Il Prodicida

Alessandro Giuli

La pecetta era buona ma s’affumò al primo voto quirinalizio. Oggi chissà. Ma non sembra una battaglia per Franco Marini: troppo duro il gioco, troppo esulcerati i grandi azionisti della sua cordata, in modo particolare il Pd bersaniano. L’ex capo dei Popolari era stato chiamato a stabilizzare un classico patto di sistema (Pd-Pdl più centristi e rispettivi micro alleati) e proteggerlo dalla formidabile onda d’urto dei giacobini alle porte (Cinque stelle e umoralisti d’assalto) e dai sabotatori interni (vendoliani, renziani, prodiani e confusi, compresa la corazzata del gruppo Espresso). Non poteva farcela, Marini, non soltanto per calcolo aritmetico ma per storia e carattere.

    La pecetta era buona ma s’affumò al primo voto quirinalizio. Oggi chissà. Ma non sembra una battaglia per Franco Marini: troppo duro il gioco, troppo esulcerati i grandi azionisti della sua cordata, in modo particolare il Pd bersaniano. L’ex capo dei Popolari era stato chiamato a stabilizzare un classico patto di sistema (Pd-Pdl più centristi e rispettivi micro alleati) e proteggerlo dalla formidabile onda d’urto dei giacobini alle porte (Cinque stelle e umoralisti d’assalto) e dai sabotatori interni (vendoliani, renziani, prodiani e confusi, compresa la corazzata del gruppo Espresso). Non poteva farcela, Marini, non soltanto per calcolo aritmetico ma per storia e carattere. Uno come Franco Marini patisce il conflitto in campo aperto, sopra tutto se non può gestirlo in prima persona e per conto terzi, dall’alto di uno scranno blindato o negli interstizi di una segreteria. Marini è portato a emergere quando il gioco si fa disperatamente ordinato, quando su entrambi i fronti non si combatte più per vincere ma per sopravvivere (è il sale dei negoziati sindacali). Allora sì che la sua funzione calmieratrice trova una collocazione funzionale. La sua biografia è puntellata dalla vicinanza a figure mediamente carismatiche – Giulio Pastore e Pierre Carniti alla Cisl, Carlo Donat Cattin nella corrente democristiana Forze nuove – all’ombra delle quali gli è stato sempre agevole costruire la propria rendita di posizione, per poi esercitarla direttamente una volta dispersa la fuliggine che tiene dietro all’incendio.

    Esempio storico. La Cisl di Carniti nel 1985 usciva lacerata da un accordo feroce sul tasso d’inflazione, abbassato un anno prima di tre punti, per decreto, dal governo di Bettino Craxi. L’accordo spaccò la triplice ma fu premiato da un referendum dopo il quale sia Carniti sia Luciano Lama (Cgil) si dimisero. A quel punto, non prima, entrò in gioco il tessitore abruzzese: fu lui, nuovo segretario della Cisl, a temperare certi estremismi di Carniti e a ripristinare il collateralismo del secondo sindacato italiano con la Democrazia cristiana che guardava in direzione di Bettino Craxi.
    Ecco, se c’è un tratto caratteristico che non ha mai abbandonato Marini è la capacità di perseguire un obiettivo senza cincischiare troppo sulla compromissione dell’ideale procurata dai compagni di strada o dagli interlocutori del momento. Il rapporto con il berlusconismo, al riguardo, è abbastanza nitido. La scuola primorepubblicana ha consentito a Marini di dialogare facile con l’altra Italia, legittimandola, in funzione di uno scopo istituzionale preciso: puntellare l’identità post democristiana in un regime di convivenza con i post comunisti, e nella cornice bipolare inaugurata dal tramonto dei partiti e dall’ingresso dei grandi blocchi di coalizione.

    Non basta la stoffa dell’alpino prodicida
    Il culmine di questo lavorìo è stato raggiunto sette anni fa, quando Marini guadagnò per sé una soffertissima presidenza del Senato; e quando, due anni dopo, caduto il macilento governo di Romano Prodi, lo stesso Marini rinunciò alla lotteria della fiducia parlamentare dopo aver ricevuto un incarico esplorativo da Giorgio Napolitano. Che bisogno c’era d’intestardirsi nell’impossibile? Silvio Berlusconi non ha dimenticato quel gesto, tanto da azzardare nelle ultime ore il nome di Marini come passepartout di un’intesa larga con il Pd e gravida di possibilità per il nuovo governo. Niente da fare, malgrado la comune idea di trovarsi al cospetto di una necessità identica a quella avvertita vent’anni fa – gestire una transizione di sistema e di nomenclatura – ma da affrontare con mezzi più modesti e con il passo di un’altra stagione. Marini è un alpino del secolo scorso, quando è stato necessario ha abbattuto avversari e nemici interni: fa fede il prodicidio del 1998, allestito con Francesco Cossiga e Massimo D’Alema. Purtroppo oggi serve una muscolatura da corpi speciali anche soltanto per vincere la teppa grillina, l’esuberanza renziana, la vischiosità di Vendola e l’irresolutezza bersaniana. Oppure bisogna essere come D’Alema: perdutamente innamorati della propria perfidia, che nel suo caso è un’intelligenza pratica spesso mal placée, e donarsi per intero all’ordalia: patti chiari al Quirinale e governissimo lungo. Cascasse il mondo.