Primavera 2006

Operazione Quirinale

Alessandro Giuli

Sette anni fa tutto era cominciato più o meno allo stesso modo, e si finì con Giorgio Napolitano al Quirinale. Il 9 e 10 aprile, Silvio Berlusconi aveva perduto le elezioni politiche senza perderle veramente; l'Unione di Romano Prodi le aveva vinte senza giovarsi d'un successo rotondo: circa 24.000 voti di scarto. A caldo, il Cav. grida alla vittoria mutilata e denuncia brogli elettorali (chiederà anche un riconteggio delle schede che si rivelerà pleonastico), poi cambia idea e propone una soluzione tanto sensata quanto sgradita al cocciuto professore bolognese: un governissimo Unione-Casa delle libertà.

    Sette anni fa tutto era cominciato più o meno allo stesso modo, e si finì con Giorgio Napolitano al Quirinale. Il 9 e 10 aprile, Silvio Berlusconi aveva perduto le elezioni politiche senza perderle veramente; l’Unione di Romano Prodi le aveva vinte senza giovarsi d’un successo rotondo: circa 24.000 voti di scarto.
    A caldo, il Cav. grida alla vittoria mutilata e denuncia brogli elettorali (chiederà anche un riconteggio delle schede che si rivelerà pleonastico), poi cambia idea e propone una soluzione tanto sensata quanto sgradita al cocciuto professore bolognese: un governissimo Unione-Casa delle libertà. Passano i giorni e Prodi sa che riceverà di lì a poco l’incarico dal successore di Carlo Azeglio Ciampi, ma prima s’insediano le Camere e l’Unione non negozia su nulla: alla presidenza di Montecitorio va Fausto Bertinotti di Rifondazione comunista, sul seggio più alto di Palazzo Madama va Franco Marini per la Margherita. A quel punto le regole del bon ton istituzionale suggerirebbero di eleggere alla presidenza della Repubblica una figura quanto meno non sgradita al centrodestra. Il clima non induce alle scelte condivise, men che mai a premiare un quirinabile proveniente dal mondo dei moderati. Come sempre, in pubblico ci si azzanna di brutto e in privato si tratta forsennatamente. Il 2 maggio Silvio Berlusconi si dimette dall’incarico, preannuncia che sarà “rimpianto” e – come scrive il Foglio in quel giorno – “candida Carlo Azeglio Ciampi alla rielezione per il Quirinale costringendo un cupo Romano Prodi a dire: ‘Sarei molto contento, ma è lui che deve decidere’”. Ricorda qualcosa?

    Ma nel vivo del grande gioco parlamentare è appena entrato un quotidiano d’opinione così appassionatamente berlusconiano da fargli spesso la fronda. Il Foglio ha appena candidato Massimo D’Alema come capo dello stato. Obiettivo: sanare la guerra civile a bassa (ma nemmeno troppa) intensità combattuta dal 1994 intorno al berlusconismo; e sopra tutto farlo attraverso l’esperienza e la spregiudicatezza politica del primo post comunista ad aver legittimato il Cav. dai tempi della commissione bicamerale per le riforme istituzionali (1997-’98). Sabato 29 aprile il Foglio spara la candidatura in prima pagina, forte e chiara e maiuscola: “IL NOME STORPIATO DELLA REPUBBLICA” – ricusato da Prodi, sospetto per An, impraticabile per l’Udc, D’Alema vede crescere le sue chance per il grande salto. Il nostro Lanfranco Pace s’incarica di motivare il beau geste: “O D’Alema o moriamo di pizzichi. E’ vero, il nostro lo conosciamo bene, è capace di passare sopra chiunque per il solo, impagabile piacere di una battuta. E non oso pensare come avrà commentato la proposta anomala nata nel fumoir di un dopo ‘Otto e mezzo’ e rilanciata da queste pagine. Ma ‘francamente mia cara me ne infischio’. D’Alema è il solo che si sia posto il problema di un ammodernamento istituzionale globale e largamente condiviso, che quando parla di istituzioni nonché di legge elettorale dica cose lucide, e vorrà pur dire qualcosa che ancora per via di quell’infausta Bicamerale il popolo dei ‘beceri de sinistra’ lo vorrebbe sulla graticola” (per debito di onestà, bisogna ricordare che subito sotto l’intervento di Pace campeggiavano un endorsement immusonito di Camillo Langone – “è il male minore, come un buon profilattico” –, un ragionamento terzista di Christian Rocca – “non sarà come Blair, ma il titolo di nuovo Andreotti è già suo” – e una stroncatura di Marina Valensise: “La sua arroganza non è presidenziabile”).

