Grillo vuole colonizzare il Pd, ma lo scambio col governo non va
“Nessuno si è mai sognato di votare Romano Prodi”, dice Beppe Grillo a metà giornata, da un comizio lassù in Friuli, quando capisce che gli sta riuscendo il colpo grosso poi reso evidente dai risultati del quarto scrutinio, con Prodi inchiodato a 395 voti: tenere duro sul nome di Stefano Rodotà, tentazione per una sinistra assediata dalla base in piazza e sul web, sperando che lo “scouting” mai abbandonato dal Pd in direzione grillina funzioni a parti rovesciate, e che una parte del Pd squassato si riversi sul candidato a cinque stelle. E il “travaso” avviene persino spontaneamente, per convinzione o senso di colpa dei parlamentari del Pd verso gli elettori sedotti dal mantra del “cambiamento” e soltanto in ultimo dall’hashtag lanciato su Twitter dall’ex comico (#Rodotàperchéno).
“Nessuno si è mai sognato di votare Romano Prodi”, dice Beppe Grillo a metà giornata, da un comizio lassù in Friuli, quando capisce che gli sta riuscendo il colpo grosso poi reso evidente dai risultati del quarto scrutinio, con Prodi inchiodato a 395 voti: tenere duro sul nome di Stefano Rodotà, tentazione per una sinistra assediata dalla base in piazza e sul web, sperando che lo “scouting” mai abbandonato dal Pd in direzione grillina funzioni a parti rovesciate, e che una parte del Pd squassato si riversi sul candidato a cinque stelle. E il “travaso” avviene persino spontaneamente, per convinzione o senso di colpa dei parlamentari del Pd verso gli elettori sedotti dal mantra del “cambiamento” e soltanto in ultimo dall’hashtag lanciato su Twitter dall’ex comico (#Rodotàperchéno). E’ il passaparola, il clic incessante per il nome “da fuori”, la minaccia del “non vi voteremo mai più” che assilla un Pd fatto anche di giovani parlamentari usciti dalle primarie e comunque non indifferenti all’ossessione anticasta, anti-apparato, anti-nomenclatura e anti-inciucio. Prodi era stato presentato proprio come il candidato anti-inciucio, ma ormai non basta (dice un deputato grillino: “Nel Pd devono capire che anche Prodi è dei partiti”). Sembra il remake di “Dieci piccoli indiani”, nel Pd, con i candidati che crollano uno dopo l’altro e si ritirano non senza risentimento (Franco Marini, Romano Prodi), e con i dirigenti che si dimettono (Rosy Bindi). E’ “scacco matto”, dicono i parlamentari grillini con un’euforia che, non fosse in ballo la presidenza della Repubblica, farebbe pensare al “liberi tutti” di un ultimo giorno di scuola: qualcuno non ha voglia di infilarsi nell’ennesima riunione per decidere qualsiasi cosa, qualcuno per una sera vorrebbe “festeggiare”, qualcuno ricorda che il Pd ha chiesto “un incontro”, ma siccome il M5s vuole fare l’incontro con “tutti i parlamentari”, è evidente che l’opzione è impraticabile. “Se non ci seguono sono morti”, ripete Grillo dai comizi, mentre a Roma i suoi gongolano (con tanti saluti al Pd che deve “chiarirsi”) e mentre il pontiere del Pd Pippo Civati perde la pazienza all’ennesimo “vota Rodotà” della controparte.
Il colpo grosso si annuncia piano piano, dalla mattina, mentre l’ex comico, dal blog, parte con le domande retoriche: “Perché il no inflessibile a Rodotà da parte di Bersani?…Troppo colto? Troppo indipendente? Troppo onesto? Troppo popolare? Troppo presidente di tutti? Troppo pericoloso per i processi di Berlusconi? Troppo intransigente verso scandali come Mps? Io vorrei una risposta da Bersani, non lo capisco… Rodotà proviene dalla sua area politica…”. E’ un mantra che raccoglie la vox populi e la rilancia assieme al ritornello diffuso dai capigruppo Roberta Lombardi e Vito Crimi: “Votate Rodotà e si apriranno praterie per il governo” (in serata diranno che “non è uno scambio”). Diventano tante, le formule ricorrenti che fanno da sfondo allo “scacco matto” e in parte ne amplificano l’impatto. Da giorni crescono su Twitter, su Facebook, sulle pagine di Repubblica (componente Michele Serra e Barbara Spinelli) e del Fatto (editoriali di Marco Travaglio). Da giorni passano di bocca in bocca nei gruppi parlamentari e, nel frullatore dell’assemblea perenne a cinque stelle, diventano coro ripetuto a oltranza: ecco i deputati Alessandro Di Battista e Alfonso Bonafede che dicono “nel Pd non votano Rodotà solo perché l’abbiamo proposto noi”; ecco il deputato Stefano Vignaroli che loda Rodotà per il suo “non voler “essere di ostacolo ad altre scelte”, anche se poi Rodotà resta in campo. Il “giallo” si scioglie, ché a un certo punto si era diffusa la voce di una sua rinuncia in favore di Prodi, fino a poche ore prima non così sgradito a Beppe Grillo (proclami a parte). Crimi e Lombardi erano andati a trovarlo, Grillo lo aveva chiamato, Rodotà aveva confermato la presenza e il Pd ne aveva ricavato un doppio senso di accerchiamento. Non era ancora il colpo grosso, e anzi qualcuno ancora faceva calcoli sui possibili voti a Prodi dei dissidenti M5s: “Dieci”, “no, sei”. Ma se è vero che una trentina di eletti del M5s non ha condiviso, in questo mese, la linea di Grillo, è vero anche che il nome di Rodotà li toglieva d’impaccio: invece di mettere in crisi loro (come nel caso di Piero Grasso), metteva in crisi il Pd. Il resto lo facevano i franchi tiratori autodenunciati (preventivamente) dal Pd: a quel punto i Cinque Stelle si sentivano sollevati persino dalla “riflessione” sull’opzione Prodi – che pure la sera prima era circolata.
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