Il prodicidio, la resa di Bersani, le tracce dei franchi tiratori
Il no a Prodi, le dimissioni di Bersani, l'addio di Bindi, la balcanizzazione del Pd, la sconfitta di Renzi, la rottamazione della vecchia classe dirigente e probabilmente non finisce qui. Bum! Sono le dodici e trenta, siamo a Montecitorio, è venerdì mattina, i gruppi del centrosinistra hanno da poco votato all'unanimità il nome di Prodi come nuovo candidato per il Quirinale e per la prima volta in tutti i capannelli di deputati e senatori del Pd in Transatlantico si comincia a sussurrare quello che sarebbe accaduto qualche ora più tardi al termine della clamorosa quarta votazione.
Il no a Prodi, le dimissioni di Bersani, l’addio di Bindi, la balcanizzazione del Pd, la sconfitta di Renzi, la rottamazione della vecchia classe dirigente e probabilmente non finisce qui. Bum! Sono le dodici e trenta, siamo a Montecitorio, è venerdì mattina, i gruppi del centrosinistra hanno da poco votato all’unanimità il nome di Prodi come nuovo candidato per il Quirinale e per la prima volta in tutti i capannelli di deputati e senatori del Pd in Transatlantico si comincia a sussurrare quello che sarebbe accaduto qualche ora più tardi al termine della clamorosa quarta votazione. Sintesi di un giovane deputato romano del Pd: “Tanto qui ‘o sapemo tutti che manco Romano je ‘a fa”. La storia della clamorosa bocciatura di Prodi – che ha determinato ieri sera le dimissioni di Bersani dalla guida del Pd – nasce tra giovedì notte e venerdì mattina, quando ciò che resta del gruppo dirigente del Pd, dopo aver tentato di convincere Berlusconi ad accettare il nome di Sergio Mattarella, ha scelto all’improvviso di rinunciare all’idea di votare una rosa di nomi per il Quirinale e di puntare così su un nome unico “per ricompattare il centrosinistra” e “riconciliarci con il nostro popolo”: Prodi, appunto. In realtà, come spesso capita nel Pd (ricordate le ultime direzioni?), l’unanimità regalata a Bersani nascondeva il seme di un dissenso che sarebbe germogliato nelle ore successive e che si sarebbe materializzato al momento della votazione. Il risultato lo conoscete: il centrosinistra aveva 496 voti, pensava di avere 30 franchi tiratori e a fine giornata se ne ritrova 101. Dove sono andati quei voti? I calcoli sono semplici (considerando l’assenza in Aula del centrodestra e la tenuta dei montiani e dei grillini): un po’ al candidato grillino Stefano Rodotà (51 voti) e il resto tra il candidato montiano e altri voti sparsi (D’Alema, Napolitano, schede bianche). Questo per quanto riguarda i numeri. Ma che cosa è successo nel Pd? Individuare disegni in una fase come questa in cui la nave non ha più un timoniere (oltre a Bersani ieri si è dimessa anche il presidente del Pd) e in cui vi è un gruppo di vecchi ammiragli in lotta tra di loro per mille motivi (vendette, tradimenti, ritorsioni, rivincite, battaglie generazionali) non è semplice ma alcune mezze certezze ci sono e sono entrambe legate alle due correnti che hanno più patito la scelta fatta da Bersani di non mettere ai voti il nome del sostituto di Marini (i 51 renziani non hanno tradito).
Da una parte, c’è una corrente virtuale composta dai grillini democrat (alcuni civatiani, alcuni giovani turchi, alcuni bersaniani, alcuni vendoliani) che hanno scelto di votare Rodotà per indicare al Pd la nuova direzione da prendere nelle prossime votazioni (“Tu non hai idea dei messaggi su Facebook e su Twitter che abbiamo ricevuto in questi giorni”, confidava al cronista ieri pomeriggio un famoso grillino del Pd). Dall’altro lato c’è invece una corrente più strutturata che dopo aver lavorato giovedì notte per imporre il proprio candidato ha deciso, triangolando con i molti popolari infuriati per la bocciatura di Marini (sono in tutto 82, e almeno un terzo di loro ha votato contro Prodi), di sabotare il piano di Bersani e riaprire i giochi. Il nome del capo corrente: naturalmente Massimo D’Alema. E ora? La partita che si apre è pazzotica ma alcuni piani ci sono. Renzi (che esce male da questa partita, Prodi era il suo candidato) proverà a fare un tentativo su Chiamparino (i suoi ambasciatori hanno avuto persino un colloquio con Berlusconi per cercare un’intesa) ma la strada è complicata. Per il resto i percorsi sono due: preso atto che non esiste un nome che può mettere insieme tutto il Pd (e Prodi non è più in campo) o si sceglie di puntare su Rodotà (praticamente impossibile) oppure si trova un candidato da eleggere in accordo con Monti e magari ancora coil Caimano (e un tentativo con Giorgio Napolitano il Pd lo farà). Queste le strade. Di sicuro c’è poco. Il vecchio Pd non esiste più. Si apre una fase nuova. Senza Bersani, con i vecchi colonnelli a guidare la nave (in primis Enrico Letta) e con i tiratori che hanno affossato Marini e Prodi che proveranno in tutti i modi ad avere un posto di comando sul barcone alla deriva del Pd. Diciamo.
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