Prima delle quirinarie

Bersani, i pugnali, il dramma dell'abbraccio al Caimano

Claudio Cerasa

Il sapore della sconfitta incassata ieri mattina da Pier Luigi Bersani al termine della prima drammatica votazione per il rinnovo della presidenza della Repubblica non deriva da una semplice insurrezione che il corpaccione ribelle del Partito democratico ha voluto manifestare, bocciando con numeri clamorosi il nome scelto dal segretario per cercare una larga condivisione con il centrodestra sul successore di Giorgio Napolitano; ma nasce soprattutto dalla strategia per molti versi autolesionista portata avanti dal leader del centrosinistra dal giorno successivo alla “non vittoria”.

    Il sapore della sconfitta incassata ieri mattina da Pier Luigi Bersani al termine della prima drammatica votazione per il rinnovo della presidenza della Repubblica non deriva da una semplice insurrezione che il corpaccione ribelle del Partito democratico ha voluto manifestare, bocciando con numeri clamorosi il nome scelto dal segretario per cercare una larga condivisione con il centrodestra sul successore di Giorgio Napolitano; ma nasce soprattutto dalla strategia per molti versi autolesionista portata avanti dal leader del centrosinistra dal giorno successivo alla “non vittoria” ottenuta alle elezioni dello scorso 25 febbraio. In fondo, pensateci, la questione è semplice: se descrivi per giorni, giorni e giorni il leader della seconda coalizione presente in Parlamento non come se fosse un semplice avversario ma come se fosse invece un diavoletto travestito da Caimano che non sarebbe poi tanto male sbattere in galera (ricordate Migliavacca?) è evidente che il tuo partito non può che trovarsi spiazzato di fronte a un segretario che, all’improvviso, ti spiega come l’unica soluzione possibile per sbloccare la partita sia proprio quella dell’accordo con quel terribile diavoletto travestito da Caimano. In questo senso la trappola scattata ieri in Parlamento, che si è materializzata con quei duecento e passa colpi di fuoco amico arrivati sul nome di Franco Marini direttamente dagli scranni del centrosinistra (il quorum era a 672, Marini ha raccolto 520 voti, dal Pd sono spariti qualcosa come 200 voti), in un certo modo è stata innescata dallo stesso segretario: che dopo aver criticato a lungo tutti quegli esponenti del Pd che nell’ultimo mese gli hanno suggerito di “liberarsi dal complesso e dalla malattia dell’inciucio” (D’Alema, 6 marzo) e di dover decidere senza perdere tempo se “il Cavaliere sia il capo degli impresentabili o se invece sia un interlocutore affidabile” (Renzi, 4 aprile) si è ritrovato a compiere politicamente con il Pdl, senza saper spiegare bene il perché, lo stesso gesto immortalato ieri alla Camera durante l’ormai famosa e non a caso contestatissima istantanea con Alfano: l’abbraccio con il nemico.

    Dietro alla clamorosa spaccatura del centrosinistra esiste poi anche un’altra questione che è direttamente legata alla battaglia combattuta negli ultimi giorni da Matteo Renzi e che è stata sottovalutata dal segretario del Pd. Il sindaco, come è noto, non ha perso occasione per segnalare che il nome di Marini non era quello giusto su cui puntare. E nonostante le modalità goffe e scombinate con cui Renzi ha posto il problema, alla fine l’impallinamento dell’ex presidente del Senato ha dimostrato che lo Smacchiatore avrebbe avuto i suoi vantaggi a condividere anche con il Rottamatore la scelta del candidato alla presidenza della Repubblica. L’ampiezza del dissenso registrata ieri in Parlamento (dissenso che si è manifestato in forme anche clamorose, pensate all’astensione della portavoce delle primarie di Bersani, Alessandra Moretti, pensate al voto contrario dei delegati dell’Emilia Romagna, e pensate soprattutto al fatto che nessuno degli alleati con cui il Pd si è presentato alle elezioni, da Vendola a Tabacci passando per Nencini, ha votato per il candidato proposto dal segretario) apre naturalmente una “nuova fase”, come segnalato ieri dallo stesso Bersani, in cui però il segretario dovrà fare i conti con le conseguenze della strategia (autolesionista) con cui nelle ultime settimane ha collezionato, insieme, una non vittoria, un non incarico, un non governo e ora un non candidato alla presidenza della Repubblica. Le conseguenze sono molte, e non sono soltanto quelle legate alla balcanizzazione del centrosinistra. Bersani, dopo aver perso la sua partita sul Quirinale, sa di non poter ignorare che nel Pd esiste un nuovo partito non più controllato dal segretario. Ed è anche per questo che è stato costretto a convocare per oggi una nuova riunione tra i grandi elettori di Pd e Sel per decidere, “in modo collegiale”, il nuovo candidato con un metodo diverso rispetto a quello scelto mercoledì durante l’incontro con i gruppi parlamentari: uno scrutinio segreto su due, tre o quattro nomi proposti dal partito (da Prodi a D’Alema, con qualche possibile sorpresa). Il Pd cercherà un nome per ricompattare il partito e darà nuova cittadinanza anche alle idee di Renzi. Ma la linea delle larghe intese non esiste più (o quasi). E oggi è difficile non dare ragione a chi ieri, con buoni argomenti, sosteneva che la trappola in cui è caduto il candidato al Quirinale del Pd è stata involontariamente costruita dallo stesso grande elettore di Franco Marini. Il nome probabilmente lo avrete capito già: si chiama Pier Luigi Bersani.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.