    La cronaca politica segnala una situazione ancora acerba, ma in progressiva dinamizzazione: “Nella segreteria fassiniana ci tengono sia chiaro: ‘Noi non abbiamo un’opzione sul Quirinale e rimaniamo legati al modello Ciampi’. Larghe intese per la nuova presidenza della Repubblica, ma non necessariamente un Ciampi bis. Perciò anche D’Alema, se solo arrivasse un cenno da un Cav. silenzioso e freddo che però non ha interrotto i rapporti diplomatici”. Ma sull’eccitazione del momento incombe la tetraggine prodiana: “Cupo mentre passeggiava sottobraccio con Pier Luigi Bersani in un corridoio di Montecitorio, Romano Prodi diceva che sì, dopo il colloquio mattutino con D’Alema ‘le cose si stanno risolvendo. Ma finché non si firma tutto nero su bianco…’”. Il professore vuole un presidente della Repubblica scelto con ampia convergenza, ma guai a mettere di mezzo la nomina a Palazzo Chigi da lui rivendicata e l’autarchia della sua esile maggioranza antiberlusconiana. Ricorda qualcosa?
    Venerdì 5 maggio il Foglio torna alla carica: cominciano a manifestarsi i primi sabotatori del patto di sistema tra il Cav. e D’Alema. Editoriale dell’Elefantino a pagina tre: “Giochini e Casini Fini. Sul Quirinale e sul resto Silvio Berlusconi deve temere soltanto questo: l’irrilevanza”. Nello stesso giorno il Foglio dà conto degli ultimi sviluppi: “Al di là degli eventuali espedienti tattici dell’ultima ora, è chiaro che il centrosinistra propone Massimo D’Alema e soltanto lui per la presidenza della Repubblica”.

    “Notizia che – prosegue il Foglio –, se non ha ricevuto il tocco dell’ufficialità nella tarda serata, dovrebbe essere formalizzata oggi, dopo un ultimo vertice della nuova maggioranza. Ieri, dopo avergli telefonato, Romano Prodi ha incontrato Silvio Berlusconi e poi ha detto che è stato un ‘incontro proficuo’. I due si rivedranno oggi. Prodi ha annunciato al Cav. che da lunedì l’Unione – Radicali a parte – intende convogliare i propri voti sul presidente dei Ds”. I finiani propongono a gran voce Giuliano Amato, i leghisti sono per un Ciampi bis non negoziabile, l’Udc non vuole D’Alema ma fa la vaga e si limita a chiedere soluzioni bipartisan. “E Berlusconi? Attenderà che la proposta prodiana diventi ufficiale? Chissà. Dovesse respingere l’opzione dalemiana, potrà comunque farlo in diversi modi e su questo bisognerà pur ragionare. Perché si può negare alla decisione della maggioranza ogni legittimità politica, preparandosi allo scontro irrimediabile; oppure bocciarne la formula senza rinunciare a un’apertura esplicita sulla sostanza politica della prospettiva offerta da Prodi”. Ancora non lo si può dire, ma nel groviglio degli interessi in conflitto s’indovina il profilo di un Napolitano.
    Il giorno successivo, e siamo a sabato 6 maggio, il Foglio si gioca il tutto per tutto con un’intervista a Piero Fassino, rilasciata dal segretario dei Ds al direttore del giornale (teste il cronista politico) nel suo studio di Botteghe Oscure. Titolo: “La guerra è finita. O no?”. Per l’occasione i Ds ricevono la delegazione fogliante con affetto, circolano ovetti di Pasqua e frasi sorridenti: “Al momento del bisogno ci ritroviamo eh”. D’Alema apparirà fugacemente a fine colloquio, molto grato dell’iniziativa anche se a modo suo (cioè appena percettibile se non da chi lo conosca bene). Fassino, nella circostanza, si espone formidabilmente per lanciare una “intesa strategica sul governo del sistema”. Parole sue: “Io la metto così: la guerra è finita, perciò la candidatura di D’Alema al Quirinale deve essere il primo atto di una pace da costruire e non l’ultimo atto di una guerra che continua”. Nel merito, al Cav. Fassino chiede “di valutare alla luce del sole la possibilità di eleggere D’Alema alla presidenza della Repubblica. Il centrosinistra ha vinto le elezioni, ma sul filo di lana ed è innegabile che una metà del paese sia rappresentata dalla Cdl.

