Cinguettii, ansia da tabloid, ansia da Cnn. Che rimbambimento

Paola Peduzzi

“Real time is hard”, fare news in diretta è dura, ha sussurrato al telefono al Foglio un cronista americano, a metà della settimana appena trascorsa, quando l’America è rimasta vittima di un rimbambimento mediatico disperato e quasi ridicolo. Le bombe alla maratona di Boston – scoppiate quando in Italia i giornali si avviavano verso la chiusura in giorni già caotici per via del Quirinale – sono state raccontate e interpretate con l’ansia da prestazione: vogliamo sapere chi è stato, vogliamo saperlo subito, azzardiamo.

    “Real time is hard”, fare news in diretta è dura, ha sussurrato al telefono al Foglio un cronista americano, a metà della settimana appena trascorsa, quando l’America è rimasta vittima di un rimbambimento mediatico disperato e quasi ridicolo. Le bombe alla maratona di Boston – scoppiate quando in Italia i giornali si avviavano verso la chiusura in giorni già caotici per via del Quirinale – sono state raccontate e interpretate con l’ansia da prestazione: vogliamo sapere chi è stato, vogliamo saperlo subito, azzardiamo.
    I cinguettii su Twitter sono stati i primi a creare confusione, perché lì vale tutto, non si deve verificare, ci si può pure buttare dentro cinque refusi in 140 caratteri compromettendo la leggibilità del tweet stesso, per la fretta di esserci, ma poco importa, non ci sono vincoli, non c’è nemmeno un tetto a quante stupidate uno può cinguettare prima che il sistema gli imponga di smetterla. In fondo Twitter ha un suo lato buono, se così si può definire, che è quello di far circolare le immagini e i video, frammenti di quel che accadeva tra la gente che scappava, le gambe macellate, il sangue sulla strada, i primi salvataggi, le urla, le sirene, i pianti, la paura.

    Non ci fosse stato Twitter, il rimbambimento forse sarebbe arrivato dopo, ma ci sarebbe stato comunque, perché anche i grandi media, alle prese con l’emergenza e il “live”, hanno iniziato a dar credito a ogni ipotesi, a ogni testimonianza, a ogni ricostruzione. Per ore si è pensato che Boston fosse disseminata di ordigni, per ore si è pensato che le bombe fossero negli hotel e nella libreria JFK, per ore i pregiudizi hanno vinto sulla realtà, per non parlare della verità. A tenere alta la tensione dell’attacco simultaneo in più parti della città – con conseguente rimando alla tattica terroristica degli islamisti – è stato, nelle prime 24 ore, il New York Post, tabloid oggi del gruppo Murdoch che fu voluto, nell’Ottocento, dal padre fondatore degli Stati Uniti d’America Alexander Hamilton (allora si chiamava New York Evening Post). Diceva che i morti erano 12, quando le fonti ufficiali ne davano due (sarebbero poi diventati tre) e sosteneva, citando fonti anonime dell’Fbi, che ci fosse un ragazzo saudita fermato come autore della strage. La pista saudita s’accavallava a quella interna, con lo sdegno montante di quelli che chiedevano al New York Post di fare chiarezza sulle sue fonti o di tacere per sempre, e con la lista delle coincidenze, di quel filo di sangue che unisce il Patriot’s Day nella storia americana (Waco, Oklahoma) con la più recente delle ferite, quella della sparatoria nella scuola di Newtown e le immagini di quelle piccole bare ai funerali che non si cancellano dalla memoria. Mentre si consolidava il disprezzo nei confronti di quel tabloid così atipico per la cultura mediatica americana, per di più di proprietà di quel mostro di Murdoch, il tycoon spregiudicato disposto a tutto (notizia: sulla copertina di Bloomberg Businessweek in edicola da ieri, c’è il faccione di Rupert, il titolo “The Old Fox”, e un articolo che farà stramazzare tutti quelli che Murdoch-è-finito), il ragazzo saudita è stato davvero piantonato all’ospedale, la sua casa perquisita – routine post attacco, dicono le autorità, non sapete quante persone sono state controllate in questo modo. Il New Yorker, in un articolo che su Twitter è stato rilanciato migliaia di volte, meccanismo moderno di giustizia popolare, ha raccontato i dettagli della storia del ragazzo saudita, che si è ferito scappando dalle bombe e che di pericoloso aveva soltanto il fatto di essere, per l’appunto, saudita.

    Lo sdegno sarebbe rimasto a galleggiare nelle coscienze mediaticamente corrette ancora a lungo se nel frattempo non ci si fosse messa la Cnn – sì, la Cnn, quella che nella nostra porzione di mondo guardiamo famelici per la sua austera credibilità – a dire che erano stati finalmente trovati e catturati i responsabili delle bombe. “Stanno per comparire in una Corte federale”, dicevano gli alert, correggendosi sul numero dei sospetti, prima due, poi uno solo, infine nemmeno quello. Sul colore della pelle, poi: il sospetto è bianco, no nero, no “brown”, con tutte le speculazioni sulle varie sfumature di “colored” a scatenare polemiche e recriminazioni.
    Alla fine ognuno aveva il suo pezzo di verità, ma non sapeva collocarlo al posto giusto in una tragedia durata una settimana e finita con una caccia all’uomo da film, Boston paralizzata, le autorità che ripetevano: “State a casa, non uscite”, quando poche ore prima invitavano a non farsi tramortire dal panico, la vita va avanti. In continuo e pauroso “real time” s’è consolidata la pista dei due fratelli ceceni (per non perdere l’abitudine alla cantonata, un giornalista di Paris Match è stato fermato perché pareva un complice del fuggitivo), ma durante l’assedio eterno il generale rimbambimento è stato superato. Il real time è duro, ma passa in fretta, e noi dimentichiamo facile.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi