotti, cominciai a frequentare la buvette, dove potevo consumare a prezzi stracciati caffè, paste e tramezzini, ma anche spuntini deliziosi così che all’ora dei pasti era difficile trovare un posto al bancone. Se poi volevo fare un pasto completo e seduto, potevo andare al ristorante; i prezzi erano ancor più stracciati, la cucina e il servizio buoni se non eccellenti, l’atmosfera era quella del “ciao, carissimo, come va?” con relativa pacca sulle spalle. Mi rammarico di non avervi mai portato mia moglie, inglese. Le sarebbe piaciuto poter scrivere alla mamma che lei era andata a pranzo nel Parlamento italiano, qualcosa di simile, per l’anziana signora inglese, a Westminster, anche se non così bello, senza il Big Ben…
La comodità era nel fatto che non dovevi uscire dal palazzo, e uno come me che vi entrava la mattina alle nove e ne usciva la sera alle otto, non lo trovava un privilegio. Il privilegio poteva arrivare quando finii l’incarico. A quel punto ero tenuto a restituire tessere e tesserini, come anche l’ovolino ferroviario; seppi più tardi che alcuni deputati (anche radicali) non adempivano all’obbligo, qualcuno trattenne il prezioso ovolino molto dopo l’uscita dal Parlamento. Io naturalmente, mi ero affrettato a rinviare indietro tessere, ovolino, ecc. Gli uffici di segreteria mi fecero recapitare, più tardi, un nuovo tesserino, che mi avrebbe consentito di frequentare il ristorante di Montecitorio alle stesse condizioni dei deputati effettivi. Non l’ho mai usato, lo conservo come una reliquia. Continuai invece per un po’ a utilizzare i comodissimi servizi della banca interna, del bookshop dove potevo acquistare libri con un forte sconto, l’unico beneficio (o privilegio) cui non avrei mai rinunciato. Ho l’impressione che non fossero molti i deputati che ne usufruivano. Un certo vantaggio, noi deputati lo avevamo anche alla biblioteca della Camera. Allora c’erano due biblioteche distinte, una della Camera, l’altra del Senato, tutte e due aperte al pubblico e fornitissime. Successivamente le hanno unificate, se non nelle sedi almeno nei servizi, con un bel risparmio. Le frequentavano studiosi ma anche studenti universitari: questi erano poco graditi dai parlamentari, perché leggevano i giornali invece di studiare e mettevano disordine. I deputati però venivano soddisfatti con precedenza assoluta, le loro richieste erano inoltrate subito, in cinque minuti avevi davanti a te i tuoi libri, e potevi anche averli in prestito. Purtroppo, alcuni parlamentari – anche di prestigio – trattenevano i libri presi in prestito ben oltre la data della dovuta riconsegna. Alcuni, addirittura, non li restituivano più. Feci delle rimostranze, anche per iscritto, mi fu risposto che “sa, onorevole, come facciamo a sollecitare un deputato come quello lì? E’ un malvezzo, ma ci possiamo fare poco, noi”.
Naturalmente, potevo andare a leggere i giornali nella sala di lettura, acquistare allo spaccio dei tabacchi i celebrati sigari toscani in serie speciale, spedire la posta all’ufficio postale interno, stendermi sui divanetti e le poltroncine del corridoio dei Passi perduti, il famosissimo Transatlantico. Era un punto di osservazione ineguagliabile, se volevi capire un po’ di quanto stesse accadendo nella politica italiana dovevi metterti di guardia lì, da solo o in crocchio con colleghi. Vi passeggiavano su e giù, magari tenendosi confidenzialmente sotto braccio, deputati, uomini politici, giornalisti e faccendieri, ogni sorta di personaggi più o meno ufficiali. Certe confabulazioni tra figure che contavano divenivano immediatamente oggetto di speculazioni e sospetti. Erano parte fissa del paesaggio certe figurine singolari: patetico, l’anzianissimo ex parlamentare che vi passava intere giornate stravaccato in una poltrona, con invece delle scarpe un paio di pantofole di feltro sui piedi logorati e stanchi.
Ma il massimo del privilegio – l’occasione in cui davvero potevi considerarti un fortunato membro della Casta – lo provavi quando ti infilavi nel grande servizio bagni e toilette che si apriva nelle segrete dei sotterranei. Non so se altri frequentassero quelle delizie, io ero uno degli assidui. Il mio mandato mi portava a Montecitorio in un agosto caldo e afoso. All’ora di pranzo mi prendevo una breve pausa, scendevo alla buvette, consumavo un paio di tramezzini o cose del genere, un calice di vino rosso e un caffè. Poi mi infilavo negli ascensori e discendevo nel ventre dell’edificio, un lungo corridoio dalle pareti scure. Un commesso, in perfetta divisa nera, mi accoglieva tirandosi su dalla sedia dove suppongo passasse il più della giornata, inutile e annoiata. Mi precedeva col suo passo silenzioso verso una delle salette da bagno. Non ho mai visto qualcun altro entrare o uscire da quelle salette, ho sempre avuto il sospetto di essere il solo utente del servizio. Nella saletta c’era una ampia vasca da bagno con la doccia. Mi immergevo nell’acqua dosata al punto giusto di calore grazie a una bellissima rubinetteria di inizio secolo, in porcellana bianca autentica con sopra stampigliata la sigla della Camera, una C e una D intrecciate in caratteri neri fioriti. Poi mi asciugavo e mi allungavo sul pavimento sul quale avevo disteso uno dei grandi asciugamani bianchi, spessi e morbidi, di cui c’era abbondanza. Volevo rilassarmi completamente prima di indossare di nuovo i miei abiti. Infine, mi dedicavo a una sontuosa toletta. Ben allineati sulla mensola davanti allo specchio lucidissimo c’erano rasoi, pettini e spazzole, ma soprattutto una piccola collezione di boccette e bottigliette da cui si sprigionavano, quando le aprivi, profumi di essenze pregiate. Me ne aspergevo il collo, le ascelle e il petto, mi sentivo rinascere.
Purtroppo, non portai mai con me una camicia di ricambio, quella che dovevo infilarmi era madida di sudore. Questo inconveniente scemava un po’ il piacere. Comunque il beneficio era stato enorme, potevo ora tornare, rilassato e pimpante, nel mio loculo e riprendere il mio lavoro. Quando ne uscivo, verso le otto di sera, di solito ero soddisfatto di quello che avevo fatto. Non solo mi dedicavo all’esame di documenti e carte varie, dovevo anche prepararmi gli interventi in commissione o in Aula. Una volta mi toccò fare, appunto in Aula, ben tre interventi su materie del tutto diverse: uno – ricordo – in tema di politica estera mentre al banco del governo sedeva lo stesso Andreotti. Non era facile, per noi Radicali era un punto d’onore non leggere un testo scritto, al massimo ci permettevamo di sbirciare qualche appunto. Uscivo nella fresca sera, prima di rientrare a casa mi concedevo l’ultima debolezza: un magnifico cono gelato, che assaporavo raggiungendo la fermata dell’autobus a piazza Argentina. Vissi così, per troppo breve tempo, i privilegi della Casta.
Oddio, ho dimenticato qualcosa. Questo sì, era un privilegio: dopo la mia uscita da Montecitorio, mi venne lasciata la tesserina che consentiva di viaggiare gratis sulle autostrade. Io non guidavo, ma bastava fossi sulla macchina con mia moglie al volante perché al casello potessimo passare per la corsia apposita, senza pagare il pedaggio. Me la ritirarono parecchi anni dopo, si sentivano le avvisaglie della crisi.
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