Tra Rodotà e Prodi, a Grillo va l'acqua per l'orto (a Rep. un po' meno)

Marianna Rizzini

Il primo giorno di votazioni per la presidenza della Repubblica porta acqua all’orto di Beppe Grillo (e arriva il suo ennesimo “arrendetevi” all’indirizzo del Pd), ma il gongolare dell’ex comico non impedisce il doppio binario: con una mano Grillo tiene alto il nome di Stefano Rodotà, “da portare avanti fino alla quarta votazione”, come ripetono in Parlamento i molto ortodossi Roberta Lombardi e Roberto Fico, (che avverte Nichi Vendola: “Se Sel cambia nome al quarto scrutinio è poco seria”). Con l’altra mano, però, Grillo non chiude allo scivolamento per mano altrui verso l’ipotesi Romani Prodi, in campo non da oggi anche nell’area Cinque stelle, nonostante il “no” apparente di Gianroberto Casaleggi.

    Il primo giorno di votazioni per la presidenza della Repubblica porta acqua all’orto di Beppe Grillo (e arriva il suo ennesimo “arrendetevi” all’indirizzo del Pd), ma il gongolare dell’ex comico non impedisce il doppio binario: con una mano Grillo tiene alto il nome di Stefano Rodotà, “da portare avanti fino alla quarta votazione”, come ripetono in Parlamento i molto ortodossi Roberta Lombardi e Roberto Fico, (che avverte Nichi Vendola: “Se Sel cambia nome al quarto scrutinio è poco seria”). Con l’altra mano, però, Grillo non chiude allo scivolamento per mano altrui verso l’ipotesi Romani Prodi, in campo non da oggi anche nell’area Cinque stelle, nonostante il “no” apparente di Gianroberto Casaleggio (l’idea, ribadita ieri dal capogruppo in Senato Vito Crimi, è che Prodi sia un nome votabile “se tutti i candidati alle Quirinarie prima di Prodi si ritirano…”). E siccome Prodi, alle Quirinarie, è arrivato ottavo (il numero di voti è ancora ignoto, alla faccia della trasparenza della rete), Prodi resta in lizza anche per i Cinque stelle – anche perché i franchi tiratori non esistono soltanto per gli altri.

    Ma il primo giorno di votazioni, a dispetto delle apparenze, porta anche qualche turbamento nell’orto di Repubblica, quotidiano che aveva inizialmente sperato nel “nome istituzionale” che salvasse il principio della “garanzia” per “tutto il Parlamento” e al tempo stesso non scontentasse troppo l’area della sinistra sensibile al mantra del “cambiamento”. Solo che il nome di Sabino Cassese, per Ezio Mauro quello giusto da porgere “ai gruppi e al paese”, era naufragato ancora prima di iniziare la gara, e il direttore di Rep. si era trovato, alla vigilia del voto, a twittare che sì, a quel punto il nome di Rep. era Stefano Rodotà, come avevano suggerito per giorni, e infine con un appello, le firme Barbara Spinelli e Michele Serra, tanto che ieri Mauro, silente su pagina, affidava al vicedirettore Massimo Giannini il compito di bastonare il Bersani del “metodo sbagliato” e del “compromesso bipartisan”. Non usciva del tutto dall’imbarazzo, Rep., dopo le prime votazioni, con il riprendere quota di Romano Prodi (non proprio il preferito, storicamente, dell’editore e tessera numero uno del Pd Carlo De Benedetti). Fatica inutile, poteva allora sembrare l’aver innalzato con esitazione la bandiera di Rodotà. E meno male che Massimo Cacciari, dal Tg3, sembrava ieri preferire Rodotà al prof. dell’Ulivo. “Prodi vabbè… ma se comunque vai alla guerra con Berlusconi, perché allora cambiare linea con Prodi e non con Rodotà?”.

    Intanto Grillo, pur contestato in mare a Trieste durante lo “tsunami” in barca a vela per le elezioni regionali, aggravava con la vittoria del giorno (incarnata dal flop di Marini) la sindrome “anti patto di condivisione” della sinistra ossessionata dall’Arcinemico e sedotta dalla parola “ineleggibilità”: non era da maggioranza qualificata, ma solo da maggioranza risicata, l’accordo Pd-Pdl, pensavano quelli che, con Spinelli e Serra, si erano posti sulle barricate mentre la casa madre Repubblica ancora parlava di un nome “per tutti”. Che fare?, si chiedevano i giovani deputati del Pd scelti con le primarie e alle prese con i messaggi Facebook degli elettori inferociti per “l’entente cordiale” con il Pdl, quelli che in piazza venivano raggiunti dal vicepresidente grillino della Camera Luigi Di Maio (fate “pressione sui grandi elettori”, diceva, “cerchiamo di fare eleggere Rodotà”).

    Sotto il condizionamento dell’onda sempre montante dell’anticasta e dell’antiB., la scelta del Prodi che per due volte aveva sconfitto B. pareva allora a molti l’unica isola nel mare, anche se nel mare, a quel punto, bisognava buttarci l’idea stessa di “condivisione”. E per qualcuno il nome di Prodi diventava antidoto all’isolamento: la base del M5s che dice “dialogate”, infatti, fa da specchio alla base del Pd che chiede ossessivamente “il nuovo” e brucia le tessere e chiede a Bersani, anche con una petizione sul sito Change.org, di votare senza indugio per Rodotà. Ma lungo il confine tra preoccupazione degli uni, nel Pd, e senso di trionfo degli altri, nel M5s, era il nome di Prodi che infine si affacciava (e infatti il deputato Pd Pippo Civati si riprometteva, ieri sera, di incontrare i grillini per cercare di convincerli a sostenere il prof.).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.