    Siccome l’Italia deve ritrovare la serenità che le consenta di essere una democrazia normale, di riprendere a crescere e uscire dalla precarietà, bisogna smetterla di pensare che se vince Berlusconi ci sia il fascismo alle porte; e da destra che, se vince l’Ulivo, alle porte ci sia il comunismo”. Ma il bello deve ancora arrivare. Fassino indica quattro punti fondamentali che riassumono queste sue intenzioni e le collegano al nome di D’Alema. Primo: “L’assicurazione che se il governo di Prodi dovesse entrare in crisi si tornerà a votare, in base al principio tipico delle democrazie dell’alternanza per cui la legittimità di una maggioranza e di un governo viene dal voto dei cittadini”. Secondo: “Da capo del Csm, un presidente che eserciti la funzione di garanzia operando – come ha fatto Ciampi – per evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica”. Terzo: “Sulle grandi scelte di politica estera un presidente che favorisca la massima intesa possibile”. Quarto: “All’indomani del referendum che – come noi auspichiamo – boccerà la revisione costituzionale della destra, si riprenda un confronto tra le forze politiche sulle istituzioni che consenta di portare a conclusione una transizione istituzionale da troppi anni incompiuta”. Altro aspetto rivoluzionario delle dichiarazioni fassiniane, dopo quel riferimento al “cortocircuito tra giustizia e politica”, sta nel carattere nient’affatto inciucista o in chiaroscuro dell’operazione: “Tutto deve avvenire alla luce del sole. Non escludo affatto che lo stesso candidato dell’Unione, se e quando verrà scelto dopo adeguate consultazioni, possa anticipare il modo con cui si propone d’interpretare il proprio ruolo”. In altri termini D’Alema s’impegna a presentare alle Camere una specie di programma presidenziale sul quale chiedere un consenso diffuso. “E’ un’ipotesi che rappresenterebbe una innovazione importante”.

    Così Fassino, ma anche dalle sue parti s’annunciano nuvole di sabotaggio. Titolo: “Veltroni e Rutelli fanno una fronda silenziosa a D’Alema” (sempre in prima pagina, sotto l’intervista del segretario dei Ds). Intanto il Foglio – per non farsi mancare niente – nello stesso numero cerca di stornare con fair play la scalata parallela di Giuliano Amato. E a pagina XVI dell’inserto settimanale allestisce una delle sue consultazioni tipiche: “Sempre Amato mi fu quell’ermo Colle – Girotondo esplorativo sul candidato-ombra che piace a molti, forse troppi”. Tre contrari fra cui Rino Formica che oggi ha cambiato idea (ma anche il quadro politico italiano è cambiato e non in meglio) e Claudia Mancina dei Ds. Favorevoli Giuliano Cazzola, Sergio Soave e Massimo Bordin.
    Risultato di siffatta campagna: il 10 maggio Giorgio Napolitano diventa presidente della Repubblica senza i voti del Cav. ma con il suo lasciapassare (sotto forma di scheda bianca). E D’Alema? Azzoppato dai troppi veti e da una campagnuccia lampo dell’establishment corrierista (ricorda qualcosa?) contro le sue, diciamo, scappatelle filo islamiche, raccoglie 10 voti. Tre voti in più di Giuliano Ferrara e quindi del Foglio, testimone non candidato al Quirinale ma privilegiato, e parte attiva in una battaglia votata alla stabilizzazione del bipolarismo e alla pacificazione nazionale. Mancò D’Alema ma non il valore né, almeno in parte, il risultato, a giudicare dal felice settennato di Giorgio Napolitano.

    Certo, sette anni fa i sabotatori giocavano in ordine sparso, si chiamavano Fini, Casini, Rutelli e frattaglie varie. Non c’erano i grillini a fare da blocco di minoranza incapacitante, il centrosinistra a trazione diessina era abbastanza coeso e disciplinato alle spalle della sua classe dirigente. Altrimenti non avremmo avuto l’elezione di Napolitano. Romano Prodi non seppe approfittare di quel clima, la sua protervia lo condusse a vivacchiare male e a cadere dopo due anni. Bersani crede di essere così fortunato?